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La grande muraglia di Jiankou

Sto per coronare uno dei grandi sogni subacquei della mia vita, Tubbataha Reef, un atollo sperduto nel Mar di Sulu delle Filippine, a sud-est dell'isola di Palawan, assai difficile da raggiungere ed accessibile solo in un breve periodo dell'anno. Ma prima di immergermi in quelle strepitose barriere coralline tra mante giganti, squali balena e pesci di ogni genere e dimensione, mi aspettano tre giorni in Cina perché il volo per Manila, davvero super economico, prevede soltanto all'andata un lunghissimo stop a Pechino. Se non fosse stato per questo lungo scalo aereo, credo che in Cina nella mia vita non sarei mai andato visto che non è uno Stato che ha mai attirato il mio interesse, a livello culturale, storico, politico, paesaggistico o naturalistico. Anzi, devo esser sincero, a me la Cina, oggi, non piace proprio per niente. Non mi piace il suo modello di sviluppo, il suo “comunismo” che a mio avviso è tutto tranne che comunismo. Non mi piace il suo imperialismo militare nelle regioni autonome controllate ed il suo imperialismo economico nei paesi poveri del secondo e del terzo mondo. Non mi piace la sua pena di morte e la censura dell'informazione, non mi piace l'impossibilità di comunicazione alcuna col suo popolo, che mi è sembrato anche piuttosto freddo e disinteressato. Non mi è piaciuta storicamente la connivenza e la protezione fornita allo spietato regime dei Khmer rossi di Pol Pot: sul genocidio cambogiano la Cina ha innegabili gravissime responsabilità. E non mi piace oggi l'eccessiva ed ossessiva sorveglianza di massa digitale della popolazione, verso la quale sta tendendo evidentemente sempre di più anche l'Occidente.

Però, prima del paradiso di Palawan, due giorni pieni nell'inferno di Pechino, me li faccio molto volentieri: sarà l'occasione per vedere la storica Piazza Tien'anmen con il mausoleo di Mao Zedong e l'adiacente Città Proibita, i monumenti religiosi più importanti come il Tempio del Cielo e soprattutto visitare una delle “nuove sette meraviglie del mondo”, la Grande Muraglia.

Il Tempio del Cielo di Pechino al tramonto

Pechino è il centro culturale, politico e sociale, nonché capitale della Repubblica Popolare Cinese. Un delirio assoluto, una sconfinata e mostruosa megalopoli di ben 25 milioni di abitanti, qualcosa probabilmente nemmeno immaginabile da chi non ha mai visto città di queste dimensioni. Parliamo di un'area metropolitana grande quanto la metà dell'intero Belgio! Strade affollatissime, biciclette e motorini che invadono i marciapiedi, automobili impazzite che inondano arterie con numero di corsie rigorosamente in doppia cifra, incroci apparentemente impossibili da attraversare a piedi... E meno male che sono qui nel fine settimana... immagino il traffico il lunedì mattina o il venerdì pomeriggio!

Il primo indicatore economico “visivo” dello stato di ricchezza e benessere di una nazione quando arrivi è lo stato dei mezzi di trasporto. Vai a Cuba? Capisci subito perché fuori dall'aeroporto ti trovi di fronte Chevrolet degli anni '60 o carretti trainati da cavalli... e sono più le macchine ferme col cofano aperto per riparazioni improvvisate, che quelle in movimento. Vai in Africa? I mezzi sono rattoppati col fil di ferro, tutti arrugginiti con qualche milione di km alle spalle e diversi decenni di onorato servizio, con sbuffi neri come il carbone che fuoriescono da marmitte rumorosissime... qui a Pechino invece, veicoli ed autobus sono tutti nuovi.

Traffico nel centro di Pechino

Andando dall'aeroporto verso il centro, giganteschi quartieri dormitorio di periferia costituiti da centinaia di metri di palazzoni in serie e tutti uguali tra di loro, lasciano poco a poco lo spazio a grattacieli ed edifici in vetro ed acciaio; ovunque ci sono cartelloni giganti e display pubblicitari (anche di marche americane come la Coca Cola!) e persone che brulicano come formiche, con una fretta ed una frenesia tipiche delle città occidentali. Ma Pechino sa anche stupire: svolti un angolo, a fianco di una coppia di moderni grattacieli che si innalzano maestosi verso il cielo, ti aspetti di vedere un'arteria stradale di 250 milioni di corsie ed invece ti ritrovi magari in pieno medioevo, in un vicolo tranquillo, in un intricato labirinto di casette tradizionali basse. Sono gli “hutong”, gli antichi quartieri popolari, numerosi soprattutto nei dintorni della Città Proibita. Gran parte degli hutong originali è stata purtroppo demolita per lasciar spazio ai grandi quartieri moderni: globalizzazione e romanticismo, matematicamente parlando, sono inversamente proporzionali.

Per me in ogni caso, girare a Pechino, a piedi, in taxi o con i mezzi pubblici, è stato di una difficoltà infinita. Mai successo. Ho un ottimo senso dell'orientamento e mappa in mano posso arrivare in capo al mondo. Parlo inglese e spagnolo e sono abbastanza abituato ad affrontare situazioni nuove ed imprevisti. Ma qui davvero è stato tutto difficilissimo. Le distanze sono abnormi e soprattutto le barriere linguistiche e culturali sono insormontabili. Tutto è in cinese e nulla ma proprio nulla è tradotto, dunque non puoi comprendere la segnaletica stradale, le vie, gli incroci e le mappe della metropolitana. Nessuno parla inglese, nemmeno addirittura nelle agenzie viaggi, nei taxi o nei grandi hotel, dunque nemmeno puoi chiedere aiuto a nessuno. L'interazione con le persone del posto è impossibile ed oltretutto a me, nei 3 giorni trascorsi a Pechino, i cinesi sono sembrati anche alquanto scontrosi. Una cosa la ricorderò a vita: sputano ovunque nelle situazioni a noi più impensabili, emettendo versi sgradevoli. Una cosa davvero di cattivo gusto. Ho visto addirittura persone in fila in aeroporto sputare per terra, addirittura prendere per sbaglio altre persone, chiedendo scusa come se nulla fosse... Del tipo che se lo fa a me, parte immediatamente un destro alla Mike Tyson.

Il modello cinese: comunismo o capitalismo?

La capitale dello stato comunista per eccellenza a me è sembrata francamente il posto più capitalista, globalizzato e mercificato del mondo: se non fosse per le scritte in cinese, assolutamente incomprensibili, potresti benissimo esser nel centro di Manhattan...

Io, il "comunismo" cinese giuro che non l'ho mai capito. Non ho mai capito se la Cina sia uno stato comunista che ha sposato l'economia di mercato, oppure un paese a tutti gli effetti capitalista governato da un partito comunista autoritario. Probabilmente entrambe. Lo chiamano ossimoricamente, "capitalismo di stato" o anche "socialismo di mercato", come se capitalismo e stato, oppure socialismo e mercato fossero parole compatibili e non totalmente antitetiche. Lo Stato dirige, controlla ed orienta tutti gli aspetti principali dell'economia, sia pubblici che privati, ma le imprese, al netto di una tassazione progressiva più o meno simile a quella italiana, e con molti bonus ed agevolazioni fiscali, conservano tutti i profitti senza destinarli al governo a beneficio di tutta la popolazione. Il processo di privatizzazione ed apertura agli investimenti esteri ed al mercato globale dell’economia cinese, avviato nel 1978 da Deng Xiaoping e culminato con l'adesione del 2001 al WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) è inesorabile, veloce e costante. Oggi l'economia è fortemente finanziarizzata ed il settore privato ha rapidamente soppiantato il pubblico: negli anni '70, le imprese statali producevano l’intero prodotto industriale, mentre oggi meno di un quinto. L'impiego pubblico dei lavoratori, analogalmente è passato dall'80% del totale prima delle riforme, a circa il 15% di oggi, anche se questi numeri vanno un po' contestualizzati, perché in Cina la distinzione tra pubblico e privato non è chiara come in Occidente. Lo stato, sempre meno ingerente nell'economia, ha anche quasi abolito la determinazione centralizzata dei prezzi: prima del 1978, praticamente tutti i prezzi dei prodotti agricoli, delle merci e dei prodotti industriali erano determinati a tavolino dal partito, mentre oggi lo sono rispettivamente solo il 20%, il 7% ed il 20%. Il mercato dunque è "quasi" a briglie sciolte. Il modello cinese è tutt'altro che comunismo o socialismo. E' piuttosto un ibrido inedito, in cui le aziende di Stato conservano la loro centralità ma con maggior "disciplina di mercato", mentre le aziende private acquisiscono sempre maggiore potere ma con una "disciplina di partito", che le vincola maggiormente, anche a discapito degli utili, alle priorità nazionali.

Nonostante le enormi contraddizioni, la Cina si considera comunque uno stato comunista poiché il Partito detiene un ampio potere sull’economia del paese: è sempre sopra tutto, una specie di "Socing" orwelliano che può guidare e influenzare il mercato in modo centralizzato a seconda degli obiettivi strategici di breve, medio e lungo periodo. Almeno a "chiacchiere", secondo loro, il passaggio ad un'economia capitalista era inevitabile, il comunismo rappresenta l'obiettivo ultimo di lungo termine (ed ovviamente questo termine non è mai specificato) e quella attuale sarebbe una fase intermedia socialista. Inoltre se è vero che la piccola e media impresa è oramai quasi tutta privata, di contro la maggior parte delle grandi imprese cinesi, nel settore energetico, petrolchimico, bancario, edilizio e di telecomunicazioni sono ancora di natura statale. Colossi privati come Huawei o Alibaba comunque mantengono strettissimi legami di collaborazione con il governo centrale, e le aziende private anche piccole, hanno al loro interno membri del partito che ne controllano l'operato. Finché gli obiettivi "capitalistici" (leggasi accumulo irragionevole di ricchezza) sono comunque in linea con gli obiettivi del governo, esse rimangono totalmente libere di operare in totale autonomia ed indipendenza. I punti di contrasto rimangono del tutto arbitrari ed a discrezione del governo: come è facile immaginare, sorgono svariate ambiguità dove la corruzione si infiltra in maniera drammatica. Il controllo politico statale del mostro capitalista avviene in pratica soprattutto grazie alla applicazione arbitraria del diritto lasciata in mano ai tribunali locali ed alla burocrazia cinese, entrambi sotto il controllo diretto del PCC, il quale può decidere la vita, la morte, le assunzioni ed eventuali licenziamenti, le trasformazioni e le strategie di aziende private senza appello. Il controllo del partito sull'economia liberale si è fatto negli ultimi anni sempre più forte: se Mao Zedong voleva abolire il capitalismo e Deng Xiaoping ha trasformato il Dragone nel paese più capitalista del mondo, ora Xi Jinping vuole imprimere alla prima potenza economica del mondo una direzione netta, imponendo al capitalismo sfrenato una sola semplicissima regola e condizione: per esistere e continuare a macinare denaro, deve obbedire in tutto e per tutto al PCC.

Tale sottomissione ad un Partito, costituisce in pratica la differenza più grande del modello cinese col capitalismo di stampo occidentale, dove lo strapotere liberale è in teoria limitato dallo stato, ma in pratica tutto avviene in totale "leissez faire" perché le costituzioni socialiste nazionali sono sempre più mortificate, sovrastate e depotenziate dall'adesione scellerata degli stati a trattati internazionali turboliberisti.

È innegabile che un tale sistema, anche a scapito della tutela dei diritti umani, ha consentito una crescita economica paurosa, inimmaginabile negli anni '70 e costantemente in doppia cifra, facendo uscire centinaia di milioni di persone dalla povertà. Ma non è tutto oro quello che luccica. Disuguaglianze forti sono ancora presenti, anzi, oggi indubbiamente più di prima: inevitabile "per costruzione" quando si passa ad un'economia liberale che insegue l'assurdo obiettivo della crescita infinita in un mondo dalle risorse finite. Inoltre, la progressiva urbanizzazione della popolazione ha generato un drastico e netto peggioramento della qualità di vita: il popolo è mediamente più ricco, ma assai più infelice ed alienato, diventato ben presto schiavo di modelli di produzione ed iperconsumo sprezzanti dell'ambiente che non gli appartenevano. Le megalopoli sono sempre più invivibili e l'aspettativa di vita, che era aumentata costantemente negli anni, ora comincia a ridursi perché le malattie da inquinamento e stress prendono il sopravvento.

Se guardiamo il PIL allora la Cina zittisce tutti ed il discorso è chiuso in partenza. Hanno ragione loro, ed il modello è vincente. Punto. Al diavolo pure i diritti civili e le libertà di base se la collettività ha un beneficio superiore. Ma se guardiamo al BIL, il famoso indicatore del Bhutan dello stato di benessere di una popolazione, è un disastro assoluto. La Cina è agli ultimi posti nel mondo con qualità di vita pessima e tasso di suicidi ed incidenti sul lavoro aumentato in maniera direttamente proporzionale al PIL. Tra il lavorare poco in campagna ed il lavorare troppo, secondo il famoso orario "996" (ovvero 12 ore continuative dalle nove di mattina alle 9 di sera per 6 giorni alla settimana), in una città orribile super inquinata dormendo in casermoni e dormitori grigi e tristi, non c'è molta differenza perché in entrambi i casi non si vive bene. Anzi, io francamente, sceglierei il primo.

Io credo che un modello economico che non metta al centro contemporaneamente la felicità dell'uomo, l'interesse della collettività e la tutela dell'ambiente, sia un modello sbagliato e destinato al fallimento. Ecco perché sono contrario al capitalismo, che ritengo “per costruzione”, violento con l'uomo, con la società e con la natura. Ed ecco perché, allo stesso modo, a me il modello cinese non piace.

Mi risulta poi davvero difficile definire comunista o socialista un sistema dove sempre più persone girano in Ferrari o Lamborghini mentre operai salariati lavorano stakanovisticamente nelle fabbriche ammassandosi nei quartieri poveri di periferia o bambini poveri scalzi mangiano sul ciglio della strada ciotole di riso e bevono acqua sporca. Mi risulta difficile definire comunista uno stato che soffoca violentemente proteste studentesche ed operaie per la tutela dei loro diritti: soprattutto ora con la leadership di Xi Jinping lo spazio per l'attivismo operaio in Cina si è drasticamente ridotto a colpi di arresti e brutale repressione del dissenso. Uno stato che lotta per instaurare in un futuro più o meno lontano una “dittatura del proletariato” e poi schiaccia il proletariato stesso che chiede più diritti e condizioni più umane dovendo gestire orari di lavoro e pressioni insostenibili, permettetemi, francamente mi sembra una comica. La Cina se ne frega anche della "disoccupazione tecnologica" e sostituisce progressivamente i lavoratori delle fabbriche con robots per aumentare la produttività delle imprese, sottomettendosi dunque a logiche puramente capitalistiche, perché l'orribile parola “produttività” è la sintesi estrema dell'ideologia capitalista: produttività massima è il verbo, a prescindere da considerazioni di carattere umano, sociale ed ambientale. Per non parlare poi della pesante limitazione della libertà di religione e di espressione e del fatto che il Dragone, anche se molto attivo nel settore delle energie rinnovabili, è comunque il primo emettitore di CO2 del pianeta a causa soprattutto delle sue centrali a carbone.

Mi risulta difficile definire comunista uno stato che nel 2021 per la prima volta ha sfondato il tetto dei 1000 miliardari, superando gli USA che detenevano il primato e diventando il primo paese al mondo per numero di paperoni. Mi risulta difficile comprendere un sistema che fa dell'uguaglianza, o perlomeno di un tentativo di limitazione delle differenze economiche eccessive, un principio cardine ed invece ha ben 40 persone nella classifica dei 100 uomini più ricchi del pianeta.

Ammetto comunque che sto esprimendo un giudizio su qualcosa che ho studiato a sufficienza, ma che conosco personalmente “sul campo” poco o nulla. E difatti la Cina è spesso motivo di discussione e sano dibattito con persone comuniste purosangue ben più “sinofile” di me. Spesso nella vita ho cambiato idea. Non principi, ma idea. Ho la fortuna di appartenere alla categoria di persone che non si fanno alcun problema a chiedere scusa, riconoscere di aver preso un gran bel granchio e far marcia indietro.

Esistono altri aspetti comunque che mi fanno prender le distanze dal modello comunista (o socialista? o capitalista?) cinese: il loro imperialismo economico e sempre più spesso militare, il controllo capillare dell'informazione e la sorveglianza digitale di massa della popolazione.

La Cina è imperialista?

A mio avviso, per rispondere alla difficile domanda di cui sopra, non possiamo che partire dalla definizione stessa del termine. L'imperialismo è la tendenza di uno stato capitalista a risolvere le inevitabili contraddizioni economiche interne, insite nel modello stesso, con una proiezione più o meno aggressiva, più o meno militare verso l'esterno. Per Lenin, l'imperialismo è la fase suprema stessa del capitalismo, il quale generando accumulo di denaro e potere sempre maggiore e sempre più concentrato, determina la formazione progressiva di oligopoli potentissimi che sfociano nella spartizione del mondo da parte di un pugno di imprese monopolistiche tramite anche l’esportazione di capitale.

L'imperialismo dunque, per lo meno per come la vedo io, non va visto solo come un fenomeno politico-militare di aggressione bellica colonialista, ma ha radici di natura esclusivamente economica. Poi può esser più o meno violento, più o meno aggressivo, più o meno mascherato da fini “umanitari”. Fatto con strade e ferrovie o con le bombe. Ma è comunque una diretta conseguenza del capitalismo nel suo stadio avanzato. E personalmente lego tale tale parola ad un'altra: sfruttamento. Per me quando c'è uno stato sfruttato ed uno sfruttatore esterno, c'è sempre imperialismo.

E' possibile dunque parlare di imperialismo per uno stato comunista? No, se lo stato è comunista o socialista puro, indipendente, sovrano, proiettato all'interno e non all'esterno, né sfruttato né sfruttatore, internazionalista, con sani e pacifisti principi di solidarietà e cooperazione internazionale. E la Cina, come abbiamo visto non lo è. Non è comunista. E' un ibrido. Pensiamo un attimo: Cuba ha mai invaso qualcuno? Ha mai imposto un suo modello di sviluppo ed economia a stati confinanti, o al contrario si è sempre dovuta difendere dagli attacchi imperialisti dello Zio Sam e dai suoi vergognosi embarghi? E la Bolivia socialista di Evo Morales? Ed il Venezuela di Chavez o Maduro? Il Nicaragua sandinista o il Cile di Allende? Tutti questi stati socialisti, per quel che ne so io, ma avvertitemi se mi sbaglio, mi risulta si siano fatti sempre i cazzi rigorosamente loro.

La Cina no. La Cina occupa territori che non gli competono come il Tibet fin dal 1951 imponendogli con violenza la propria cultura, distruggendo, soffocando o rendendo illegali progressivamente le forme di arte, i luoghi di culto, la lingua, gli usi ed i costumi, le credenze religiose autoctone e costringendo all'esilio il Dalai Lama, capo spirituale e politico del popolo tibetano. Le repressioni negli anni hanno prodotto svariate decine di migliaia di morti e non si contano più i monaci tibetani pacifisti che rifiutando la guerra, si danno fuoco pubblicamente in segno di protesta col governo cinese.

La Cina reprime violentemente spinte indipendentiste anche in altre regioni come lo Xinjiang o Taiwan, che come il Tibet, sono caratterizzate da un storia autonoma loro e da chiare differenze etniche religiose e linguistiche. E Xi Jinping, il più potente leader cinese dopo Mao Zedong, non usa mai giri di parole parlando dei separatisti. In una recente visita in Nepal dirà: «Faremo a pezzi i sostenitori del separatismo in Cina». Domanda: chi sono gli sfruttati e chi gli sfruttatori?

La Cina ha poi politiche economiche ultra aggressive, francamente molto poco trasparenti e decisamente discutibili, un po' dappertutto, principalmente nei paesi in via di sviluppo del terzo mondo del sud-est asiatico, del Centro-Sud America e dell'Africa.

La sua espansione è però diversa da quella coloniale occidentale, soprattutto francese, inglese ed americana, basata prima sulla falsa diplomazia che deve far credere al popolo che ogni tentativo possibile è stato fatto per evitare la guerra, e poi sull’uso della forza militare, giustificata nel popolo dalle bufale messe in piedi dalla stampa compiacente e da enormi minchiate costruite a tavolino dal nulla da agenzie di comunicazione. L'imperialismo occidentale deriva da un sistema dichiaratamente capitalista, dove l'industria bellica va sfamata e dunque alimenta in un circolo vizioso il sistema capitalista stesso, che pertanto finisce di nutrirsi voracemente della guerra. Il capitalismo si nutre della guerra anche perché ha una tendenza storica alla distruzione e ricostruzione: per sopravvivere deve distruggere e ricostruire, tanto l'economia quanto l'uomo, la società e l'ambiente. Capitalismo, imperialismo e guerra sono sinonimi.

L'espansionismo cinese si basa invece molto di più sul credito concesso a tassi eccellenti che diventa prima debito, poi ricatto ed infine espropriazione di asset pubblici strategici; si basa molto sulla penetrazione culturale, sulla corruzione dei capi di stato di paesi poverissimi, sulla mercificazione dell'esistenza e soprattutto su investimenti infrastrutturali in territori che ne sono totalmente sprovvisti. La Cina è campione mondiale di costruzione di ferrovie in Africa, ma solo rigorosamente quelle che interessano a lei per trasportare le merci dalle miniere ai porti d'imbarco.

A mio avviso, quello cinese è una forma più subdola, meno violenta ma egualmente grave di imperialismo. I morti non si fanno in sostanza con le armi, ma col dominio economico, anche imponendo a tutto il mondo globalizzato capitalista la delocalizzazione produttiva per contrastare il suo dominio. Chiunque lavora in Italia si è dovuto scontrare con i prezzi folli del Dragone, che ha imposto ribasso dei prezzi e deflazione salariale alle aziende per poter competere; senza la possibilità di metter dazi, una bestemmia per i liberisti ed i capitalisti nella logica del libero mercato, si è spacciati.

Ho visto ad esempio nel mio lavoro di progettazione e realizzazione di impianti fotovoltaici, grandi aziende italiane di eccellenti moduli fallire, o chiudere i battenti, o licenziare e trasferire tutto nei paesi dell'est, a causa delle politiche aggressive cinesi che inondavano il mercato europeo di pannelli a metà prezzo. Io continuavo ad acquistare moduli italiani, della Xgroup e della Solsonica, incurante delle aziende concorrenti alla mia che vendevano di più acquistando container cinesi. Io ho sempre e solo acquistato materiale italiano, per principio, per sostenere l'economia italiana. Vendevo meno, perché la qualità dei materiali e la competenza si paga, ma ero più felice ed in pace con la mia coscienza.

La colonizzazione cinese dei paesi poveri è inarrestabile e ne ho parlato già molto nel post di viaggio “Dar Es Salaam”. L'atteggiamento predatorio ed imperiale del dragone in Africa è innegabile: ha sete di tutto, di energia, di acqua, di materie prime, di metalli preziosi e minerali strategici per l'industria dell'IT come il Coltan, di terre agricole mediante “land grabbing”. E in territori quasi ancora vergini e selvaggi, fanno un po' quello che facevano i romani per legare tra loro le colonie dell'impero, ovvero costruiscono vie di comunicazione e città intere dal nulla. Spesso, invece di costruire porti o infrastrutture per esportare le merci depredate, si appropriano di quelle esistenti con un sistema semplicissimo, prestando denaro a tasso super agevolato, addirittura nullo, a paesi poveri bisognosi di valuta estera ma imponendo clausole capestro che portano all’esproprio delle opere pubbliche finanziate o di altre importanti strutture strategiche.

E' indubbiamente vero che le condizioni offerte da Pechino sono molto migliori di quelle del Fondo Monetario Internazionale condizionate dai famigerati PAS, ma è altrettanto vero che i prestiti sono diretti esclusivamente a costruire infrastrutture finalizzate alla penetrazione delle merci cinesi nei mercati locali e al controllo delle risorse naturali. Ed il tutto in competizione con le potenze occidentali, dunque in piena logica capitalista competitiva e non instaurando un modello socialista alternativo, aggravando così ulteriormente la dipendenza dall’esportazione di materie prime delle economie coinvolte ed ipotecandone ancor di più lo sviluppo economico e produttivo.

Secondo il “comandante della felicità” Thomas Sankara, «l'imperialismo è un sistema di sfruttamento che si verifica non solo nella forma brutale di chi viene a conquistare il territorio con le armi. L'imperialismo avviene spesso in modi più sottili. Un prestito, l'aiuto alimentare, il ricatto […] Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall'imperialismo, è una riconquista dell'Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee».

Non sono dunque io a rispondere alla domanda iniziale del titolo del capitolo, ma è l'immenso capitano Sankara del Burkina Faso, assassinato dalla Francia e dalla CIA.

La Cina è imperialista? Sì, assolutamente sì. La Cina è uno stato imperialista. Ed in quanto tale la condanno. Ed il suo modello non mi piace.

Il “comunismo dell'informazione e della sorveglianza"

Il Partito Comunista gestisce e controlla totalmente tutti i mass media. Nulla esiste al di fuori della visione e della narrazione del Partito in un flusso di informazioni totalmente unidirezionale: il Partito decide cosa mostrare o meno, cosa censurare o cosa permettere, cosa far uscire dal paese e cosa no. La vicenda Coronavirus è stata emblematica. Di quello che è accaduto realmente in Cina sappiamo ancora oggi poco o nulla. La libertà di espressione oggettivamente ed innegabilmente è limitata.

L'autoritarismo ed il controllo rigoroso delle religioni è cresciuto ancor di più con Xi Jinping il quale ha portato il culto della sua personalità a livelli senza precedenti, imponendo addirittura nei luoghi di culto e nelle case dei credenti la sostituzione dei simboli religiosi con i ritratti suoi e di Mao Zedong. In Cina se si è cattolici o credenti di qualche fede, non si può ambire a ruoli pubblici o arruolarsi nell'esercito.

L’avvento di Internet è stato al tempo stesso un grande problema ed una grande opportunità, in quanto è vero che ha trasformato ogni persona in un generatore di informazioni accessibili a tutto il mondo, ma è anche vero che ha permesso di controllare in una maniera precedentemente inimmaginabile milioni di individui con un clic.

Il Ministero della Pubblica Sicurezza cinese (MPS) monitora e vieta tutti i contenuti che potrebbero minare la stabilità del governo o comunque ritenuti dannosi per l’armonia e la stabilità della società cinese. Anche un semplice orsetto dei cartoni animati come Winnie the Pooh può esser pericoloso: nel web cinese non esistono sue immagini o video, in quanto questo avrebbe una vaga somiglianza con il leader Xi Jinping! Dalle reti Internet sono bandite chiaramente tutte le informazioni sulla provincia dello Xinjiang nel nord-ovest della Cina dove le tensioni dovute alle aspirazioni indipendentiste dei gruppi etnici sono costanti e la repressione militare cinese sembra essere sempre piuttosto violenta, oppure tutte le notizie sulle “tre T”, ovvero Tibet, Taiwan e Tien'anmen, temi estremamente caldi sui quali il partito non fa sicuramente una bella figura ed ha gravi responsabilità.

Dal web sparirono nel 2010 tutte le immagini di "La sedia" di Vincent Van Gogh, perché questo dipinto simboleggiava l'assenza di Liu Xiaobo a Oslo per il ritiro del premio Nobel per la pace. Era uno scrittore, docente ed attivista cinese per i diritti umani morto in carcere mentre stava scontando una pena di 11 anni per aver espresso, sempre pacificamente, critiche all'operato del Partito, invocando libere elezioni e libertà d'informazione. Per carità, ho una pessima stima del premio Nobel per la pace... Figurarsi che è stato dato addirittura a Barack Obama ed all'Unione Europea entrambi portavoci dell'imperialismo guerrafondaio del patto atlantico... però non può esser giusto un sistema che impedisce la libera informazione, anche se questa è totalmente contraria alle idee giuste socialiste dello stato. Il PCC reagì molto duramente all'assegnazione del Nobel all'attivista e ne impedì in ogni modo il ritiro, addirittura mettendo agli arresti domiciliari tutti i membri della sua famiglia per evitare che andassero in Norvegia a prendere il premio e potessero esser intervistati dai media stranieri.

Ovviamente sono irraggiungibili dai server cinesi siti d'informazione stranieri come quello del New York Times o del Wall Street Journal, forse anche Repubblica, ma quella non è decisamente una gran perdita viste le cazzate che sforna a ritmo serrato; non possono poi esser utilizzati i social network occidentali come Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest etc..., cosiccome motori di ricerca come Google o Yahoo. E nemmeno la pornografia sfugge a tale regola.

La censura massmediatica cinese è evidentissima, indubbia e fuori discussione perché è fatta direttamente dal PCC che controlla e vigila sui giornalisti, dall'alto verso il basso. Per quanto mi riguarda, è assolutamente condannabile, senza se e senza ma. Non appartengo a quella categoria di persone che da anticapitaliste non vedono o ignorano le storture e le nefandezze dell'altro modello. Io l'ho sempre pensata in questo modo, anche con Cuba, anche se la censura è funzionale alla protezione del paese dagli attacchi imperialisti esterni, costanti, martellanti, destabilizzanti: il fine non giustifica i mezzi. Io credo che il popolo deve esser portato al socialismo mai con la forza e la repressione, ma attraverso la consapevolezza che questo è un modello economico decisamente migliore rispetto al capitalismo perché al contrario di quest'ultimo può garantire felicità al singolo, benessere generale alla collettività, e tutela dell'ambiente naturale. Dunque educazione e formazione del popolo, mai censura. Altrimenti il modello è destinato inevitabilmente al fallimento.

Ovviamente i media occidentali, nella loro costante opera di mistificazione della realtà, non perdono mai occasione per denunciare la censura esercitata dal governo cinese. Ma loro? Da noi invece cosa accade? La censura massmediatica cinese, innegabile, è semplicemente diversa rispetto a quella occidentale. E aggiungo, assolutamente non peggiore. Semplicemente diversa. Da noi è sottile, subdola, nascosta. Non può esser fatta con le modalità cinesi perché sarebbe inaccettabile e crollerebbe il mito della pluralità e della libertà dell'informazione, costituzionalmente garantita. Bisogna far credere a tutti, giornalisti inconsapevoli compresi, le vere marionette del sistema, che l'informazione è libera ed indipendente. Il modo migliore per i gruppi di potere economico-finanziari che devono propagandare il verbo capitalista e neoliberista, è proprio quello di assicurarsi la proprietà dei principali mezzi di informazione potendo così mantenere lo status-quo e gli attuali equilibri di potere nella società, eventualmente garantendo eccellenti carriere ai fedeli sudditi pennivendoli ed ostacolando o distruggendo quelle dei giornalisti non asserviti, liberi ed indipendenti. L'informazione è così oggi in Europa tutta pura e semplice becera propaganda atlantista, europeista ed imperialista. Si possono comprare 10 giornali diversi e si leggeranno le stesse identiche notizie. L'opinione contraria, il dissenso, viene permesso. Certo che viene permesso, ma trova molto poco spazio immerso nel mare del pensiero unico martellante h24, e viene costantemente screditato, denigrato, deriso ed umiliato. Azzerato senza il minimo uso della forza. La vicenda Covid dovrebbe in tal senso, far capire qualcosa. La popolazione in massa ha creduto e continua ancora a credere a balle clamorose del mainstream che non hanno e mai hanno avuto il minimo fondamento scientifico e costituzionale, sulla base della semplice martellante propaganda.

Non vedo francamente differenze tra la censura cinese e quella occidentale. Gli strumenti sono diversi, ma il fine è lo stesso. Propagandare il pensiero unico, in un senso e nell'altro, tacciando del tutto o screditando, il dissenso e la diversità d'opinione.

Ma la priorità del partito comunista cinese è la sorveglianza di massa digitale della popolazione tramite telecamere in ognidove, sistemi di riconoscimento facciale e vocale, GPS, smartphones ed altro: nulla può e deve più sfuggire allo sguardo del Grande Fratello in questa gigantesca, maniacale, ossessiva operazione di "spionaggio sociale" finalizzata all'indottrinamento ed al controllo del dissenso, che probabilmente cambierà per sempre il concetto stesso di libertà e privacy. In Cina, tutto ciò è già piena realtà ed il popolo oramai ha accettato la misura come inevitabile. Per quanto mi riguarda, anche se effettuata a fin di bene, per l'interesse della collettività ed a favore del socialismo, questa è la cosa più inquietante in assoluto, più incompatibile con l'essenza stessa dell'essere umano, perché apre scenari orwelliani terribili: mai come oggi in Cina, mai come oggi nella stessa Europa con l'introduzione di pseudo monete digitali e di abominevoli Green Pass, il romanzo 1984 di George Orwell è stato così attuale.

Il sistema più diabolico di tutti è quello del "credito sociale" che valuta le azioni reali e virtuali di tutte le persone, le aziende, le organizzazioni mediante un sistema a punteggio con premi, punizioni, divieti o addirittura umiliazioni pubbliche a seconda del proprio comportamento nel mondo virtuale del web e nel mondo reale della vita di tutti i giorni. Passo col rosso? Meno 50. Dono il sangue? +45. Scrivo a favore del partito? +100. Non pago la bolletta o prendo una multa? -200. Pago la multa? +150... I premi al buon cittadino o al buon membro di partito possono esser sconti in bolletta o acquisti agevolati in negozi convenzionati. Le punizioni invece sono il divieto di acquistare biglietti di treni o aerei, il mancato accesso a lavori statali, o addirittura la propria faccia sbattuta a tutto schermo in un gigantesco display digitale del centro di Pechino. L'esistenza delle persone diventa pertanto una sorta di rincorsa continua al punteggio premio per avere benefit o agevolazioni: l'uomo diventa un numero, un codice a barre. Transumanesimo allo stato puro.

Il sistema di credito sociale ad onor del vero non ha natura esclusivamente repressiva in quanto non ha interesse a punire direttamente le persone perché ciò creerebbe sfiducia e malcontento; tende piuttosto a premiare i cittadini meritevoli per diffondere una clima positivo e così il numero di ricompense è più alto del numero di possibili punizioni ed è più facile scalare la classifica che scendere di posizione. Ciò comunque non lo giustifica minimamente e non impedirebbe ad un regime più autoritario in futuro di utilizzare ad esempio tale tecnologia in modo più repressivo.

Basta con questa tecnologia impazzita ed asfissiante! Voglio un ritorno al romanticismo del passato! Non all'età della pietra, sicuramente... Ma credo che prima dell'avvento degli smartphones e con internet comunque già esistente per soddisfare il bisogno di informazione libera e migliorare la comunicazione mondiale, stavamo tutti complessivamente meglio. Voglio tornare al romanticismo della cabina telefonica e delle macchine fotografiche analogiche! Preistoria? No. Parliamo di nemmeno 20 anni fa...

Il massacro di Piazza Tien'anmen ed il “rivoltoso sconosciuto

Prendo la metropolitana e giungo a Tien'anmen, il luogo più famoso e storicamente importante di Pechino e dell'intera Cina, una delle piazze più grandi del mondo, un colossale rettangolo con dimensioni di quasi un chilometro di lunghezza per mezzo di larghezza, con al centro un obelisco alto 38 metri (il monumento agli Eroi del Popolo) e l'enorme bandiera rossa cinese che sventola. Oggi è completamente vigilata, quasi blindata ed è possibile accedervi solo attraverso rigorosi controlli elettronici di polizia posti in tutti gli accessi laterali.

Fermata metro di Piazza Tian'Anmen

La piazza è sempre affollatissima di turisti cinesi e non, in visita ai musei nazionali, alla sede del governo, alla Città Proibita ed al Mausoleo di Mao Zedong, l'edificio che custodisce il corpo imbalsamato del filosofo, politico e leader rivoluzionario comunista, presidente del PCC dal 1943 fino alla sua morte, nel 1976.

Piazza Tian'Anmen e l'arteria principale Chang'an visti dal mausoleo di Mao

Selfie di fronte al mausoleo di Mao Zedong in Piazza Tian'Anmen

La Città Proibita si può considerare l'attrazione turistica principale della Cina, insieme alla Grande Muraglia e l'Esercito di terracotta di Xi'an: costruita all'inizio del 1400, è stata per circa 500 anni la dimora degli imperatori delle dinastie Ming e Qing e delle loro famiglie, nonché il centro delle cerimonie e di tutti gli eventi politici del governo.

Vista sui tetti della Città Proibita dal parco JingShan

E' il più grande complesso di palazzi esistente al mondo, con quasi mille edifici dell'epoca imperiale sopravvissuti fino ad oggi, in una superficie rettangolare superiore addirittura alla stessa adiacente Piazza Tien'anmen, con lato maggiore nord-sud di 961 metri e lato minore est-ovest di 753 metri. Purtroppo, la Città Proibita sarà a me... proibita. Sigh sigh... Sono atterrato ieri sera che era sabato, e proprio oggi, domenica, è giorno di chiusura. Domani devo “scalare” Jiankou ed arrivare fino a Mutianyu per poi partire la notte per le Filippine, non ho dunque altri giorni disponibili per visitarla.

Non mi resta che ammirarla al tramonto, nel posto più romantico di Pechino, il parco Jingshan, una famosa collina artificiale poco distante da Piazza Tien'anmen creata con la terra di riporto degli scavi per la costruzione del famoso complesso imperiale: qui il caos del centro magicamente scompare, lasciando spazio a giardini e laghetti con fiori di loto, siepi ben curate, tempietti e scalinate di pietra che consentono la salita alla cima della montagnola dalla quale si può avere una vista privilegiata e quasi commovente dei tetti della Città Proibita.

La porta della Pace Celeste

Uno degli ingressi della “Forbidden City” è la famosa Porta della Pace Celeste o Porta di Tien'anmen nell'omonimo palazzo imperiale simbolo nazionale della Cina, proprio dove si trova fin dal 1976 il gigantesco ritratto appeso di Mao Zedong. E' proprio qui che il leader comunista ha proclamato il 1° ottobre 1949 la nascita della Repubblica Popolare Cinese.

Piazza Tien'anmen è stata sempre il centro dei principali eventi politici della Cina: è qui, come tutti sanno, che si sono concentrati i famosi movimenti di protesta della Primavera Democratica Cinese del 1989, repressi duramente nel sangue.

Accadde tutto esattamente 30 anni fa, anche se la situazione in Cina era in realtà esplosiva e fuori controllo fin dal 1987: il dissenso nei confronti del potere, soprattutto nelle università, era sempre più evidente ed incontenibile. La scintilla che accese la miccia della bomba, fu la morte di Hu Yaobang, leader del Partito Comunista sostenitore di aperture democratiche: il 15 aprile 1989, ben 100.000 studenti si riunirono sotto il grande ritratto di Mao per protestare contro il governo e chiedere più democrazia e meno corruzione, rendicontazione onesta dei redditi dei leader politici, più libertà d'espressione ed opinione, più fondi all'istruzione, dando inizio ad una serie di manifestazioni popolari di massa, che durarono quasi due mesi.

Oltre 3000 persone cominciarono un radicale sciopero della fame e molti di loro svennero più volte e necessitarono di cure mediche. Tentativi di dialogo vennero portati avanti dal segretario del PCC Zhao Ziyang, che divenne ben presto il principale rappresentante governativo della linea della conciliazione, in contrapposizione con Deng Xiaoping, forte sostenitore invece della linea dura, esattamente come gli “Otto immortali”, un gruppo di vecchi combattenti maoisti, totalmente svincolati da cariche governative, ma detentori di un grande potere decisionale, del tutto onorifico e non istituzionale.

Verso fine maggio, la protesta sembrava aver perso slancio, fiaccata dal tempo e dalla inamovibilità del governo centrale: ai manifestanti mancava un'organizzazione superiore che sapesse indirizzare il corso degli eventi, così, sotto il peso delle responsabilità e delle pressioni, i leaders studenteschi si divisero in intransigenti e favorevoli al ritiro ed allo sgombero della piazza.

Le proteste ripresero vigore quando i ragazzi dell'accademia delle Belle Arti piazzarono una enorme statua di polistirolo alta 10 metri vagamente rassomigliante alla Statua della Libertà di New York, chiamata “dea della democrazia” proprio nella piazza e di fronte al ritratto di Mao. Ma il PCC di Deng, che inizialmente aveva temporeggiato, ora aveva già deciso. La situazione era diventata insostenibile e stava bloccando tutto il paese. Zhao fu destituito, messo agli arresti domiciliari e dimenticato per sempre; il 20 maggio fu proclamata la legge marziale (esattamente quella che il civilissimo Canada del “democratico” Justin Trudeau, nel momento in cui scrivo, ha introdotto per contrastare l'enorme ondata di proteste in tutto il paese contro la dittatura sanitaria in vigore e che al momento ha già fatto 3 morti). Il 2 giugno Deng decise che la piazza dovesse esser liberata “con tutti i mezzi necessari” entro due giorni, entro le 6 di mattina del 4 giugno, ed inviò l'esercito per disperdere i manifestanti, che dal canto loro cominciarono a costruire barricate cercando di resistere con ogni mezzo, sassi, bastoni e canne di bambù, ma anche coltelli, mazze e catene di ferro. Spuntarono armi da fuoco. E benzina, e molotov. E gas asfissianti. Il risultato fu una strage, non solo nella piazza e nelle vie d'accesso limitrofe, ma anche in aree meno centrali come il grande incrocio di Muxidi, dove i soldati spararono ad altezza uomo contro un muro di folla costituito da migliaia di persone armate di pietre e bottiglie di vetro che volevano contrastare l'avanzata degli autoblindi. E poi silenzio improvviso. Tanto silenzio. E pianti. E sirene delle ambulanze. Un massacro, il cui bilancio ufficiale non è mai stato accertato: la stima dei morti varia da parecchie centinaia a parecchie migliaia, con migliaia di feriti. Sulla base delle relazioni datate 4 giugno provenienti dagli ospedali della città, il governo di Pechino stimò che morirono più di duecento studenti e cittadini e circa 20 soldati dell'esercito, ma è ragionevole supporre che furono decisamente molti di più. Ed è probabile che dopo la fine delle proteste seguirono diverse esecuzioni dei rivoltosi da parte delle autorità cinesi. Fatto sta, che come richiesto da Deng Xiaoping, 20 minuti prima della scadenza da lui imposta, alle 5.40 del 4 giugno, Piazza Tien'anmen era sgombra, anche se poi i disordini continuarono in tutta Pechino ed in svariate decine di altre città cinesi, ancora a lungo.

Il massacro di Piazza Tien'anmen, rimane a tutt'oggi un argomento tabù per il governo cinese che non ha mai riconosciuto responsabilità nell'uso della violenza per la repressione della rivolta, né ha mai voluto commemorare e ricordare le tante vittime civili, ma solo le poche militari.

Maggio 2019: sono davanti al mausoleo di Mao Zedong, e non posso non pensare che proprio qui, esattamente 30 anni fa, c'era l'inferno. Di fronte a me, l'enorme arteria cittadina di Chang'an che costeggia Piazza Tien'anmen. Non è un'arteria qualsiasi questa. E' il luogo simbolo della protesta, perché qui è stata scattata la fotografia simbolo delle rivolte, considerata una delle 10 più famose di tutta la storia: un ragazzo anonimo, passato alla storia col nome di “Rivoltoso sconosciuto” o “Tank man”, il 5 giugno 1989, dunque esattamente il giorno dopo il massacro, è in piedi totalmente disarmato e fronteggia una fila di carri armati del governo cinese nel tentativo di sbarrargli il passo. Due palle grosse quanto una casa. Sono state scattate diverse fotografie: la versione più diffusa della famosa immagine è quella scattata con un teleobiettivo dal 6° piano dell’Hotel Bejing a circa 1 km di distanza, da Jeff Widener della Associated Press; un’altra versione, più grandangolare rispetto alla precedente, è quella di Stuart Franklin della Magnum Photos. In realtà anche altri fotografi riuscirono ad immortalare la scena, ma i loro rullini furono sequestrati dalla polizia cinese, mentre Widener e Franklin riuscirono ad adottare una serie di stratagemmi per far uscire i rullini dall'albergo, lasciandoli lì e recuperandoli solo in seguito.

Appena i carri armati giunsero allo stop di fronte al rivoltoso, provarono a girargli intorno, ma il ragazzo li bloccò più volte, mettendosi di fronte a loro. Il ragazzo si arrampicò poi sulla torretta del carro armato, sprezzante del pericolo e dell'alta probabilità di venir ucciso e si mise a parlare con il guidatore, prima di scendere e di esser portato via con forza dai suoi compagni o forse da poliziotti in borghese. Fu quella l’ultima immagine del rivoltoso sconosciuto. Di lui non si seppe più nulla. In realtà non si è saputo mai nulla, né il nome, né la fine che ha fatto. Alcuni sostengono sia stato immediatamente giustiziato, altri che sia stato incarcerato e rilasciato prima delle olimpiadi, altri che si trovi ancora oggi internato in un'ospedale psichiatrico. Fatto sta, che uno degli uomini più famosi del mondo, è anche il più sconosciuto.

E' possibile un'altra verità per Tien'anmen?

Il Partito comunista cinese ha indubbiamente gravi colpe nella repressione col sangue delle proteste degli studenti di Piazza Tien'anmen. Ma solo lui? Unico colpevole? Davvero è tutto andato così come riportato con ossessione dai media occidentali? Davvero non c'è alcuno spazio per la sfumatura di verità? Davvero non c'è alcuno spazio per il minimo dubbio? Davvero dobbiamo accettare l'idea che il PCC sia stato l'unico cattivone della vicenda e che gli studenti siano stati tutti buoni e pacifici? Tutti disarmati a braccia alzate falcidiati dalle pallottole dei militari che sparavano sul loro popolo? Davvero Piazza Tien'anmen del 1989 è stata un avvenimento tutto e solo “interno” alla Cina?

Dai Tien'anmen Papers, una straordinaria collezione di centinaia di documenti ufficiali del tempo, declassificati e desecretati, sembrerebbe di no. La realtà come sempre è ben più complessa e sfumata. Le colpe dell'esplosione della violenza e dello spargimento di sangue, andrebbero ripartite tra diverse parti: il PCC con il suo autoritarismo antidemocratico e la sua totale mancanza di strumenti antisommossa per fronteggiare rivolte popolari senza spargimento di sangue, gli studenti, che tutto erano tranne che pacifici e disarmati, ed un probabile terzo attore, mai menzionato nelle vicende di Tien'anmen: la CIA. Forse non è un caso che nei giorni della rivolta fossero presenti a Pechino, membri del controverso Albert Einstein Institute ed il suo fondatore Gene Sharp, il filosofo americano teorico delle rivoluzioni colorate filoatlantiste, anticomuniste ed antisocialiste. Forse la rivolta di Piazza Tien'anmen, è stata la madre di tutti quei "colpi di stato" antisocialisti che si sono succeduti negli anni successivi, la madre di tutte le “rivoluzioni colorate” che seguiranno.

Gli studenti universitari che manifestavano, passarono in poche settimane dai libri di testo di filosofia ed occhiali a fondo di bottiglia, a molotov, coltelli, armi da fuoco, gas asfissianti e taniche di benzina in mano; armarono i contadini ed i civili che accorrevano in massa a Tien'anmen fomentando gli scontri. Reporters occidentali videro con i loro occhi soldati estratti dai carri blindati e massacrati con una ferocia inaudita e riconobbero persone negli scontri che non erano cinesi, né erano vestiti in modo tradizionale cinese. Probabilmente infiltrati dunque, che cercavano di alzare il livello dello scontro e della violenza.

Decine se non centinaia di mezzi pubblici e militari furono dati alle fiamme con litri e litri di carburante spuntati dal nulla; furono buttati dentro ai carri armati, gas veleniferi (forniti da chi?) e circa venti ufficiali e soldati furono presi e linciati, molti picchiati a morte a bastonate, alcuni arsi vivi, altri impiccati, appesi ad autobus e dati alle fiamme. Il livello di violenza arrivò a livelli inimmaginabili con soldati che furono squartati e sventrati: gli vennero cavati gli occhi e furono appesi penzolanti ai ponti. Secondo i files dei Tien'anmen Papers, più di cinquecento camion dell’esercito furono incendiati in corrispondenza di decine di incroci cittadini. Una cosa è certa: il movimento studentesco, tutto rappresentava tranne che la causa ghandiana della non violenza.

La domanda a questo punto sorge spontanea: anche se provocati e malmenati, pacifici studenti imberbi sono in grado compiere crimini orribili di questo tipo? Squartare una persona, sbudellarla, cavargli gli occhi o arderla viva? Oppure c'erano sanguinari mercenari col pelo sullo stomaco, opportunamente addestrati, pagati da "qualcuno" per buttare benzina sul fuoco?

Ci furono addirittura cecchini sconosciuti che dagli uffici dell'ambasciata americana sparavano a morte a soldati dell'esercito cinese in fuga, fatto confermato dall'ambasciatore statunitense stesso. Il motivo? Non è dato saperlo, ma non è difficile ipotizzare che gli USA volessero probabilmente alzare il livello dello scontro, inferocire l'esercito inducendolo a sparare ad altezza uomo per difendersi e non per attaccare, ed incattivire sempre più la piazza, annebbiando le menti e facendo uscire il demone interno alle persone.

Le cose dunque, forse sono andate in maniera diversa da quanto raccontato: forse soldati più o meno tolleranti ed impauriti, furono mandati allo sbaraglio dal governo che voleva riprendere il controllo della situazione e così invadevano la piazza occupata da manifestanti ed infiltrati più o meno pacifici con l'obiettivo di sgomberarla senza se e senza ma, ma avendo l'ordine di non sparare se non per legittima difesa, anche se attaccati. L'esercito non pensava minimamente di trovarsi di fronte ad una vera e propria guerriglia urbana; forse i soldati hanno resistito il più possibile e poi visto che la loro stessa vita era a repentaglio, si sono difesi con le armi che avevano. Forse le responsabilità della carneficina non sono tutte solo ed esclusivamente dell'esercito, ma anche dei “pacifici” manifestanti, fomentati, sobillati e forse addestrati in passato dal terzo attore in gioco esterno alla Cina: la Cina senza n. Ma anche Taiwan ed i servizi segreti occidentali.

E poi c'è indubbiamente quella foto lì. Quella del rivoltoso sconosciuto. E le tecniche della stampa occidentale sono ben note. Essa fa largo uso di immagini spesso false o decontestualizzate che devono rimanere fortemente impresse nell'opinione pubblica: pensiamo alla statua distrutta di Saddam Hussein, al cormorano nero della prima guerra del Golfo, a tutto ciò che in generale, giustamente crea indignazione nel popolo, il quale però deve esser rigorosamente tenuto sempre all'oscuro dei crimini contro l'umanità provocati dall'imperialismo occidentale.

Anche quello del rivoltoso sconosciuto è uno scatto strategico funzionale alla propaganda. Tutto vero per carità. Quell'uomo ha davvero coraggio da vendere: disarmato, fronteggia un carro armato dell'esercito, magari pronto ad ucciderlo. Ma il messaggio che si vuole trasmettere è chiaro: il coraggio del pacifista rivoluzionario che si contrappone alla prepotenza ed alla forza bruta della repressione militare. Ma questo è solo un istante della vicenda complessiva, un solo istante strategicamente strumentalizzato dai media occidentali. L'ostinazione del giovane disarmato che eroicamente fronteggia il carro armato, è infatti la stessa dell'autista del tank che mantiene la freddezza e vuole salvargli la vita cercando più volte di aggirarlo senza investirlo e questo i media occidentali non lo dicono mai perché in tal caso, forse, la simpatia ed il rispetto dell'osservatore si rivolgerebbero anche dall'altra parte. Mai nessuno mostra il video dell'accaduto, ma sempre la foto. Chissà perché. Io invece ho mostrato entrambe. È evidente che dalla foto, la simpatia dell'osservatore va tutto al “cuor di leone”. E dopo aver visto il video? Non provate simpatia anche per l'autista del carro armato?

E poi perché non mostrare per par condicio, anche le immagini dei soldati arsi vivi, o di quelli impiccati e poi dati alle fiamme, o di quelli appesi ai ponti, o di quelli squartati, sbudellati e con gli occhi cavati? Erano giovani di nemmeno vent'anni come gli studenti... Oppure si potrebbero, in nome della stessa par condicio, mostrare al mondo le immagini dei militari che fuoriescono dal tank agonizzanti perché colpiti da gas velenifero buttato dentro l'abitacolo dai rivoltosi e probabilmente, l'indignazione occidentale si rivolgerebbe non solo verso il Partito Comunista Cinese ma anche verso i rivoltosi, visti come violenti utilizzatori di armi chimiche. Invece l'informazione occidentale è come al solito, sempre a senso unico.

Sia ben chiaro. Non voglio minimamente sminuire la responsabilità del governo cinese negli avvenimenti di Piazza Tien'anmen, ma semplicemente far capire che molto probabilmente, la "longa manus" degli USA ha aumentato considerevolmente il numero di morti della vicenda ed al solito, la stampa occidentale ha fornito e dato in pasto ai telespettatori un unico punto di vista.

La grande muraglia cinese: è visibile dalla Luna o dallo spazio?

A sole poche decine di chilometri da Pechino, la Grande Muraglia Cinese, dichiarata dall'UNESCO Patrimonio dell'Umanità nel 1987 ed inserita nel 2007 tra le "sette meraviglie del mondo moderno", è considerata oggi la più grande impresa di ingegneria civile della storia dell'uomo.

Il serpente di pietra della Grande Muraglia Cinese nei pressi della sezione di Mutianyu

Il camminatoio della Grande Muraglia della sezione di Mutianyu

L'imponente fortificazione consiste in un gigantesco, lunghissimo muro alto e largo meno di 10 metri, intervallato da torri ed imponenti bastioni di avvistamento, fortini, basi logistiche e alloggiamenti militari, costruito nell'arco di circa 2.700 anni su una linea più o meno continua lunga svariate migliaia di chilometri, che si snoda tra montagne, deserti e pianure unendo da ovest ad est il deserto di Gobi con le montagne della Corea e tracciando il confine settentrionale della Cina.

Un'opera assolutamente colossale, inimmaginabile, che ha assunto nel tempo funzioni e significati diversi. Fu concepita inizialmente come un’impenetrabile barriera difensiva contro i nemici del nord, ma in realtà essa non costituì mai un vero deterrente all'avanzata dei barbari, tant'è vero che i Mongoli del leggendario Gengis Khan riuscirono ad attraversarla più volte: i ricercatori oggi pensano che fu costruita non solo per respingere gli eserciti invasori ma anche per fermare la migrazione di popolazioni nomadi.

Oggi purtroppo, molte sue parti sono andate distrutte, cancellate dal trascorrere del tempo, da atti vandalici e dall’azione impietosa degli agenti atmosferici. Alcuni tratti, però come quelli di Badaling e Mutianyu ad un'ottantina di km dalla capitale, sono stati superbamente e completamente restaurati, per la gioia dei 10 milioni di visitatori che ogni anno accorrono in massa (soprattutto a Badaling) ad ammirare il suo aspetto originario. Il percorso lastricato è stato tirato a lucido, sono spuntate cabinovie, negozi e ristoranti. Forse, però per quello che ho visto io a Mutianyu, gli interventi sono stati fin troppo eccessivi ed hanno tolto magia e romanticismo al posto, trasformando la Grande Muraglia in una via di mezzo tra un parco giochi per turisti esigenti ed un facile passeggio commerciale accessibile a tutti.

Mappa di tutte le sezioni e diramazioni della Grande Muraglia Cinese

Quanto è lunga la più grande opera d'ingegneria dell'uomo? Secondo le ultime misurazioni, la lunghezza della Grande Muraglia Cinese di epoca Ming è di 8.852 km. Spesso però si fornisce un valore circa 2 volte e mezzo superiore: dopo 5 anni di rilevamenti, nel 2012, il Ministero dei Beni Culturali Cinese ha annunciato ufficialmente, dopo aver misurato tutte le sezioni e le ramificazioni conosciute, che la sua lunghezza è... udite udite... 21.196 chilometri! A quanto corrispondono? A poco più della metà dell'intera circonferenza terrestre! Pazzesco... Questo perché continuamente gli archeologici scoprono nuove parti di questi sistemi difensivi, nuove diramazioni, alcune delle quali millenarie, che si vanno ad aggiungere al chilometraggio complessivo. La Grande Muraglia infatti, fin dall'inizio della sua costruzione, non è mai stata un'unica ciclopica opera concepita secondo un progetto unitario e portato avanti con continuità dalle dinastie che si sono succedute, ma interventi distinti effettuati in funzione delle esigenze del tempo e secondo tecniche costruttive ben diverse e l'uso dei materiali e delle tecniche più disparate. La stessa definizione di Muraglia è lungi dall'esser univoca e nascono spesso dibattiti nella comunità scientifica sul fatto di includere o meno nuove strutture come antiche barriere, fortificazioni o terrapieni.

Sfato subito un mito, una credenza dura a morire anche oggi, che risale addirittura al 1754 quando un archeologo di nome Stukeley scrisse che la Muraglia potrebbe esser individuata dalla Luna. No, non è vero. Quella di Stukeley è un'affermazione indubbiamente suggestiva, ma totalmente priva di qualsiasi fondamento: è assolutamente impossibile, a causa del potere risolutivo limitato dell'occhio umano. L'opera è lunga migliaia di km, ma è larga meno di 10 metri, tipicamente alla base dai 6 agli 8 metri per poi restringersi in alto a circa 5 metri e mezzo per consentire il passaggio di quattro cavalli affiancati per il trasporto di truppe, rifornimenti ed armi. Una rapida proporzione mostra pertanto che riuscire a scorgerla dal satellite terrestre, distante mediamente dalla Terra circa 385.000 km, significherebbe riuscire a vedere un capello del diametro di un decimo di millimetro dalla distanza di 5 km. E le cose non cambiano dalla Stazione Spaziale Internazionale, in orbita a circa 400 km di distanza, dalla quale, vedere la Grande Muraglia significherebbe riuscire a distinguere un capello castano su sfondo dello stesso colore, da 5 metri di distanza. Provateci, è impossibile. La leggenda è stata alimentata dal fatto che le stesse NASA prima ed ESA poi, sostennero in passato che in particolarissime condizioni atmosferiche, la muraglia fosse visibile dallo spazio: ma successivamente ammisero l'errore. Non era la Grande Muraglia ma il fiume Gran Canale Jing-Hang.

Bastioni, fortificazioni e torrette della Grande Muraglia di Mutianyu

La Muraglia Cinese ha una storia piuttosto discontinua di oltre 2700 anni: nel corso dei secoli le varie dinastie che si sono succedute, hanno edificato nuovi tratti, unito o restaurato quelli già esistenti. Spesso, gli enormi costi di manodopera, pressione fiscale e manutenzione della struttura, le risorse di tempo necessario e l'inevitabile sacrificio di vite umane, anziché consacrare il potere delle dinastie, ne hanno determinato la fine anticipata, così per lunghi intervalli di secoli, la struttura è rimasta abbandonata e caduta in rovina. La Grande Muraglia cinese è stata chiamata anche il cimitero più lungo della Terra in quanto si stima che oltre un milione di persone siano morte per la sua costruzione e gli archeologi continuamente trovano resti umani sepolti sotto le parti del muro. Le sue prime sezioni in ogni caso risalgono all'VIII° secolo avanti Cristo, quando la Cina era divisa in 7 Regni indipendenti ed ognuno di essi costruiva fortificazioni per difendere i loro confini. L'unificazione dell'Impero avvenne nel 221 a.C. ed il primo imperatore Qin Shihuang, un tipo sicuramente megalomane, perché è lo stesso che commissionò la costruzione dell'Esercito di Terracotta di Xi'an, ordinò di unificare, collegare e prolungare il percorso dei 4.000 km di sezioni discontinue già esistenti per la protezione dai barbari del nord. La Muraglia Cinese della dinastia Qin (221 - 206 a.C.) raggiunse quindi la lunghezza di circa 5.000 km, un'impresa eccezionale conclusa in soli 10 anni. Fu il primo grande intervento di edificazione del muro, al quale seguirono ulteriori fasi di espansione, soprattutto con la dinastia Han, invasioni barbariche e lunghi secoli di abbandono. Infine, la dinastia Ming (1368 – 1644 d.C.), finanziò ampi lavori di ricostruzione, ampliamento e restauro dell'esistente, portando a 8.852 km la lunghezza complessiva del muro, includendo nel calcolo anche trincee e barriere naturali come montagne, fiumi e laghi (il muro vero e proprio è circa 6.200 chilometri). L'ultima dinastia della Cina imperiale, la Quing, al potere fino al 1911, effettuerà solo piccoli interventi. Oggi, praticamente tutte le sezioni della Grande Muraglia che possiamo osservare, tutti gli splendidi imponenti bastioni in pietra con torri d'avvistamento e cannoni, sono risalenti e dovuti all'immenso lavoro della dinastia Ming.

La Grande Muraglia Cinese di Jiankou

E' possibile visitare uno dei luoghi più turistici del mondo, in un paese di un miliardo e mezzo di persone, totalmente da solo per ore? Sì, io l'ho fatto. Perché non sono andato a camminare sulla Grande Muraglia Cinese nelle sezioni vicino Pechino aperte al pubblico, restaurate, facilmente accessibili in funivia e super turistiche di Badaling o Mutianyu. Ma a scalare letteralmente mani e piedi quelle chiuse al pubblico, sconosciute, pericolose ed inaccessibili di Jiankou, in un'area remota, impervia ed isolata.

La Grande Muraglia in rovina di Jiankou

Che fatica arrivare lì... organizzare il viaggio è stata forse un'impresa ancor più grande che scalare pendenze di 70° con burroni di fianco! Nessuno in Cina parla inglese, neppure nelle grandi catene alberghiere e la sezione abbandonata di Jiankou non la conosce nessuno.

Riesco a trovare una ragazza alla reception di un grande hotel del centro che parla inglese, organizza tour turistici per la Grande Muraglia e di essa conosce tutto, vita, morte e miracoli. Si chiama Xia, ed alla mia richiesta sbarra gli occhi. Lei conosce Jiankou e si mostra subito enormemente preoccupata. Occhi a mandorla sostiene con forza che non è possibile visitarla, che è vietato andarci ed è una sezione estremamente pericolosa, isolata e molto esposta. Se succede qualcosa si rimane lì per sempre! Oltretutto è molto difficile da raggiungere. Ed è assolutamente folle ed irrealistico pensare di percorrerla tutta in una direzione verso destra (ovest), tornare al punto di partenza ed andare verso Mutianyu (est), uscendo dal suo gate turistico alle 6 di sera. Il tutto in giornata. Nessuno l'ha mai fatto. E' abbastanza incredula. Non capisce la mia logica, ma a questo sono ben abituato.

«I do not understand your mind! You can see the most beautiful, sure and easy to reach, section of the Great Wall in Badaling, where everyone goes, just 1 hour far from here, and you wanna go in a very dangerous and destroyed section, difficult to reach and above all, forbidden! And you wanna do a thing you can't do because you don't have enough time for it!».

Mi mostro irremovibile e mi guadagno la sua simpatia. Lei sostiene, non so quanto scherzando, che morirò. Ed allora facciamo una scommessa: se riuscirò nell'impresa di percorrerla tutta ed intercettare anche la sezione di Mutianyu, la notte dall'aeroporto le invierò al suo cellulare foto e video, come prova che si sbagliava! O meglio, per mail... Giustamente Xia mi fa notare che Whatsapp in Cina non può esser utilizzato!

«You'll die...», mi saluta Xia con un bacetto portandosi la mano nella bocca. «I won't die», rispondo. «And I'll send you an e-mail tomorrow... ». Ricambio il gentile bacetto e le dico addio. Comunque non la vedrò più. Vivo, o morto.

Capisco subito che andare a Jiankou con i mezzi pubblici è un'impresa al limite dell'impossibile senza conoscere il cinese, dovendo cambiare diversi mezzi a diversi incroci ed impiegandoci se va bene almeno 4 ore. Se sbaglio ho perso la giornata intera. Non ho tempo, perché prevedo di camminare e scalare almeno 12 ore di fila. Devo esser in marcia già alle 6 di mattina per uscire dal gate di Mutianyu alle 6 di pomeriggio (penso che ora abbiate chiaro il motivo per il quale spesso viaggio solo...). Mi accompagnerà dunque in auto un fattorino dell'hotel, il quale dopo aver ricevuto da Xia istruzioni dettagliate sulla strada da seguire, si rende disponibile a partire alle 3.30 di mattina per accompagnarmi in auto nel punto più vicino al mio obiettivo, in una remotissima zona montuosa a circa 100 km da Pechino. Un paio d'ore d'auto contro le 4 di autobus: direi che per le folli tempistiche che mi sono imposto, non ho scelta.

Alle 5.30 il fattorino mi lascia solo in mezzo al nulla. Mi trovo nella frazione di Nanjili, vicino al villaggio ancora addormentato di Xixhazi a nord della Muraglia: intorno a me, una manciata di casette e baracche immerse in un panorama montuoso bucolico. Un contadino sta già zappando la terra e mi indica con il dito puntato all'insù, la "Zhengbei Tower", la torre a 991 metri d'altezza che devo raggiungere per intercettare la sezione di Jiankou. La conversazione è ovviamente impossibile ed avviene a gesti, intervallati dai soliti numerosi e disgustosi sputazzi per terra. Mi indica la torre con il dito indice e poi, si raccomanda di andar a sinistra verso est, assolutamente no a destra gesticolando col viso spiritato per impaurirmi.

Un sentiero nel bosco, in diversi tratti impegnativo ed assai poco visibile, mi porta in un'oretta circa di marcia, fin su la torre, immersa nella boscaglia. La veduta è assolutamente fantasmagorica, con la muraglia che si contorce nel paesaggio come un serpente di pietra arrampicandosi fin sulle creste e scomparendo spesso nella boscaglia, proseguendo verso l'orizzonte a perdita d'occhio. Sole a picco ma vento forte e gelido. Condizioni non proprio ideali. Ho fortunatamente con me acqua a sufficienza.

La torretta Zhengbei raggiunta ed intercettata dal villaggio cinese di Xizhazi

Scorci dalle finestrature della torretta Zhengbei

Scalo il paio di metri di parete che mi trovo di fronte con l'ausilio di un mucchio di pietre accatastate; non è facile perché la parte esterna del muro è sempre piuttosto liscia e levigata, al fine di non offrire possibili appigli agli eventuali invasori. E metto piede per la prima volta nella mia vita sulla Grande Muraglia Cinese, esattamente al centro del cammino, ora mezzo franato ed invaso dalla vegetazione, dove secoli fa passavano cavalli e truppe.

Per la prima volta metto piede sulla Grande Muraglia: pronto per la scalata di Jiankou!

Vento fortissimo e gelido sulla pelle. Ho un brivido sulla schiena, ma non di freddo: sto calpestando in totale solitudine, le autentiche rovine mai restaurate della Grande Muraglia Cinese costruita dalla dinastia Ming e l'emozione è indescrivibile. Il tempo qui si è fermato al XIV secolo e tutto è splendidamente abbandonato da centinaia di anni, magicamente e poeticamente in rovina. Muri e torrette sono pericolanti, la vegetazione ha inghiottito la pietra. Sono solo con la storia. Emozione ed adrenalina a mille. Si parte! Aspetta, un attimo... un attimo, non ricordo... che diceva la bella Xia occhi a mandorla? Che diceva il contadino? Destra o sinistra? Right side, of course!

Solo con la storia...

Jiankou è senza dubbio la sezione più impervia, isolata, selvaggia, pericolosa e spettacolare della Grande Muraglia. E' lunga quasi 20 Km, con una trentina di torri di guardia ed è direttamente collegata ad est con Mutianyu Great Wall ed a ovest con Huanghuacheng Great Wall. A differenza di altre parti è costruita prevalentemente in dolomia, un tipo di pietra molto abbondante nell’area: da qui il colore bianco della muraglia visibile anche da fondovalle.

E' assolutamente sconsigliata a chi soffre di vertigini e non è in ottima forma fisica: i tratti sono molto esposti e le pendenze sono spesso assurde raggiungendo gli 80°. E' un posto (vietato al pubblico, lo ricordo per non far venire strane idee a nessuno) adatto solamente a chi è disposto a scalare mani e piedi ed è abituato a muoversi con facilità e naturalezza in un ambiente ripido e roccioso di montagna, a tratti privo di sentiero. E' assolutamente da evitare in inverno con la neve a terra, o nelle giornate piovose in quanto vi sono sezioni dove scivolare significa essenzialmente morire e rimanere lì per sempre. Andrebbero evitate anche le giornate molto ventose, oppure con meteo incerto perché lungo la cresta rocciosa i fulmini sono oggettivamente un pericolo.

Jiankou si snoda su uno stretto ed alto crinale che precipita a picco su entrambi i lati della montagna: capisco subito che devo stare attentissimo perché se mi succede qualcosa qui non mi ritrova nessuno per qualche decennio. Passo svelto, ma soprattutto passo fermo ed assenza totale di vertigini. Vado forte, soprattutto nei punti dove si può camminare, anche se spesso la muraglia non si vede più perché la vegetazione ostruisce totalmente il passaggio. Continuare diventa davvero un'impresa... devo farmi largo nella boscaglia, per poi riemergere magari in punti ripidissimi a strapiombo, con burroni a soli 20 centimetri dalle caviglie. «Ok, basta... hai moglie e figli Ste'... torna indietro!» Ed invece no, perché l'adrenalina è a mille!

Tratti della Grande Muraglia di Jiankou totalmente ostruiti dalla vegetazione

Vado avanti, passano le ore ed io sono sempre più solo con la storia. Diversi passaggi richiedono un’attenzione estrema risultando decisamente impegnativi perché quasi verticali: ci sono scalinate ripidissime che raggiungono in alcuni tratti addirittura pendenze di 80 gradi e qui, si sale e si scende solo mani e piedi a mò di scalata alpinistica; a volte i gradini sono totalmente scomparsi o franati ed occorre trovare una via alternativa arrampicandosi sulle rocce nel bosco che danno sui burroni.

Pendenze quasi verticali, da superare mani e piedi in "scalata alpinistica"

Nei punti più difficili e pericolosi, agganciati alla roccia ci sono dei cavi elettrici di grosso diametro che fungono da corde di “sicurezza”, decisamente inaffidabili perché fissati non si sa come, spesso semplicemente arrotolati su un alberello sottile che spunta nella pietra o messi ad incastro in uno spuntone di roccia... Sono stati messi lì non si sa da chi e da quanto tempo... insomma, molto meglio far affidamento su mani e piedi, non guardar sotto e confidar poco o niente sui “sistemi di (in)sicurezza” cinesi. Io non avendo imbragatura, utilizzerò nei punti più critici e fuori di testa la cinta dei pantaloni allargata al massimo e passata attorno al cavo elettrico.

Le "corde di (in)sicurezza" di Jiankou

Purtroppo i passaggi più critici non ho potuto riprenderli, così impegnato a sopravvivere e non far avverare la profezia di Xia, alla quale stasera, voglio mandare quella mail con tutto me stesso. Se quella mail parte significa che sono sopravvissuto. Se non parte, al contrario, sono andato a far compagnia agli imperatori della dinastia Ming.

Fortunatamente sopravvivo. Gli imperatori Ming possono aspettare e verso le due di pomeriggio sono di nuovo alla Zhengbei Tower. Ancora non ho visto una sola persona. Da qui in poi, andando verso est, verso Mutianyu, è davvero una passeggiata... la sezione orientale di Jiankou continua sempre intatta, non restaurata, selvaggia ed originale, bellissima e sempre estremamente romantica perché in rovina ed immersa nella natura. Ma le pendenze si addolciscono, scompaiono i grossi pericoli della parte occidentale come i cavi elettrici a mò di corde di “sicurezza” e le ripidissime scalinate da follia suicida che puntano verso il cielo come la “starway to heaven”. Scompaiono burroni e strapiombi. Scompare il pericolo e l'adrenalina, ma la magia e la poesia della solitudine restano intatte.

Il tratto orientale della sezione di Jiankou, verso Mutianyu: pendenze e brivido minore, ma magia intatta!

Le gambe ora volano ed in due ore intercetto la sezione di Mutianyu: non c'è però continuità tra le due e per entrarci, devo nuovamente scavalcare un muro e saltare un paio di metri. I turisti, vedendomi scavalcare, zaino in spalla, tutto sporco e sudatissimo, rimangono allibiti ed increduli. Non ci sono guardie a controllare e così, fischiettando, ricomincio a camminare come se nulla fosse: un'intera giornata nella Grande Muraglia praticamente da abusivo, senza aver pagato l'ingresso. Il PCC mi scuserà, ma non potevo davvero fare altrimenti...

Dal silenzio e dalla solitudine della selvaggia Jiankou, mi ritrovo così nella folla e nel rumore di Mutianyu, una delle sezioni meglio restaurate e più belle della Grande Muraglia, seconda per numero di visitatori annui solo a Badaling. Lo scenario cambia decisamente rispetto a Jiankou: una marea di gente che si fa selfie con le aste, bambini che corrono urlanti, giovani che schiamazzano... la civiltà... Il frastuono. I ristoranti. Le funivie che collegano diverse sezioni e gli scivoli con una specie di bob nella vegetazione per far divertire i turisti di tutto il mondo. Insomma, un enorme parco giochi super attrezzato. E meno male che dicono che tra le due, tra Badaling e Mutianyu, la seconda è abbastanza meno frequentata! Immagino la prima in un giorno festivo!

Dalle stelle alle stalle: il "parco giochi" per turisti di Mutianyu

Programma comunque rispettato: sono le 6.30 di pomeriggio e mi trovo al gate d'uscita, con il personale che mi propone ovviamente a pagamento, il “certificato di vero uomo”. Mao Zedong disse infatti: «Chi non sale sulla Grande Muraglia non è un vero uomo». Ecco perché tutti i cinesi almeno una volta nella vita vogliono venir qui a dimostrare la loro “virilità”.

Esco da Mutianyu sfinito, con i muscoli delle gambe che pulsano. Prendo un bus che mi riporta a Pechino e da lì un treno per l'aeroporto; a mezzanotte partirò per Manila e le Filippine: dopo l'inferno di Pechino mi attende il paradiso in terra, o meglio “in acqua”, di Tubbataha.

Sono felice: ho vinto la scommessa con Xia. Le mando una mail con allegate un paio di foto: «Hi Xia! I am now a Great wall true man. Twice, because I walked in the Mutianyu section, but first, I conquered Jiankou. You were wrong. I am still alive. Kisses...»