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Dar Ee Salaam

Mi lavo dopo due settimane. Una bestia. Sotto l'acqua di una doccia senza pressione di uno sgarrupato hotel di Dar Es Salaam esce acqua nera. Questa mattina ero ancora sul kilimangiaro, le ultime 4 ore di trekking per scendere dal Mweka Camp al gate d'uscita, poi una corsa pazzesca da Moshi all'aeroporto: ennesimo volo della mia vita preso per miracolo. La doccia mi rigenera, dopo sei giorni massacranti. Rinasco. E posso uscire finalmente per festeggiare con una tonnellata e mezzo di litri di birra la grande conquista della mia prima seven summits.

I doverosi festeggiamenti a Dar Es Salaam per la conquista della vetta d'Africa con una fantastica birra gelata... ovviamente Kilimangiaro

Dar Es Salaam, è la classica città africana dove uno dovrebbe stare 10 minuti ed andarsene subito via a gambe levate. E' tardo pomeriggio ed ho tempo per girovagare un po', il posto sembra anonimo, piuttosto pigro e poco vitale, avvolto com'è da una cappa di calore infernale, ma con un interessante mix culturale africano-arabo-indiano. In centro, di fronte al porto d'imbarco per Zanzibar ci sono 3 grattacieli quasi uguali ed un pacchiano hotel di lusso che stonano col paesaggio circostante, fatto di casette basse e sgarrupate ed una massa di vecchi edifici diroccati, corrosi dal tempo e dalla salsedine. Una massa umana disomogenea è ferma in osservazione o in conversazione oppure vaga senza la fretta tipica delle città occidentali: giovani rasta, donne con bellissimi vestiti colorati, mendicanti e zoppi, anziani che trascinano improbabili carretti, masai con le loro caratteristiche ciabatte fatte di copertoni di ruote, donne col burqa... Nelle strade tuk tuk rumorosi ed auto sfasciate con qualche milione di chilometri affiancano i macchinoni di lusso che entrano nei parcheggi dei grattacieli... Il centro non è grandissimo, ben presto si esce dalle vie più trafficate e gli edifici diroccati stile l'Havana lasciano il posto ai classici slum africani stile Nairobi, gigantesche baraccopoli di mattoni e fango, tavole di legno e lamiera senza soluzione di continuità, dove vive la maggior parte della popolazione in condizioni igienico sanitarie pietose.

Quando cala il buio escono gli zombies. Cammino per le vie malfamate del centro, non ho paura. Non ho nulla dietro e non percepisco alcun senso di insicurezza. Alle 11 di sera i marciapiedi sono in gran parte occupati da disperati che dormono per terra. Gli sconfitti della globalizzazione. Bambini soli con gli occhi smarriti che rovistano nella spazzatura. Mi sento morire quando vedo queste cose, mi sento un verme privilegiato. Non faccio mai la carità. Mai l'elemosina. Mai denaro. Le persone in queste condizioni preferiscono autodistruggersi comprando alcool e droga piuttosto che il pane. Farei la stessa cosa anche io. Semmai offro cibo ed ascolto. Cos'altro posso fare per cambiare le cose se non ascoltare, vivere una vita coerente con i miei principi, sensibilizzare le coscienze e far capire a quanta più gente possibile che urge un cambio di paradigma economico?

Che il problema è tutto lì? Che è necessaria una rivoluzione popolare mondiale? Che le masse devono unirsi in una gigantesca lotta di classe anziché dividersi in destra e sinistra?

Vado a dormire, un po' sotto choc. Scene e situazioni viste e riviste centinaia di volte viaggiando nei paesi ricchi e poveri del mondo ma mai mi ci abituo. No, non devo e non voglio abituarmici.

Domani mattina un pullman mi porterà nel sud della Tanzania, nella riserva del Selous. Parte prestissimo alle 6, dicono siano almeno 5 ore di viaggio, dunque sono da metterne in conto almeno un paio di più. Sette, forse otto ore di strade fatiscenti, ammassato all'inverosimile con bestie e persone e sarò nel cuore della riserva, in riva al fiume Rufiji. Forse. La certezza di arrivare non c'è assolutamente a causa dei guasti e delle rotture dei mezzi, assai frequenti. Imprevisti, ritardi e contrattempi sono l'assoluta normalità. Sveglia alle 5.30 dunque, circa 15 minuti di cammino mi separano dalla fermata del bus per il Selous, in zona mercato del pesce vicino al porto. Che levataccia, avrei dormito fino a mezzogiorno dopo le fatiche del Kilimangiaro...

Masai tra i grattacieli del centro di Dar Es Salaam

Sì... col cazzo che il pullman parte. Aspetto due ore dalle 6 di mattina in mezzo ad una stazione di autobus che sembra piuttosto una fogna a cielo aperto... Nessuno parla inglese, non posso nemmeno chiedere informazioni. Magari allo sportello del ferry per Zanzibar sanno qualcosa, ma la città è piuttosto pigra, si sveglia tardi. Alle 8.30 di mattina riesco a capire in un modo o nell'altro che l'autobus oggi non c'è, non si sa perché. Forse domani. I paesi poveri sono così. Con i mezzi pubblici non si ha nessuna certezza né dell'ora di partenza, né di quella prevista di arrivo. Né tantomeno della stessa partenza o dello stesso arrivo. Magari l'autista è sbronzo dalla sera precedente e non si sveglia. Oppure una gomma è a terra e non si riesce a sostituire.

Io non posso e non voglio aspettare il pullman di domani, magari finisce nuovamente così. Devo provare a raggiungere il Selous in altro modo e devo farlo per forza oggi perché tra due giorni riparto per l'Italia via Dubai. So che esistono piste sterrate nella riserva e che dei Cessna volano partendo dall'aeroporto di Dar Es Salaam. Ho bisogno di internet. Mi giro e vedo un autobus che va alla stazione centrale. Strano ma vero, esiste un treno qui in Tanzania. D'istinto salgo, nei paraggi della stazione avrò sicuramente maggiori chances di trovare chioschetti o ristorantini o magari alberghetti con wi-fi. Così è infatti: contatto la Costal, parte un bimotore alle 4 di pomeriggio e nell'aeroplano ancora c'è posto. Arriverò alle 4.30. Ho una mezza giornata completamente libera pertanto a Dar Es Salaam. Bene.

Imperialismo cinese in Tanzania ed in Africa

Non è una stazione di una ferrovia qualsiasi, quella di Dar Es Salaam. E' la famosa Tazara, acronimo di Tanzania-Zambia Railway, l'inizio delle relazioni tra Africa e Cina. Costruita tra il 1964 ed il 1976, dunque interamente sotto la presidenza del compianto Julius Nyerere e di Mao Zedong, utilizzando decine di migliaia di lavoratori esclusivamente asiatici, la ferrovia Tazara è stato il primo progetto infrastrutturale cinese realizzato in Africa e tuttora uno dei più importanti. Pura e genuina solidarietà socialista ai nuovi paesi emergenti, liberi finalmente dal giogo coloniale come pensava Nyerere? Forse, magari inizialmente con Mao Zedong. Ma le cose ben presto secondo me hanno preso una piega diversa, soprattutto dopo la morte di Mao ed il più o meno contemporaneo ritiro di Nyerere dalla scena politica. A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. E se nel post sull'isola di Mafia ho sparato a zero sui demoni imperialisti di Bretton Woods, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale che condannano i paesi africani alla miseria ed al sottosviluppo, qui per par condicio sparerò a zero sulla pseudocomunista Cina, che a mio avviso ora, di comunista e maoista non ha proprio più nulla. L'ideologia socialista che mi appartiene non limita mai la mia onestà intellettuale: non ho i paraocchi, vivo di dubbi costanti e poche inossidabili certezze. Ed a me la Cina non è mai piaciuta. Perdonami Fabrizio, so che tu non sarai d'accordo con tutta l'analisi che seguirà, ne discuteremo quando ci vedremo di fronte ad una birra a San Beach.

La Tazara sancisce a mio avviso, l'inizio dell'imperialismo economico cinese in Africa. La linea, chiamata anche in swahili Uhuru Railway ovvero “Ferrovia della libertà”, collega le miniere di rame dello Zambia con il porto tanzaniano di Dar Es Salaam, con l’obiettivo di creare uno sbocco al mare per il prezioso metallo estratto. Uhuru railway... Libertà per chi? Per la Tanzania? Per lo Zambia? Ci credo poco. Secondo me la libertà è solo del gigante asiatico: libertà di agire indisturbato, senza regole umane, sociali ed ambientali, sottomettendo poco a poco l'intero continente africano ai suoi interessi ed accaparrandosi tutte le sue risorse.

La stazione centrale della linea Tazara di Dar Es Salaam

Andiamo a vedere dunque la realtà dei fatti, senza pregiudizi di natura politica ed economica.

Con una politica apparentemente innocua ma fortemente criminale, fatta di prestiti a tassi bassissimi con clausole capestro, il dragone cinese poco a poco negli anni si è impadronito praticamente di tutto lo Zambia. Il rame estratto è oramai di totale proprietà cinese, cosiccome praticamente tutte le sue infrastrutture. L'enorme insostenibile indebitamento estero sta portando il paese verso il default ed ha già fatto passare in mani cinesi l’emittente radiotelevisiva nazionale, la società elettrica di stato, l'aeroporto internazionale della capitale, insomma tutti i principali asset strategici del paese, il quale continua imperterrito a contrarre debiti, nonostante il presidente Lungu definisca i cinesi come "scarafaggi" impossibili da controllare e limitare. Se lo Zambia è oggi innegabilmente una colonia politico-economica cinese a tutti gli effetti, la stessa sorte presto potrebbe toccare alla Tanzania se continua su tale strada suicida. Non solo è in partenza un piano edilizio per Dar Es Salaam che darà il via alla costruzione di diversi grattacieli, ma è in programma la realizzazione del più grande porto della costa orientale africana, con un volume di merci superiore addirittura al porto di Rotterdam: l'idea è di prolungare la Tazara fino a Babamoyo, pochi km a nord di Dar Es Salaam, per poi realizzare qui la mastodontica area portuale che consentirebbe alle merci cinesi di raggiungere più facilmente i mercati dell’Africa Sub-sahariana e a Pechino di importare e sfruttare l'abbondanza di risorse della regione, materiali ma non solo. Anche umane. La manodopera a bassissimo costo, contrariamente a quello che si può pensare, non è più presente in Cina a causa della progressiva presa di coscienza della classe lavoratrice cinese delle condizioni di sfruttamento ed a causa dell'innalzamento progressivo dell'età anagrafica media dovuto ad un rallentamento della natalità; qui in Africa invece è presente in quantità infinita e sarà possibile per le industrie cinesi delocalizzare parte delle proprie produzioni avvicinandosi alla fonte delle materie prime di cui il continente nero è ricchissimo. Al momento il progetto di Babamoyo è fermo, si è arenato perché il nuovo presidente della Tanzania Magufuli ha fiutato il pericolo: ha capito che le condizioni sono fortissime, inaccettabili, irreversibili ed implicherebbero la totale svendita del paese al dragone. Vedremo come finirà.

La Cina è entrata in punta di piedi in Tanzania ed in generale in tutta l'Africa grazie anche a Nyerere, il quale ha sempre guardato il gigante asiatico con ingenua ammirazione. Nyerere era assolutamente a favore della collaborazione e penetrazione cinese in Africa, che lui vedeva come sincera e disinteressata. D'altronde egli era il presidente di uno stato, la Tanzania, appena nato dalla fusione della Tanganika con Zanzibar: aveva bisogno giustamente di stabilire alleanze e partner commerciali di cui fidarsi. Per sviluppare le sue idee socialiste improntate alla Ujamaa ed all'autosufficienza, il "maestro" aveva ben capito che non poteva rivolgersi in nessun modo agli strozzini occidentali di Bretton Woods: i progetti di opere, gli aiuti umanitari, i prestiti, l'attivazione di linee di credito di FMI e BM erano in realtà ricatti perché subordinati e condizionati all’accettazione dell'ideologia capitalista e di una determinata politica economica di stampo neoliberale. Gli aiuti non erano altro che strumenti di dominazione. La Tanzania, finalmente libera dal giogo coloniale, non poteva e non doveva tornare territorio di conquista e proprietà di altri. Secondo Nyerere i cinesi non avevano colonie in Africa ed in altre parti del mondo e la loro attuale leadership era fermamente e sinceramente anti-imperialista. L'aiuto di Mao Zedong era assolutamente disinteressato, pura cooperazione e solidarietà tra popoli socialisti. Internazionalismo proletario. Nyerere era un gradissimo uomo e politico, uno dei leader africani più incorrotti ed incorruttibili, uno dei grandissimi, nell'Olimpo africano insieme al compianto comandante Thomas Sankara del Burkina Faso ed al sudafricano Nelson Mandela. Ma a mio avviso qui si era sbagliato. O meglio, si è comportato in modo ingenuo. Non poteva d'altronde sapere cosa sarebbe diventato negli anni il mostro asiatico. Avesse vissuto di più si sarebbe reso conto dell'ennesimo inganno imperialista.

E' davvero altruismo quello cinese? Nonna diceva, "manco lu ca' mov la coda pè gnient", nel senso che nessuno fa niente per niente...

Julius Nyerere e Mao Zedong negli anni '60

La Cina è forte innegabilmente di un passato che non ha la macchia e la vergogna dell'imperialismo coloniale pertanto gode ancora di una certa fiducia da parte della popolazione locale africana, la quale nuovamente si illude di trovare nello straniero il salvatore dalla propria condizione di perenne sottosviluppo e miseria; può così esercitare abbastanza indisturbata il proprio colonialismo, trovando in quegli sterminati territori lo spazio vitale necessario alle proprie esigenze demografiche, alimentari, energetiche e di mercato.

Oggi, lo sappiamo bene anche in Europa, il capitalismo non domina più soltanto con il controllo dei mezzi di produzione, della stampa e dell'informazione oppure banalmente mediante estrazione marxiana di plusvalore dalla forza lavoro. Oggi il capitalismo domina soprattutto attraverso il ricatto del debito. E diventa imperialismo. Il dragone in questo fa scuola ai diavoli del fondo monetario e della banca mondiale. Gli scolaretti FMI e BM si mettono seduti al banco e la professoressa Cina alla lavagna, gesso in mano, spiega come si fa. Spiacente amici e compagni comunisti sinofili ma è così; fatevene una ragione. So già che mi darete del rossobruno. Fa niente. Ci sono abituato. Come disse il comandante Sankara, « L'imperialismo è un sistema di sfruttamento che si verifica non solo nella forma brutale di chi viene a conquistare il territorio con le armi. L'imperialismo avviene spesso in modi più sottili. Un prestito, l'aiuto alimentare, il ricatto. Stiamo combattendo questo sistema che permette a un pugno di uomini di governare l'intera specie ».

Attraverso la sua politica di credito accomodante, a tassi d'interesse bassissimi, senza imposizione di requisiti e modelli economici da seguire, il colosso asiatico è riuscito a vincere la concorrenza della finanza occidentale accordando prestiti impossibili da restituire. Ed ovviamente non presta denaro gratis. “Neanche il cane muove la coda senza motivo”, traducendo il dialetto sambenedettese di mia nonna in italiano. Come normale che sia, vuole esser ripagata. Anzi, a dir il vero, preferisce non esserlo, perché esiste un modo molto migliore di riscuotere: si garantisce la restituzione dei soldi prestati stipulando clausole capestro, ottenendo in caso di insolvenza il controllo dei principali e strategici settori economici dei paesi come infrastrutture, imprese minerarie ed energetiche, terreni da adibire a coltivazioni intensive e telecomunicazioni. Inoltre i contratti fatti e le linee di credito attivate contengono condizioni che collocano le banche cinesi come creditrici privilegiate nel senso che i loro prestiti devono essere ripagati prioritariamente rispetto a quelli di altri. Tra Cina e Africa si è quindi instaurata una relazione totalmente squilibrata che genera effetti perversi.

I prestiti del dragone fanno crescere il debito africano portandolo pericolosamente vicino alla soglia di insostenibilità. Così è stato con lo Zambia, così sarà con Gibuti, piccolo staterello guarda caso sul Corno d'Africa, proprio in corrispondenza della rotta più importante del mondo, la via della seta. La Cina ha qui costruito la sua prima base militare permanente oltre confine e tante altre già ne ha progettato e sta costruendo in tutta l'Africa, alla faccia di chi sostiene che la Cina sia comunista e dunque non imperialista. La Cina banalmente è capitalista perché guarda ai propri interessi di mercato fregandosene altamente di considerazioni di carattere umano, sociale ed ambientale; e come Lenin ci insegna, l'imperialismo è la fase suprema del capitalismo. Il capitalismo porta inevitabilmente imperialismo, colonialismo e guerra.

Il piccolo Paese ha consegnato quasi tutto il debito estero nelle mani di Pechino, rendendola di fatto padrona del suo destino finanziario. Gibuti ha il cappio al collo del dragone, esattamente come lo Zambia, come l'Angola, La Tanzania, il Congo, il Kenya. Pechino ha investito una montagna di miliardi di dollari per lo sviluppo del porto strategico di Doraleh, vicino alla capitale, e delle infrastrutture collegate come la ferrovia Addis Abeba-Gibuti. In caso di inadempienza assai probabile, Gibuti consegnerà ai cinesi il controllo del porto, all’ingresso del Mar Rosso e del Canale di Suez. Fondamentale per la nuova via della seta. Unico modo per il piccolo stato in posizione così strategica, per ripagare il debito e far sì che ciò non succeda è il taglio dei fondi alle politiche welfare, destinando la spesa pubblica al ripagamento del debito anziché al sociale. Cosa c'è di internazionalismo socialista in questo? Cosa c'è dei concetti socialisti di solidarietà e cooperazione tra i popoli? Nulla ovviamente. Ci sono tantissimi altri esempi in Africa, come il Kenya. E' entrata in funzione nel 2018 una linea ferroviaria di 500 km che collega la città di Mombasa con la capitale Nairobi. Otra vez, un'altra ferrovia. Ci hanno preso gusto i cinesi con le ferrovie. Clausole capestro? Banalmente i porti di Lamu e Mombasa, tra i più grandi e frequentati dell’Africa Occidentale, utilizzati come garanzia di rimborso dei prestiti.

Pazzesco addirittura il caso congolese, altro paese martoriato prima dal colonialismo ed ora dal ben peggiore neocolonialismo. Il Congo francese o Congo Brezzaville è tra l'incudine e non uno, ma ben due martelli, martoriato dalla peggiore triade possibile. Come può svilupparsi un paese con a capo un corrotto dittatore e stritolato in una siffatta morsa mortale è un mistero. Ha un debito insostenibile con la Cina, in continua ristrutturazione ed in suo soccorso arriva il Fondo Monetario Internazionale che impone severe misure di austerità, sempre a danno del popolo e mai del dittatore senza scrupoli di turno, che poi troppo di turno non è perché Denis Sassou Nguesso è al potere dal '79, da più di 40 anni, garantendo petrolio in abbondanza alle multinazionali straniere e povertà assoluta al suo popolo. Non basta: il Congo Brezzaville è uno dei paesi del Franco CFA, dunque è pure sotto il totale controllo neocoloniale francese. Il Congo è come una persona disperata che ha un lavoro di merda e deve sfamare una numerosa famiglia: contrae debiti con un usuraio e pensa di soddisfarlo rivolgendosi ad un altro ben peggiore, entrando di fatto in una spirale perversa da cui non uscirà più se non orizzontale in una cassa di legno. Non solo: questa persona disperata deve anche dare la metà del suo misero ridicolo stipendio ad un terzo usuraio francese, in base ai meccanismi perversi di quella famosa, diabolica moneta con la quale la Francia tiene sotto scacco ben 14 stati africani. Chi si ribella al perverso meccanismo del debito estero o della valuta coloniale del franco CFA, banalmente viene eliminato come l'immenso comandante Thomas Sankara o recentemente Gheddafi, con i perfidi sorrisini di Sarkozy e della Clinton sullo sfondo. Nguesso non è stupido, non vuole morire assassinato in qualche colpo di stato finanziato dall'occidente. Se ne sta buono, si arricchisce all'inverosimile protetto dai suoi amici occidentali e cinesi, garantendo loro il saccheggio delle preziose risorse energetiche ed alimentari del paese. Ed il suo popolo muore. Che tristezza. Che peccato non avere più in Africa persone come voi Nyerere, Sankara e Mandela. Onorerò la vostra memoria sempre, ovunque mi sarà possibile. Anche in questo blog.

Il dragone trova nello sterminato territorio africano quello spazio vitale necessario per la propria bulimia di merci, per le proprie esigenze demografiche, energetiche ed alimentari sempre crescenti. Crescita infinita, libero mercato, il loro ovviamente, e massimizzazione del profitto in piena e totale ideologia capitalista e liberista. Le risorse ambientali ed umane dell'Africa sono così depredate fino all'esaurimento. La sua estraneità volontaria a questioni politiche locali e la non ingerenza su affari interni come guerre e diritti umani, legalità e corruzione, cazzi e mazzi, permette alla Cina di farsi vedere unicamente nella veste di investitore economico. Pechino non ha la pretesa tutta americana di esportare la democrazia in paesi dittatoriali né alcun bisogno di riconoscimenti in ambito umanitario. Tutt'altro: è il maggior fornitore di armi del continente; i machete dell'orribile genocidio ruandese sono stati forniti da loro. Dunque ha tutto l'interesse a fomentare guerre e fregarsene di tutto il resto. E questo non può che deliziare la corrotta classe dirigente africana che si sente libera di agire come le pare, senza subire le fastidiose ipocrite pressioni che riceve dall’Occidente.

I cinesi effettivamente se ne sbattono altamente di tutto; il capitalismo sfrenato opera in barba ad ogni criterio umano, sociale ed ambientale. Foreste intere vengono rase al suolo per sopperire al fabbisogno di legname della madrepatria ed esser trasformate in monoculture come olio di palma o biodiesel causando danni ecologici incalcolabili e l'acuirsi di conflitti sociali. Si inquinano la terra, il mare, i fiumi e le falde acquifere. Si distrugge la biodiversità, si mandano specie come il rinoceronte sulla via dell'estinzione perché il riccone di merda cinese vuole curare il cancro o l'impotenza che ha, con la cheratina del suo corno. Siate maledetti. L’intero continente nero è stato sventrato per l’estrazione di diamanti ed oro: nelle gigantesche miniere cinesi i nuovi schiavi africani estraggono minerali preziosi in condizioni disperate; i diritti dei lavoratori vengono calpestati in nome della logica spietata del profitto: decine di migliaia di minorenni a partire dai sette anni lavorano 12 ore al giorno a 2 dollari per datori di lavoro cinesi. Questo col comunismo non ha nulla a che vedere. E' capitalismo vero e proprio. Lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

« Già... », direbbe un radical-chic del PD pro libero mercato e globalizzazione: «... ma creano comunque lavoro e sviluppo sul posto, giusto? » Ma quando mai! Se il lavoro di pura fatica della miniera può esser fatto dagli schiavi africani, bambini inclusi, reperiti sul posto, nella stragrande maggioranza dei casi, ovvero lavori pubblici su grandi infrastrutture, la Cina non utilizza manodopera locale. Sarebbe da formare con difficoltà linguistiche insormontabili: gli schiavi provengono dalla madrepatria. Niente da dire, proprio un'economia sostenibile a km 0.

Come ogni mostro capitalista che si rispetti, il tentativo di conquista è poi soprattutto ideologico, subdolo. L'obiettivo ideale da raggiungere d'altronde è il cosiddetto autocolonialismo. L'obiettivo è portare le masse, tramite la propaganda, dalla loro parte in modo che il dominio non debba far uso della forza. Quello che la NATO, l'UE e l'ideologia neoliberale hanno fatto in Europa, mangiandosi cuore e cervello delle persone, soprattutto di sinistra, totalmente inebetite dal (loro) pensiero unico. Tramite forum annuali di cooperazione Cina-Africa, scuole cinesi come Istituti Confucio sparsi per il continente, controllo di televisioni, radio e giornali, vengono esaltate e rafforzate le relazioni economiche, politiche e diplomatiche tra Cina ed i paesi africani, vengono spinti i concetti di Beijing consensus, in contrasto al Washington consensus e poco alla volta, un enorme pubblico sempre in crescita viene traghettato verso le logiche del consumo e del mercato a lui totalmente estranee, le logiche per le quali Nyerere e Sankara si battevano. Nyerere è morto troppo presto e non ha potuto vedere come il mostro maoista in cui lui credeva è diventato in pochi decenni il più feroce capitalista del mondo, travestito però con la bandiera rossa della falce e martello.

Ma ciò in cui la Cina eccelle in Africa è indubbiamente il “land-grabbing”, l'accaparramento di terre una volta utilizzate per coltivazione di sussistenza a beneficio della popolazione che garantivano anche la biodiversità locale ed ora invece adibite a coltivazioni intensive alimentari ed energetiche destinate all'esportazione, a minimo uso di manodopera ed altissimo impatto ambientale. Privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite, il solito mantra capitalistico. Agricoltori locali sono costretti a cedere le loro terre in cambio di pochi soldi, a volte i governi nazionali che favoriscono investitori stranieri espropriano i terreni con azioni di forza. La Cina si impadronisce delle materie prime africane e poi vende loro i prodotti finiti. Questa è proprio l’essenza più pura e diabolica del colonialismo. E la depredazione neocolonialista non risparmia nemmeno il mare: già il pescato africano di proprietà cinese è vicino al 70% del totale. Ovviamente la pesca intensiva delle grosse imbarcazioni cinesi va a rifornire soprattutto i mercati esteri ed esaurisce poco alla volta le risorse ittiche dell'Africa a danno dei paesi costieri che invece hanno un bisogno vitale della pesca sostenibile di sussistenza. L'Africa in sostanza produce sempre più per il mercato estero e non per il consumo locale. Così paradossalmente, la fame in Africa non è dovuta alla mancanza di risorse, ma alla loro esportazione! Si esporta la produzione invece di consumarla. L'Africa muore di fame ed esporta cibo nei paesi dove invece si muore per eccesso di cibo. Non mi stancherò mai nella mia vita di mostrare i paradossi e le mostruosità del capitalismo, anche se litigo e discuto sempre con tutti. Morirò maledicendo questo sistema. Morirò litigando con tutti. Frega un cazzo.

Il dragone probabilmente ha anche altri piani nel continente nero. Nessuno sa perché, tantomeno io, ma stanno costruendo in Cina ed anche in Africa intere città fantasma, di centinaia di migliaia di abitanti teorici, al momento largamente disabitate. Un caso eclatante in Angola, Nova Cidade de Kalimba, alla periferia della capitale Luanda: le abitazioni non sono e non possono esser destinate agli africani perché hanno un costo troppo alto. Forse la Cina guarda all'Africa anche come una possibile soluzione ai suoi problemi di sovrappopolazione, pensando di trasferire decine di milioni di contadini senza lavoro. Il fatto innegabile è che l'emigrazione al contrario, dalla Cina all'Africa, è solo cominciata e sempre più massiccia. Fenomeno che sarà sempre più rilevante negli anni a venire. Probabilmente ne riparlerò tra 5-10 anni. Se ancora sono qui in questo pianeta, of course.

Ma il malcontento cresce ed il rapporto inizialmente percepito come paritario, sul famoso concetto del win-win, basato sullo scambio reciproco, sulla cooperazione sud-sud e cazzate varie, si sta sempre più incrinando, gli africani sempre di più capiscono l'inganno. Nello Zambia, in Tanzania, in Congo esplode il malcontento verso quelli che ora sono considerati i nuovi invasori; ci sono scontri, barbari omicidi, frizioni nei posti di lavoro. Tensioni sempre crescenti fra cinesi e popolazione locale. La penetrazione cinese nella Tanzania e nello Zambia è divenuta il principale oggetto di discussione politica di questi due paesi.

Non era questo sicuramente, lo scenario sognato nel dopoguerra, quando il continente africano cominciò a scrollarsi di dosso i gioghi coloniali incamminandosi verso l’indipendenza. La decolonizzazione ha fatto sognare un’Africa finalmente senza padroni. Ma i padroni non se ne sono mai andati ed altri sono arrivati. La storia, purtroppo, si ripete, con vecchi e nuovi attori, ma i medesimi risultati. La narrazione di comodo, al solito buonista di facciata ed improntata alla semplificazione storico-analitica della sinistra radical chic atlantista ed imperialista, attribuisce le colpe del sottosviluppo africano esclusivamente al passato coloniale, come tra l'altro se i colonizzatori fossero stati alieni extraterrestri e non loro stessi, nascondendo invece le responsabilità attuali degli investitori stranieri e dei creditori internazionali. Nonostante malattie, denutrizione e povertà dilagante i governi africani sono costretti a pagare miliardi di dollari ogni anno per adempiere agli interessi sul debito contratto con la finanza internazionale. Le multinazionali poi incrementano i loro profitti attraverso il saccheggio delle risorse e la manodopera a bassissimo costo, con la corruzione dei politici locali messi a busta paga. L'industria delle armi prospera grazie al dilagare dei conflitti legati anche a spartizioni territoriali fatte con riga e squadra, mai chiarite del tutto, sempre criticate ferocemente dall'immenso comandante Sankara.

Occorre analizzare lucidamente il presente e capire perché l'assistenzialismo, gli aiuti allo sviluppo e la costante “carità” di stati, organismi internazionali, istituti ed organizzazioni religiose oppure ONG laiche come Save The Children, MSF, UNHCR e via dicendo, non siano serviti davvero ad un cazzo in questi anni, anzi, abbiano peggiorato drasticamente la situazione ed impedito la nascita di industrie e competenze locali, di una popolazione fiera e colta, di condizioni igienico sanitarie quantomeno accettabili, di governi basati su onestà, sovranità popolare e democrazia vera. Urgono in Africa nuovi Thomas Sankara, Nelson Mandela e Julius Nyerere.

Jaguar a Dar Es Salaam

Abbandono la stazione e torno nella zona portuale del centro; l'autobus si romperà a metà tragitto e dovremo scendere tutti per spingere il catorcio e lasciarlo parcheggiato sul ciglio della strada. Proseguo a piedi, il centro non è lontano. La città nel frattempo si è svegliata. Comincio a girovagare senza meta, la cosa che più mi piace fare quando sono in un luogo che non conosco. Alla ricerca di incontri, persone, situazioni, atmosfere. Scorci. Foto interessanti. Storie di vita. Sono già le 11 di mattina ed il caldo è insopportabile. Tutti vogliono bonariamente parlare con me, portarmi da qualche parte, farsi offrire o vendere qualcosa. É un assalto continuo, ma discreto e genuino, piacevole. Non come quello egiziano. Vedono che sono diverso da loro e sono semplicemente curiosi. Mi fermo in una bettola, in un baretto sotto un tetto di lamiera con un paio di tavoli da biliardo mezzi rotti, sedie di plastica ed un frigo a vista ovviamente marchiato Coca Cola. Un tizio che dorme appoggiato al tavolo, forse ubriaco e le urla dei venditori nel mercato del pesce vicino. Con questa cappa di calore, una birra gelida è proprio ciò di cui ho bisogno! Non è per niente facile in posto mussulmano trovare birra, in Indonesia ogni volta è una sofferenza. Me la serve una bella ragazza di colore che fa un po' di tutto per colpire la mia attenzione. C'è un uomo in disparte assorto nei suoi pensieri, un po' triste. Lui è l'unico che non cerca la mia compagnia, dunque sono io che mi avvicino a lui, ben sapendo che la conversazione sarà comunque impossibile perché quasi nessuno a Dar Es Salaam parla inglese. Gli chiedo se vuole qualcosa da bere. «Are you muslim? Fancy a beer or something else?» Mi risponde. Inglese stentatissimo, ma parla meglio l'italiano! Vorrebbe una birra ma costa troppo, 2000 scellini, praticamente meno di un euro. Non può, ha una famiglia da mantenere. Ovviamente gliela offro io e così comincia la conversazione, con la ragazza del bar che ogni volta che viene al nostro tavolo di legno pericolante, si scolla sempre di più.

Jaguar di fronte alla sua baracca dove vende pitture

Si chiama Jaguar Sele, Jaguar come la macchina. Ha 48 anni ma ne dimostra più di 60. Conosce la mia lingua perché fino ad una quindicina di anni fa, lavorava con i turisti, soprattutto italiani. Il suo bacino d'utenza erano le persone che arrivavano a Dar Es Salaam in autonomia senza un'agenzia viaggi alle spalle. Lui si proponeva come guida locale per organizzare safari nei parchi del nord e portarli nelle spiagge di borotalco di Zanzibar. Tutto abbastanza facile, aveva soltanto un piccolissimo chioschetto alla partenza del ferry, i turisti arrivavano con regolarità stagionale e lui aveva di che vivere dignitosamente. L'avvento di internet ha distrutto il suo lavoro. Le persone cominciavano ad arrivare con pacchetti viaggi acquistati online, hotel prenotati su booking, tutto già fatto ed organizzato nel paese di provenienza. Lui non è riuscito a rimanere al passo coi tempi, non ha saputo reinventarsi; non aveva conoscenze tecniche, imprenditoriali e soprattutto il piccolo capitale di partenza da investire. Così ha dovuto cambiare lavoro. E' stato per anni impegnato nel manifatturiero e nella produzione di anacardi ma poi l'invasione cinese e l'automazione progressiva del posto di lavoro lo hanno reso disoccupato. Faceva il muratore, ma ora le grandi opere edili della città sono tutte appaltate ad aziende con gli occhi a mandorla che utilizzano, per comodità di lingua e velocità nel lavoro, manodopera cinese e non accettano africani. Ha una moglie che non lavora e due figli da mantenere che frequentano saltuariamente la scuola secondaria, praticamente solo quando lui riesce a pagare la retta mensile di circa 100 dollari a testa. Si rifiuta di mandarli alla scuola pubblica perché secondo lui non vale niente, decisamente scadente. E' meglio mandarli saltuariamente a quella privata dove si parla inglese, che continuativamente a quella pubblica dove si parla swahili.

La Tanzania ha investito le poche risorse che ha nella scuola pubblica primaria ovvero nell'educazione di base, la secondaria statale è scadente e quasi inesistente. Unica opzione possibile è quella privata ma ovviamente è riservata solamente a chi può pagare. In questi paesi l'ascensore sociale dell'istruzione non esiste. Chi nasce povero ed intelligente muore povero, figlio di un dio minore. Se vuole uscire dalla sua condizione di povertà ha solo una strada percorribile, la delinquenza. Ma la vita è breve. Chi nasce ricco e stupido può studiare ed ottenere comunque un posto importante nella società. E magari arricchirsi all'inverosimile, giustificando eticamente la propria ricchezza con un grado d'istruzione superiore rispetto alla massa ignorante, guardata con senso di disprezzo, senza capire egoisticamente però che lui ha avuto opportunità ben diverse rispetto agli altri. Meritocrazia ed uguaglianza dei diritti a puttane. Così funziona nella maggior parte dei paesi mondiali. In Europa ancora ci salviamo, ma la direzione neoliberista intrapresa va purtroppo dalla parte sbagliata, contro i sacri principi della costituzione. Sono anni che invano lo grido al mondo. Inascoltato. Tutti fan sfegatati nel neoliberismo made in UE.

Jaguar si è riconvertito a pittore, da giovane aveva frequentato due anni una scuola di pittura a Babamoyo, quella cittadina dove ora i cinesi vogliono costruire il più grande porto merci africano... impara l'arte e mettila da parte, come si dice. Purtroppo però vende le sue opere molto saltuariamente. Dar Es Salaam d'altronde è un posto di puro passaggio verso Zanzibar, non c'è davvero nulla che possa attrarre una qualche forma di turismo. Le persone stanno qui al massimo una notte, prendono il traghetto la mattina successiva e scappano via da questa fogna di città. E così per tirare a campare, lui ha una bicicletta mezza scassata e raccoglie i cartoni delle uova per poi rivenderli ai produttori locali. Guadagna una miseria, come tutti qui d'altronde. Mi porta a vedere la sua baracca ad una ventina di metri dal bar, dove conserva i suoi dipinti. Me ne porterò via due, un leone per Leonardo e delle donne masai che ballano per Maya, le due tele arrotolate in un tubo facile da trasportare e protette da carta di giornale. Con la promessa che quei soldi che gli lascio andranno a pagare la retta mensile della secondaria dei suoi figli.

I dipinti di Jaguar acquistati per Leonardo e Maya

«Jaguar, ma allora perché non ti trasferisci a Zanzibar? Lì ci sarebbero opportunità ben maggiori nel settore del turismo, avresti più possibilità di vendere le tue pitture!» Gli chiedo, ma la risposta è scontata. A Jaguar non piace la città: è calda ed umida, stressante e sporca ma non ha alternative perché gli isolani, quelli del continente non li vogliono. Ci ha provato a reinventarsi nell'isola con la sua famiglia, ma i locali gli mettono i bastoni fra le ruote, facendogli dispetti, derubandolo, rendendogli impossibile il lavoro e l'integrazione ed alla fine costringendolo ad andarsene. I famosi "beach boys" mi dice formano una specie di cartello nell'isola e le persone della terraferma che vanno lì per cercare umile lavoro non sono benvolute. Se tutti i disoccupati di Dar Es Salaam si trasferissero a Zanzibar, l'isola sarebbe invasa di manodopera, per loro non ci sarebbe più lavoro e si scatenerebbe una guerra tra poveri. Tutti avrebbero da perderne.

Rifletto. Jaguar non lo sa, ma nelle sue parole è condensato un anno di corso di economia. C'è tanto in quello che ha detto, a partire dalla "disoccupazione tecnologica" un concetto di cui si parla sempre troppo poco: la tecnologia impazzita ed incontrollabile nelle mani di poche multinazionali distrugge in generale più posti di lavoro di quanti ne crea, e dà a chi la governa un potere enorme, ben superiore a quello degli stessi stati. Lo sviluppo tecnologico dovrebbe esser pianificato dai governi centrali, dovrebbe esser più lento e funzionale al benessere dell'umanità, alla creazione di posti di lavoro, alla migliore distribuzione della ricchezza e delle risorse, al progresso culturale e spirituale dell'uomo ed alla tutela ambientale. Altrimenti è solo spazzatura che permette a poche persone di controllare il mondo, imponendo le loro regole. Jaguar probabilmente non conosce i concetti di disoccupazione tecnologica, di globalizzazione e penetrazione imperialista cinese, ma li ha subiti e può parlarne più e meglio di un docente universitario. Non conosce probabilmente Karl Marx, non conosce il concetto di “esercito industriale di riserva” né ha studiato la sua "questione irlandese". Lui come si comporterebbe se nella sua via aprissero 20 locali di pitture su tela a prezzi sempre inferiori ai suoi? Oppure se altre 10 persone si mettessero a raccogliere i cartoni di uova al posto suo offrendoli ai produttori alla metà del prezzo? Il problema innegabilmente esiste ogni qual volta si parla di immigrazione, la quale inevitabilmente genera svalutazione salariale a causa del surplus di manodopera sottoqualificata e poco specializzata. Giusto? Sbagliato? Non mi permetto di giudicare. Credo che sia una guerra tra poveri in cui ciascuna delle due parti ha posizione rispettabilissima da capire. Il problema non si può che risolvere alla radice, controllando in modo intelligente le frontiere e soprattutto combattendo non l'immigrazione ma lo sfruttamento dei popoli. Approfondirò il discorso, piuttosto complesso, nei post di viaggio di Lampedusa e del Burkina Faso.

Saluto Jaguar, lo ringrazio del paio d'ore di compagnia e scappo in aeroporto per volare al Selous Game Reserve. Un occhiolino per salutare anche la barista. Spiacente, sarà in un'altra vita.