Il paese delle mille (insanguinate) colline

Evidentemente per i trentennali ho un debole! Ero a piazza Tian' anmen a Pechino a 30 anni esatti dalla prima rivoluzione colorata della storia; ero in Cambogia nel 2015 a trent'anni dalla fine dell'egemonia comunista di Pol Pot che aveva sterminato un abitante su 4 del suo paese; ero in Chiapas l'anno scorso a 30 anni esatti dall'avvio della rivolta zapatista del subcomandante Marcos... e poi in Germania nel 2019 per l'anniversario della caduta del muro di Berlino... ed ancora in Burkina Faso dal grande comandante Sankara, anche se lì ho sballato di 4 anni.

E proprio oggi, 15 luglio 2024 sono in Rwanda: lo stesso giorno del 1994 terminava il più rapido e folle genocidio della storia, quello tra le due etnie Hutu e Tutsi, 100 giorni di orrore e violenza inimmaginabile in cui un milione di persone vennero ammazzate a colpi di machete e di propaganda, anche da amici, familiari e parenti, con le solite ovvie connivenze dell'imperialismo occidentale.

Tra l'altro, oggi in Rwanda è un giorno doppiamente importante: si vota infatti per rieleggere per l'ennesima volta il presidente-dittatore Paul Kagame, al governo da tempo immemore, proprio da quei giorni funesti. Riuscirà Paul a spuntarla nuovamente?

L'idea di questo ennesimo mio viaggio improvvisato è soprattutto quella di visitare i musei ed i memorial ruandesi più importanti, incontrando se possibile anche i superstiti del genocidio per raccogliere foto e testimonianze dell'orrore che fu. Poi proverò ad entrare in Burundi, alias il paese più povero del mondo, oppure nel Nord Kivu in Congo, a sole 3 ore di pullman da qui: lì ci sono le più grandi miniere di coltan al mondo (un minerale indispensabile per la costruzione dei nostri smartphone), dove bambini di 10 anni lavorano 12 ore al giorno per soddisfare la bulimia capitalista occidentale (più piccoli sono, meglio è perché possono più facilmente infilarsi in cunicoli stretti).

So bene che la situazione lì è caldissima, con il territorio totalmente in mano a guerriglieri e terroristi: proprio in quelle zone, vicino la città di frontiera di Goma, venne ucciso il 22 febbraio 2021 in un tentativo di rapimento l'ambasciatore italiano Luca Attanasio. Sono in contatto con un sacerdote congolese che operava a San Benedetto e con i salesiani di Don Bosco di Goma: entrambi mi sconsigliano categoricamente l'ingresso vista la situazione drammatica, anzi catastrofica, con guerra civile, milioni di sfollati e massacri impuniti all'ordine del giorno. Vedremo... ovviamente attraverserò il confine se e solo se le condizioni di sicurezza saranno accettabili.

Rwanda, la Svizzera d'Africa, e la sua capitale Kigali

Il biglietto aereo più economico mi costringe ad un lungo scalo, sia all'andata che al ritorno, a Nairobi in Kenya. Che inferno Nairobi! Atterro a Kigali che ancora mi fa male la testa per il casino infernale della capitale keniota e sputo ancora pezzi di polmone per tutto lo smog e la merda respirata in quel girone dantesco. Mi aspetto una cosa simile in Rwanda, se non peggio...

Ed invece devo ricredermi! Esco dall'aeroporto a piedi evitando tutti i tassisti che mi inseguono disperati, increduli che l'unico "bianco" atterrato non prenda un taxi, ed appena fuori prendo un pullman verso il centro della capitale. Il primo che si ferma è quasi "svizzero": nuovo, stile europeo, ovvero a forma di parallelepipedo perfettamente squadrato, aria condizionata, biglietto elettronico tramite e-card. Niente strilloni, niente porte aperte in marcia, niente animali dentro. Estrema pulizia interna.

I pullman nuovissimi e moderni di Kigali

I viali alberati ordinati e puliti di Kigali

Il primo impatto col Rwanda è di puro stupore: strade pulitissime, segnaletica presente, ben diffusa e nuova di zecca, niente spazzatura per terra, niente disperati che vagabondano... traffico regolare con la maggior parte delle auto nuove o recenti, chiaro indice di buon livello economico della popolazione, niente clacson impazziti e vecchi rumorosissimi camion che sputano fumo nero ed accelerano perdendo pezzi e materiale; niente smog, caos e frastuono, nessun groviglio inestricabile di lamiere immobili. Semafori digitali moderni con timer per l'attraversamento delle strisce pedonali e controlli di velocità ovunque. Controlli di velocità in Africa??? Ma quando mai!!!

Grandi viali alberati a doppia corsia con asfalto perfettamente nuovo, costeggiati da palme allineate e molto ben curate, strade ottimamente manutenzionate, edifici moderni ai lati, atmosfera sicura e totale assenza di quella infernale confusione, di quella sensazione di imminente disastro e pericolo tipica di tutte le grandi città del continente nero.

Ho viaggiato spesso nei paesi poveri africani e mai avevo visto una città così. Addirittura, e dico addirittura, in una zona molto urbanizzata di Kigali vedrò un fiume totalmente pulito con acqua cristallina. Non un solo rifiuto per terra. Da non credere! Chiunque ha viaggiato in Africa sa bene che i fiumi sono pattumiere a cielo aperto dove confluiscono ogni genere di liquami e rifiuti. E' difficile persino vedere l'acqua perché normalmente galleggia solo spazzatura.

Ma dove sono atterrato? Non è che per caso ho sbagliato aereo e sono a Zurigo? Certo, avevo letto che il Rwanda viene definito oggi la piccola Svizzera d'Africa, in virtù dell’ordine e della pulizia che vi regna, del diffuso rispetto delle regole e del miglioramento economico che caratterizza varie parti del territorio... Ma credevo fosse un' esagerazione. No no, tutto vero! Kigali è considerata la città più pulita, moderna e sicura del continente, regolarmente in cima alle classifiche in materia di ambiente e sviluppo urbano. Oggi è anche la destinazione numero uno in Africa per viaggi d'affari nonché epicentro degli interessi neocoloniali di USA ed UE: esattamente come la Svizzera “europea” ospita ogni anno a Davos i più grandi criminali del pianeta del WEF capitanati da quel demonio di Klaus Schwab, così la Svizzera d'Africa ospita nella famosa cupola del Kigali Convencion Center, ormai simbolo indiscusso della capitale, il WEF d'Africa, giusto per ingraziarsi quel tantino che serve i neoliberisti del pianeta (quelli con le corna ed il forcone) ed avere la strada spianata per l'accesso ai mercati, loschi o meno.

Downtown di Kigali

La cupola del Kigali Convencion Center

La grande e verde rotonda che porta alla Downtown

Guidare in Africa... ed in Rwanda

Comincio subito a scorrazzare per la città. L'idea è quella di girare a piedi, al massimo prendere un pullman per i tragitti più lunghi. Seehh vabbehh... Dopo un giorno intero passato a camminare in mezzo alle macchine in viali enormi a 2 e 3 corsie, continui saliscendi con discese interminabili e salite altrettanto infinite, capisco che la città non è a misura di pedone. Kigali è sterminata perché è fatta di tanti raggruppamenti isolati separati dal nulla, posizionati su altrettanti cucuzzoletti di colline. Le distanze sono davvero grandi, non percorribili a piedi. Capisco che se voglio ottimizzar tempi, visitare il più possibile e riuscire ad andar in Congo o in Burundi, devo per forza di cose affittare una macchina. E così farò.

In genere, non è assolutamente facile guidare in Africa. Devi aver mille occhi, le strade sono irregolari, spesso sterrate o con manto disastroso, il più delle volte in forte rilievo con voragini ai lati che se vai soltanto 2 centimetri fuori corsia sprofondi nel centro della Terra; la segnaletica è inesistente, l'illuminazione notturna non pervenuta, i semafori sono oggetti sconosciuti... e le regole semplicemente non esistono. Ci sono buche enormi proprio quando meno te lo aspetti nei punti più impensabili, le carreggiate sono invase da qualsiasi essere vivente o oggetto in movimento: biciclette, motorini, carri e carretti, mucche, pecore, galline ed animali anche selvatici. Una marea di persone camminano verso il nulla, anche al buio. E non si vedono proprio! Un attimo di distrazione e succede il patatrack. E difatti ai lati si vedono spesso carcasse abbandonate o mezzi in panne. In generale devi metter in un conto una trentina di km percorribili ogni ora se va bene, non di più, ed aver sempre ben stretto nella mano un rosario, un santino o qualcosa del genere.

Anche in Rwanda è così, seppur in misura minore: se è vero che le strade intorno a Kigali sono "europee" con grandi viali ottimamente asfaltati e perfettamente manutenzionati, man mano che ci si allontana dalla capitale le condizioni peggiorano inesorabilmente con la maggior parte dei percorsi che diviene sterrato ed irregolare. Ci sono però due importanti differenze rispetto al resto del continente nero: primo, le strade possono esser fatiscenti ma sono sempre pulitissime, una costante in tutto il Rwanda, segno evidente di una politica di tolleranza zero verso la plastica e la sporcizia, con contestuale sviluppo progressivo nei cittadini di una forte coscienza civica ed ambientale. Anche nei territori più remoti del Rwanda non vedrò mai una bottiglia di plastica o una cartaccia per terra. Tra tutte, questa è la cosa che in assoluto mi ha più colpito del paese.

E poi, numero due, la maniacalità del rispetto delle regole stradali. Solo per le macchine però, perché carretti, biciclette e persone possono trasportare ogni genere di cose creando anche diversi pericoli per la circolazione. In tutto il Rwanda, in città soprattutto, ma spesso anche nelle zone più rurali, devi star davvero attento ai limiti di velocità. Non ci crederete ma è così. Il paese è disseminato di totem neri che non si vedono, spesso nascosti da alberi o altro, con telecamere all'interno. Ti senti costantemente osservato... e chissà se dentro quei totem non ci sia anche un Grande Fratello che ascolta anche, scruta e controlla gli umori del paese. A Kigali ho guidato davvero con molta ansia perché al minimo sgarro, di qualsiasi tipo, la multa è inevitabile.

Limiti di velocità nel viale che porta all'aeroporto

Totem per il controllo dei limiti di velocità presente in tutte le strade del paese

Io ho preso tre multe in una settimana di guida. Non ci crederete ma sono istantanee, nel senso che arrivano immediatamente sul cellulare perché ad ogni auto circolante deve esser associato un numero di telefono. 15 dollari, nessuna spiegazione, nessuna possibilità di contestazione, e 3 giorni di tempo per pagarla tramite carta di credito o telefono. Zero cause, nessuna possibilità di replicare: un sistema che ti mette immediatamente in riga e ti costringe ad una guida impeccabile. Tolleranza zero, nel senso che se 60 km/h è il limite, a 61 arriva la multa. Tutto semplicissimo.

Da noi le multe arrivano rigorosamente alla scadenza di legge dei 3 mesi al fine di farti cadere nella trappola ripetutamente, la multa è spropositata tanto da ridurre sul lastrico un povero operaio padre di famiglia, vengono tolti punti della patente in modo criminale ed in numero sempre maggiore costringendoti a costosissimi corsi presso le Autoscuole per recuperarne una manciata, gli autovelox sono spesso irregolari e posizionati in punti strategici per far cassa. Ed ovviamente, cause su cause che ingolfano la giustizia. Sì, sono rimasto davvero sbalordito dal sistema stradale ruandese!

Rwanda: le ragioni di una rinascita

Il Rwanda è uno degli stati più piccoli e densamente popolati del continente, essendo grande più o meno come la Sicilia ma con il doppio della sua popolazione, sempre in costante e vertiginoso aumento. Come dappertutto nel continente infatti, i ruandesi figliano come conigli: la popolazione attuale (14 milioni) è quasi raddoppiata nel giro di un solo ventennio, con un’età media ben sotto ai 25 anni. Altro che Italia! Adulti quasi non se ne vedono. Ed è anche chiaro il perché: 30 anni fa sono stati ammazzati quasi tutti, e chi non è morto è fuggito nei paesi limitrofi.

Sovranità monetaria ed inflazione medio-bassa sono i motori diesel di un’economia che cresce a ritmi sostenuti, molto più di quella della gran parte dei paesi africani. Il presidente dittatore ha l'ambizione di fare del Rwanda il modello di sviluppo da seguire per l'intero continente: egli non si accontenta di poter vantare già il reddito pro-capite più alto del centro Africa, ma vuole raggiungere lo status di paese a medio ed alto reddito rispettivamente entro il 2030 ed il 2050.

Il turismo è decisamente agli albori ma in ogni caso crescente, offrendo costosissimi tour per avvistare gli ultimi gorilla di montagna, eco-lodge di lusso in riva al Lago Kivu e nei bei parchi nazionali, oltre a diversi quartieri chic nella capitale dove i ragazzi locali sorseggiano cocktails e calici di vino, dandosi un tono e scimmiottando i figli di papà europei.

La popolazione gode di un'alta aspettativa di vita, oggi di quasi 60 anni (nel '94 era meno di 40), il tasso di alfabetizzazione ha raggiunto l’84 per cento ed i tre quarti delle abitazioni sono connesse alla rete elettrica: dati davvero notevoli per il continente. Investimenti costanti in sanità ed istruzione. Stabile politicamente (nel senso che la dittatura è stabile...) e con forte componente femminile nelle istituzioni, addirittura maggioritaria in parlamento, dato che colloca il Rwanda al primo posto in Africa e ben al di sopra di molti paesi occidentali nel campo della partecipazione politica femminile. Un generale senso di ordine, pulizia e rispetto delle regole regnano in tutto il paese. Non si vedono quartieri degradati, perché balordi, senzatetto, vagabondi e delinquenti vengono inseriti dal governo in un “piano di rieducazione” che prevede il trasferimento in “centri di riabilitazione”, il più famoso dei quali si trova nell’isola di Iwawa al centro del Lago Kivu: le Hawaii per le autorità, Alcatraz per i ruandesi. Questione di dettagli e di punti di vista.

Il Rwanda è uno dei Paesi più fertili del mondo e l'agricoltura è indubbiamente la sua forza: il primo settore dà lavoro quasi al 90% della popolazione, puntando principalmente su caffè, tè, banane e mango. Al presidentissimo Paul Kagame indubbiamente va il merito di aver “traghettato” il paese fuori dalla melma del conflitto etnico, di aver garantito stabilità e sicurezza e di tenere in forte considerazione anche gli aspetti ambientali.

Ok, ok, ok... fine della favoletta. Siamo realisti... a cosa è dovuto realmente tale miracolo? Quali sono le ragioni di una tale rinascita economica, civile e sociale? Il Rwanda è una nazione minuscola, senza porti e sbocchi naturali sul mare, circondata dai paesi più poveri e disperati del mondo (Burundi, Uganda, Congo, Tanzania, Kenya etc...), solo 30 anni fa insanguinata da un genocidio che ha lasciato traumi indelebili nella popolazione... la sovranità monetaria ruandese è fondamentale in un contesto di paesi limitrofi piagati dal Franco CFA, ma questa è condizione solo necessaria, assolutamente non sufficiente per una crescita economica così forte.

Una situazione di benessere generale in un contesto di vicini disperati fa pensare a qualcos'altro; non si può spiegare solamente con agricoltura, banane e caffè, lotta a corruzione e taglio della burocrazia, parità di genere ed emancipazione femminile... anche perché il Rwanda, essendo così ricco e fertile, come quasi tutti i paesi africani non è estraneo al triste fenomeno del land grabbing cinese. Chi è stato l'autore di tale miracolo? Come e perché? Le risorse per gli investimenti da dove provengono?

Le risposte a queste domande inevitabilmente convergono tutte nel presidente ruandese Paul Kagame, il quale ha fatto diventare oggi il Rwanda il crocevia di tutti i traffici sporchi che riguardano i minerali depredati nell'area congolese di confine del Nord Kivu e dell'Ituri, vicini al Lago Kivu ed alla città di frontiera di Goma, con Kigali che è ben presto diventata il centro mondiale di smercio e commercio di coltan, oro, diamanti e metalli quotati poi alla borsa di Anversa.

La ricchezza del Rwanda non sono dunque le banane, né le donne in politica o la pulizia delle strade... o il "volemose bbè" del percorso di riconciliazione, pur importantissimo ma assai difficile dopo che il tuo vicino ha tagliato in due pezzi il corpo di tuo figlio, è ancora a piede libero e tu devi fingere un perdono che nel tuo cuore non esiste.

La ricchezza del Rwanda oggi puzza di morte, di accaparramento ricchezze altrui e di sfruttamento del lavoro minorile, con i loschi traffici di Kagame forniti su un piatto d'argento ad UE e USA. Ciò assicura al Rwanda introiti fantasmagorici, tutti però rigorosamente dirottati a Kigali, che abbellisce i propri viali, costruisce nuovi grattacieli ed acquista nuovi fiammanti pullman. Tutte le risorse economiche del coltan depredato al Congo finiscono nella capitale, mentre il resto del paese, di quei soldi sporchi vede soltanto le briciole.

Sì, l'avrete capito: il prezzo da pagare per un Rwanda che poco a poco rinasce, si chiama Paul Kagame. Ci fa pure rima... ne parleremo abbondantemente in seguito, perché lo “spilungone” Paul è il personaggio chiave di tutta la vicenda, di ieri e di oggi. Dei conflitti di ieri e di quelli di oggi.

Le mille colline ruandesi

Visito in un paio di giorni i vari musei del genocidio di Kigali, ed esco immediatamente dalla città per girare tutto il paese: prime destinazioni Nyamata e Ntarama, cittadine abbastanza vicine ad una quarantina di km a sud della capitale, entrambe teatro di due dei più efferati eccidi di massa del conflitto etnico del '94.

Ci troviamo poco sotto l'equatore e nonostante sia luglio la temperatura è davvero gradevole: il Rwanda si trova infatti in un altipiano e presenta un clima salubre e temperato grazie alla sua altitudine media compresa tra i 1500 ed i 2000 metri. Il panorama? Decisamente monotono. Campi coltivati e... colline, colline colline. Ovunque a perdita d'occhio, colline più o meno brulle e spelacchiate, a tratti anche boscose. Il Rwanda, esattamente come la sua capitale, è un infinito saliscendi: non è un caso che venga chiamato “il paese delle mille colline”.

Le mille colline ruandesi

Evito accuratamente il parco nazionale dei vulcani, dove per la modica cifra di 1500 euro ti danno la possibilità (solo la possibilità tra l'altro, nessuna certezza) di avvistare e passare una sola ora (!!!) con i gorilla di montagna. Né entro al parco nazionale Akagera ai confini con la Tanzania: con il mezzo affittato è vietato oltreché impossibile, in quanto solo un fuoristrada per safari molto alto da terra può affrontare quegli sterrati ed i tanti guadi... entrare invece con un ranger del parco costa la bellezza di 500 dollari. Direi che dopo esser al Serengeti, al Ngorongoro ed al Selous in Tanzania, posso anche evitare! E poi spesso animali selvatici se ne vedono normalmente... oltre al fatto che vicino Nairobi, nel lungo scalo fatto all'andata, ho anche avuto l'incredibile fortuna di vedere due rinoceronti, uno bianco e l'altro nero, una specie in via d'estinzione, davvero rarissima da avvistare.
Insomma, cari gorilla ruandesi ed animali tutti dell'Akagera, sarà in un'altra vita, se mai sarà.

Incontro con due zebre in una zona rurale lontana da Kigali

Immediatamente, appena fuori Kigali, capisco che il Rwanda non è assolutamente come la sua capitale e che la realtà è più dura di ciò che appare. Certo, il paese è in genere molto pulito e sicuro, ma rimane povero. Più ci si allontana dal cupolone del Convencion Center, più si vedono povertà e frugalità, anche se quel senso di pulizia e sicurezza, del tutto atipico in un paese africano, sempre ti accompagna ed è una costante in tutto il paese. Già ad una ventina di km dalla capitale la ruralità prende il sopravvento e ci si immerge nell'Africa nera tradizionale.

Uscendo da Kigali: la ruralità prende il sopravvento

La tipica strada ruandese fuori dalle rotte principali

La tipica casetta ruandese immersa nei bananeti

Casetta con mattoni di fango

Pompaggio acqua dai tanti pozzi

I SUV nuovi e puliti lasciano spazio a biciclette scassate, a carretti mezzi storti ed asini raglianti, i viali alberati a strade sterrate in mezzo a bananeti, le luci dei lampioni stradali al buio pesto... i palazzi moderni con facciate vetrate fanno spazio a capanne di paglia e fango. Non si vedono più studenti che vanno a scuola con la divisa ma bambini scalzi e mezzi nudi che che giocano rotolando copertoni oppure che aiutano in famiglia pompando acqua dai pozzi, riempendo taniche di acqua e trasportandole fino a casa... sempre divertendosi da matti, sempre con il sorriso bello stampato in viso. Niente smartphone, playstation ed altre diavolerie del genere.

Scorrazzo per il paese avendo come destinazione i luoghi principali della memoria, tra infinite piantagioni di banane e villaggi persi nel tempo. Tutti trasportano qualcosa: a tratti mi sembra quasi di stare nel khumbu, la regione himalayana degli sherpa! Le persone caricano all'inverosimile improbabili e sgangherate biciclette con decine e decine di kg di banane oppure un numero imprecisato di taniche d'acqua per portarle a casa o al mercato, sottoponendosi al calvario delle mille salite ruandesi e delle altrettante discese, forse ancor più faticose... ci si aiuta con delle corde e con le spinte dei bambini.

A proposito, che spettacolo i bambini in Africa! Una gioia infinita ogni volta che mi vedono... manco vedessero il Padre Eterno! Mi saltano attorno, ridono, mi osservano incuriositi, mi invitano a giocare con loro ed intristiscono quando vado via. Inseguono la mia macchina correndo a perdifiato sul brecciato totalmente scalzi, senza sentire il minimo dolore ai piedi... finché non mi fermo impietosito e loro divengono come per magia i bambini più felici del mondo. E' sempre così quando vado nei posti sconosciuti dell'Africa nera non contaminati dal turismo di massa... ed il mio cuore si riempie di gioia ed un velo di malinconia.

Anche gli adulti mi fermano in continuazione e mi chiedono di poter far una foto selfie con me, tra l'altro nemmeno con il loro cellulare perché non hanno smartphone, ma con il mio! Poi mi invitano nelle loro umili dimore cercando di intavolare una difficile conversazione, in quanto il loro inglese è il più delle volte molto stentato.

Dove ho dormito? Dove capitava. Quasi sempre in modestissimi alberghetti improvvisati lungo la strada, essenzialmente abitazioni di famiglie locali che mettono a disposizione dei viaggiatori uno stanzino. L'avrete capito, parliamo di hotel super lussuosi dalle 7 stelle in su. Questo ad esempio il bagno del Grand Hotel Excelsior di un paesino sperduto nelle campagne ruandesi, costato la bellezza di... 5 euro la notte (colazione esclusa però!). Ecco perché viaggio sempre in solitaria e mia moglie preferisce rimanere a casa. E pregare per me.

Storia del genocidio (1): etnogenesi Hutu-Tutsi di origine coloniale e religiosa

Al di là delle mille colline e poco altro (molto poco), il Rwanda sarà comunque ed ovunque per sempre ricordato come teatro di uno dei più grandi orrori della storia. Uno sterminio rapidissimo, diabolicamente premeditato nei dettagli, di una ferocia davvero inimmaginabile, difficile sia da credere che da comprendere. Dici Rwanda infatti e la mente va immediatamente al genocidio di 30 anni fa. Sì, soli miseri 30 anni fa, quando Berlusca diventava presidente del consiglio portando in parlamento il suo harem di gnocche dal QI di una ameba, Bettino Craxi abbandonava l'Italia e fuggiva ad Hammamet in Tunisia, quando la Nato e gli USA (sì, sempre loro...) destabilizzavano i Balcani "esportando democrazia" col solito corredo di bombe e morti ammazzati, quando la Giornalista Ilaria Alpi (G maiuscola per distinguerla dai pennivendoli sparacazzate dei giorni d'oggi) perdeva la vita in un agguato organizzato dai servizi segreti italiani in Somalia... quando Nelson Mandela diventava presidente del Sud Africa, Ayrton Senna si schiantava nel circuito di Imola con la sua Williams e il "Divin Codino" Roby Baggio sparava in orbita sulla Luna il rigore decisivo della finale dei campionati del mondo di USA '94 a Pasadena.
Sì, sembra ieri, ma sono passati ben 30 anni.

Come è potuto accadere un tale orribile massacro da un giorno all'altro? E' davvero possibile secondo voi che un popolo intero si sveglia una mattina e decide di ammazzare a colpi di machete un milione di persone civili dell'etnia rivale, tra l'altro spesso conoscenti se non addirittura amici e parenti stretti? Certo che no...

Per comprendere a fondo ciò che è successo e soprattutto perché, occorre necessariamente fare un passo indietro nella storia ed analizzare le radici più profonde di un immenso odio e rancore sfociato poi nel bagno di sangue.

Si capirà come il genocidio del 1994 sia stato l'inevitabile punto di arrivo di una società divisa e violenta che aveva perso ogni sorta di vincolo morale, in un contesto di disuguaglianze sociali e sfruttamento, di crisi economiche ripetute ed ulteriormente esasperate dall'intervento del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, con fortissime ed insanabili rivalità etniche create a tavolino dal colonialismo occidentale ed alimentate all'inverosimile dall'incessante propaganda.

No... un popolo non ha assolutamente preso a squartare da un giorno all'altro: stermini di massa coinvolsero infatti l'intera regione dei Grandi Laghi fin dalla fine degli anni '50, per continuare tra l'altro anche dopo il 1994. Teatro degli eccidi (sia ben chiaro, non parliamo di omicidi isolati, ma di centinaia di migliaia di morti ammazzati pre e post genocidio) sono non solo il Rwanda, ma tutti i suoi paesi confinanti interessati dalla questione razziale: il Burundi a sud, il Congo a ovest (l'ex Zaire), la Tanzania ad est e l'Uganda a Nord.

Ed al solito nulla accade nel mondo, in Africa soprattutto, senza lo zampino e la longa manus dell’imperialismo occidentale: Belgio, Francia ed USA in particolare, hanno avuto un ruolo chiave e cruciale nei conflitti etnici ruandesi, burundesi e congolesi. Vediamo quando, come e perché.

Storicamente nel Ruanda erano presenti (e lo sono tuttora) tre etnie principali: Twa, Hutu e Tutsi (abbreviazione comunemente accettata di BaTwa, BaHutu e BaTutsi). I Twa possiamo identificarli con i pigmei: di professione principalmente cacciatori, raccoglitori e vasai, sono di bassa statura e pelle molto scura. Costituiscono il gruppo meno numeroso dello stato, circa l'1%, anche se probabilmente sono stati i primi ad essersi insediati nell'area.

Gli Hutu, di statura media e corporatura robusta, naso largo, labbra grandi e pelle molto scura, sono il gruppo bantu di maggioranza nel paese, circa l'85%, giunti in Rwanda intorno al 1000 d.C. , principalmente dediti all'agricoltura ed al culto religioso.

Infine i Tutsi, provenienti dall’Etiopia intorno al XIV secolo: sono molto alti e snelli (altezza media 180 cm), naso e volto in genere più sottili, pelle più chiara; essi rappresentano il 14% circa della popolazione, dunque la minoranza e sono dediti all'allevamento. Facilissimo per gli italiani identificare tale etnia: ricordate la canzone di Edoardo Vianello del 1982? «Nel continente nero? Paraponziponzipò? Alle falde del Kilimangiaro? Paraponziponzipò?...» Sì, sono proprio loro, i Vatussi (italianizzazione del termine BaTutsi), “gli altissimi negri”. Figuriamoci se oggi si potrebbe cantare una canzone simile, infarciti come siamo di politicamente corretto!

In Rwanda, come in Burundi, i Tutsi rappresentavano l'aristocrazia della società, possedevano la terra e il bestiame che garantivano loro introiti maggiori, e gestivano il potere politico.

A partire da un popolamento antico, sul quale in ogni caso non esistono certezze dal punto di vista temporale, si è costituito progressivamente un regno centralizzato con una società a struttura piramidale, al cui vertice si trovava il re Tutsi, detto Mwami.

Anticamente, prima dello scellerato arrivo degli europei, era possibile passare da un gruppo all’altro, ad esempio contraendo matrimoni misti, ed esisteva una reale convivenza più o meno pacifica tra le varie etnie: la differenza tra i gruppi era più di carattere sociale, fisico ed antropologico che razziale e chiunque poteva migliorare la propria condizione, salendo nella scala sociale. Ad esempio, se possedevi più di 10 mucche eri automaticamente Tutsi, diventando Hutu se invece ne avevi soltanto 9. Per secoli i ruandesi vissero più o meno in pace condividendo una stessa religione, cultura e lingua. Certo, potevano esserci attriti e scontri, e ce ne erano, ma mai su base razziale ed a nessuno saltava minimamente in mente di ammazzare un concittadino perché era un Hutu agricoltore/religioso delle campagne, o un Tutsi allevatore/politico del paese, o un Twa vasaio/indigeno delle foreste.

Le cose cambiarono drammaticamente con l'arrivo dei coloni, prima tedeschi poi belgi, i quali allargarono ulteriormente e alimentarono la differenza tra questi due gruppi facendo danni incalcolabili: giunti verso la fine del XIX secolo in quell'area battezzata Rwanda-Urundi (solo dall'indipendenza del '62 nacquero i due stati distinti di Rwanda e Burundi), presero a saccheggiare le risorse del paese, sfruttando la manodopera e drenando ricchezze, distruggendo culture e tradizioni millenarie. Imposero una radicale conversione dell'agricoltura e dell'allevamento, finalizzate ora non più al soddisfacimento della domanda interna ma all'export, controllando le inevitabili sommosse e rivolte interne con i sempre attualissimi "divide et impera" e "panem et circenses".

Essi videro i Tutsi fisicamente ed intellettualmente "superiori", più adatti per co-governare e gestire il paese, e relegarono gli altri Hutu e Twa a ruoli lavorativi pesanti, a mansioni più umili e meno retribuite, privandoli col tempo dei diritti più elementari e della loro autorità religiosa. Cominciarono a dialogare con la parte di popolazione detentrice del potere politico ed economico coinvolgendoli poco a poco in posti e ruoli strategici dell'amministrazione coloniale. Dunque i Tutsi, coccolati dalla carota belga, trassero immediatamente (apparenti) benefici dal colonialismo e furono piuttosto compiacenti con l'euro-potere. Per intenderci, sempre schiavi in quanto colonizzati, ma Kapò ed aspiranti SS.

Gli europei trasformarono così quella che era una semplice differenziazione antropologica e socioeconomica in una pericolosa differenza razziale basata sull'osservazione dell'aspetto fisico degli individui. In questo modo la struttura della società venne irrigidita in modo piramidale: al vertice i bianchi, detti "Bazungu", poi il gruppo di Tutsi funzionale al potere dei primi, ed infine i lavoratori Hutu, umiliati come esseri inferiori. Manco menzionati invece i Twa, essenzialmente poco più che scimmie delle foreste.

Una struttura dunque classista tipica del capitalismo, che in Africa non esisteva. E dove arriva il capitalismo, prima o poi arriva l'inferno, è solo questione di tempo. Perché è sistema innaturale e violento, con l'uomo singolo, la società tutta e l'ambiente. Un sistema, per dirla alla Sankara, "strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi".

Non fu più possibile, per nessuno, cambiare gruppo: si restò bloccati all’interno di quello di appartenenza, si crearono delle vere e proprie caste, chiuse come gabbie. Venivano misurate le caratteristiche somatiche come altezza e dimensioni di naso e labbra per determinare l'appartenenza alla data etnia. Gli "spilungoni" erano tipicamente Tutsi mentre i "tarchiatelli" Hutu. Ben presto la maggioranza povera e tarchiatella venne assoggettata dalla minoranza ricca e spilungona, e l'identità etnica, prima assolutamente ininfluente, divenne determinante nelle vite dei ruandesi.

Un sentimento di odio e risentimento cresceva sempre più nel popolo sottomesso. I due gruppi prendono a diffidare l’uno dell’altro, generando una frattura sociale insanabile ed esponenzialmente divergente. Nel 1933 i belgi ebbero addirittura la fantastica idea di inserire nella carta d'identità l'etnia di appartenenza. Il seme del genocidio del '94 probabilmente è proprio questo evento: la carta d'identità sarà infatti lo strumento chiave per identificare con certezza nei posti di blocco i Tutsi da trucidare.

Carta d'identità di una studentessa Hutu

La chiesa purtroppo, in tale disastroso processo di forzata etnogenesi, fece la sua bella porca parte. Per tanti santi missionari che cercavano di avvicinare i ruandesi al Verbo senza imposizioni e violenza rispettando cultura locale e tradizioni, ce ne erano altrettanti, se non di più, che invece nella fitta rete di scuole, ospedali e parrocchie che garantiva loro il pieno controllo sociale, propagandavano il biologismo e l'antropologia razziale: falsificando dati storici e interpretando tendenziosamente i testi sacri, essi presero a spiegare l'esistenza di civiltà africane sulla base del mito hamita (detto anche camita a seconda dei testi).

Secondo la storiografia biblica tutti i popoli della terra discendono dagli unici sopravvissuti al diluvio universale, ovvero Noè ed i suoi figli: da Sem discesero i Semiti (tra cui gli arabi e gli ebrei), da Jafet gli Europei (o Jafesiti o giapeti), da Cam discesero gli uomini dalla pelle scura, i Camiti, che popolarono l'Africa. Prende così via l'ipotesi di una razza africana "superiore" di cui i Berberi, gli Abissini, i Tutsi avrebbero fatto parte: è il ramo camita della razza bianca che porta civiltà tra gli sporchi e primitivi negroidi, loro più simili a scimmie che ad esseri umani. I belgi inculcarono nei Tutsi, così alti, belli e di carnagione più chiara, l'idea che fossero il risultato di presunti legami parentali tra gli europei e le popolazioni dell'Africa settentrionale, dunque una razza intrinsecamente superiore, in quanto più vicina a quella caucasica, ben diversa da quella degli Hutu.

L'ideologia camitica era largamente accettata nella chiesa ed ebbe un ruolo importantissimo nella preparazione del genocidio perché divise, anche religiosamente, un popolo in precedenza sempre unito, e soprattutto, spianò la strada all'ideologia opposta dell'Hutu Power.

In conclusione, la causa principale del genocidio è imputabile senza alcuna ombra di dubbio al colonialismo occidentale: belgi e religiosi cattolici furono i principali responsabili di tale follia in quanto colpevoli di quello che in gergo tecnico si chiama "etnogenesi", ovvero la creazione di rigide entità etniche a mo' di compartimenti stagni per perseguire i propri scopi imperialisti, politici ed economici. Creato questo mostro di odio, poi tutto il resto ne è stato la diretta conseguenza.

La Chiesa ha giocato purtroppo un ruolo chiave nella divisione etnica della popolazione, prima sponsorizzando l'ipotesi hamitica, poi gettando le basi per l'Hutu Power. Non solo: diverse decine di sacerdoti parteciparono attivamente ai genocidi, alcuni dei quai sono forse ancora rifugiati in Italia sotto falso nome e protetti dal Vaticano. Ne parleremo più avanti.

Storia del genocidio (2): il vento cambia

La persecuzione etno-socio-economica degli spilungoni verso i tarchiatelli però non aveva fatto i conti con la matematica. Quella semplice eh, mica parlo di equazioni differenziali alle derivate parziali... E la matematica condannava i Tutsi in modo impietoso: per ognuno di loro c'erano infatti 6 Hutu. E così ben presto il vento girò e gli europei cambiarono casacca.

L'antifona indipendentista, cominciata col Ghana nel 1957, si stava espandendo in tutta l'Africa, ed il Belgio verso la fine degli anni '50 cominciò a dubitare della fedeltà dei vertici Tutsi, i quali si dimostravano impazienti di liberarsi dal giogo coloniale. Insomma, gli spilungoni volevano diventare i leader solitari di un paese autonomo, evolvendosi da semplici Kapò marionette dei belgi, ad SS. E così i coloni cominciarono a sostituire gran parte dei capi Tutsi con quelli Hutu, notando che la cosa era molto meglio tollerata in quanto questi ultimi rappresentavano la maggioranza della popolazione. Gli Hutu insomma si ritrovarono improvvisamente accolti e benvoluti da quelli che pochi mesi prima li disprezzavano.

Gli Hutu poco a poco presero consapevolezza del loro stato di sottomissione e del loro enorme vantaggio numerico, così anche la Chiesa per mantenere il suo potere ribaltò la strategia e prese a denunciare la loro discriminazione, rivendicandone l’emancipazione e la parità di trattamento, radicalizzando ancor più le posizioni, etnicizzando un conflitto sociale che invece aveva origini prettamente "capitaliste", ovvero di disuguaglianza economica. La discriminazione contro gli Hutu era forte in particolare nell'educazione: i migliori studenti tarchiatelli non potevano proseguire gli studi se non nei seminari: ed è infatti proprio qui che si forma una contro-élite Hutu. I religiosi presero a sponsorizzare poco alla volta, per convinzione in alcuni casi, per convenienza in molti altri, la causa del popolo maggioritario.

Da molti, il padre del genocidio è identificato nel vescovo svizzero Andrè Perraudìn, a capo della chiesa cattolica ruandese, il quale, d'accordo col governo belga, scrisse il “Manifesto del Popolo BaHutu”, essenzialmente l'antenato dei famigerati "10 comandamenti Hutu" del 1990, i quali costituiranno la colonna portante dell'ideologia razziale genocidaria nota come "Hutu Power". Il Manifesto creava la cosiddetta democrazia etnica, demonizzando i Tutsi in tutta la regione dei Grandi Laghi ed andava a costituire la base ideologica del Parmehutu, il neo-partito per l’emancipazione degli Hutu di cui Perraudìn divenne segretario, che subito si caratterizzò per posizioni aggressive e profondamente razziste.

Il vescovo poi, per non farsi mancar nulla ed aver la strada spianata verso l'inferno, partecipò addirittura al complotto per assassinare in Burundi il Re ruandese Tutsi di quel tempo, colpevole nel 1955 di aver pesantemente "pisciato fuori dalla tazza": il Mwami Mutara III infatti, consapevole che si stava apparecchiando la tavola per il disastro, ebbe un improvviso scatto d'orgoglio e si ribellò contro il protettorato belga, sostenendo che non esistevano Tutsi, Hutu e Twa ma soltanto ruandesi. Prima pisciatella fuori dalla tazza. Poi se ne passò alla grande, chiedendo ufficialmente all’ONU l’indipendenza ed il rimpatrio dei missionari, perché essi non portavano pace ed evangelizzazione ma solo odio etnico attraverso ideologie razziste e politiche divisioniste. Apriti cielo! Morto ammazzato, esattamente come tanti altri capi di stato africani che hanno provato a ribellarsi all'imperialismo occidentale, francese in particolare.

Perraudìn, pensionato felice e beato in Svizzera nonostante centinaia di migliaia di morti sulla coscienza, prima di morire nel 2003 affermò pubblicamente: «I Tutsi se lo sono meritato». Vabbè, passiamo oltre.

Insomma, ci fu verso la fine degli anni '50 un radicale cambio di prospettiva. Si verificò di fatto un’inversione di preferenza etnica, con coloni e missionari che capirono che il vento era cambiato e che per mantenere il potere dovevano assecondare tale cambiamento: fino a ieri razza superiore, i Tutsi diventarono improvvisamente una minoranza di coloni invasori, mentre gli Hutu furono “promossi” ad autoctoni e maggioritari.

Già li sento i discorsi del tempo: «Affanculo l'ideologia hamitica precedente, tutte cazzate, ci siamo sbagliati! Ora vale l'Hutu Power! Solo loro gli eletti del Signore! I Camiti sono gli Hutu, non i Tutsi! Abbiamo trovato reperti archeologici che lo dimostrano... lo dice la scienzaaaahhhhh!! le pubbbblicazzzzioni scientificheeee!!! L'EMA e l'AIFA vigggilano sulla scienzahhh!!! Chi sostiene il contrario è comblottistaaa, sovranistaaa, fasssistaaa, terrapiattistaaa! E poi, discriminare o peggio, ammazzare un Tutsi è un atto d'amore ed un obbligo moraleeee...»

Così, cambiato il vento, il movimento indipendentista ruandese fu guidato principalmente dalle forze Hutu divise in vari partiti e correnti di pensiero, ovviamente tutte però sempre eterodirette dagli europei. Anzi, è molto probabile che esso sia stato addirittura un piano ben architettato dai bianchi al fine di conservare la loro egemonia. Infatti, una volta compreso che l'onda indipendentista era forte ed inarrestabile in tutta l'Africa, tanto valeva assecondarla ed incanalare la rivolta nella direzione opportuna, "regalando" una liberazione solo formale, ma non sostanziale. Il piano era di indirizzare la rabbia ed il desiderio di rivalsa degli Hutu non verso i padroni bianchi ma verso i signorotti Tutsi: ed i tarchiatelli ovviamente, ci cascarono alla grandissima.

La solita tattica insomma dei padroni capitalisti di ieri e di oggi: le loro ciniche tecniche sono sempre le stesse e Marx, ancora una volta, è sempre attualissimo. Oggi ad esempio, per continuare a regnare indisturbati sul mondo imponendo sfruttamento del lavoro e costante deflazione salariale, tramite una propaganda televisiva martellante ed il sostegno incondizionato di una stampa totalmente controllata e compiacente, essi orizzontalizzano il conflitto di classe mettendo in competizione lavorativa i penultimi (gli autoctoni) contro gli ultimi (i migranti): se fossero più intelligenti ed avessero davvero un minimo di coscienza di ciò che accade, tutti i lavoratori, anziché scannarsi tra di loro, si coalizzerebbero per liberarsi dal giogo dei padroni.

Torniamo al Rwanda. Nel 1959 la rivolta tarchiatella contro la monarchia belga-Tutsi, fece la modica cifra di 100.000 morti ammazzati (stima per difetto). No dico, 100.000! E' il cosiddetto “piccolo genocidio ruandese”, l'antenato dello sterminio di massa del '94: due anni di massacri ed esodi di massa nei paesi limitrofi. La maggioranza Hutu, oramai consapevole della propria forza, scaccia gli spilungoni a calci in culo verso Uganda, Burundi ed Congo dove misero radici, ma sempre sperando di poter un giorno rientrare in patria e prendersi la rivincita. Tra gli esodati c'era anche un certo Paul Kagame, il personaggio più importante di tutta la vicenda, attuale presidente dittatore del Rwanda.

Si arriva così senza opposizione alcuna al referendum del ’61 che condusse l’anno successivo alla nascita del Rwanda indipendente (con separazione dal Burundi) e l'instaurarsi della Repubblica Hutu. Repubblica si fa per dire ovviamente... era una dittatura spietata, in quanto il Parmehutu era l’unico partito autorizzato nel paese ed esprimeva apertamente una ideologia fortemente razzista anti-Tutsi, presentandoli come uno straniero etiope che per secoli aveva oppresso il popolo autoctono.

Gli Hutu, da un triennio buono già sulla cresta dell'onda a suon di morti ammazzati, con l'accordo e la regia dei belgi presero ufficialmente il potere nel 1962: Gregoire Kayibanda, seminarista Hutu pupillo di Andrè Perraudìn (ricordate? il padre del genocidio...) fu eletto primo Presidente della Repubblica. La sua nomina era stata imposta dalla Chiesa Cattolica: Kayibanda era infatti uno degli intellettuali Hutu che avevano firmato nel 1957 il Manifesto Bahutu del vescovo svizzero.

L'indipendenza ruandese del 1962 e l'elezione del primo presidente Hutu furono proprio lo spartiacque di tutta la vicenda ruandese: terminavano ufficialmente sia la tutela belga sul territorio Rwanda-Urundi, sia il dominio dell'aristocrazia Tutsi. Cominciavano l'era Hutu e l'inizio della lunga persecuzione, violenta e sistematica, verso gli spilungoni, costretti all’esodo in massa nei paesi limitrofi. Una "rivoluzione sociale" come proclamò il Parmehutu, in realtà invece un semplice trasferimento potere ad una diversa etnia sotto la stessa supervisione, nemmeno troppo nascosta, del Belgio.

E la storia da qui in poi, è sostanzialmente semplicissima. Inutile davvero annoiare con date e numeri, nomi e cognomi, dettagli più o meno interessanti... basterà dire che dagli anni '60 in poi è un susseguirsi di tentativi di colpi di stato delle due distinte etnie, riusciti o meno, non solo in Rwanda ma anche nei paesi confinanti, accompagnati dal solito contorno di violenza, stupri, vendette, migrazioni di massa e cadaveri ovunque. Migliaia di cadaveri, decine ed anche centinaia di migliaia di cadaveri... perché in Rwanda, Burundi, Congo e compagnia bella, per meno di 100.000 morti ammazzati non ci si muove proprio. Omicidi da ambo le parti, sia ben chiaro, perché in questa storia, santi non ne esistono proprio: come diceva la bonanima di nonna Gina, «quà lu più pulit t'è la rogna».

Gli Hutu, memori del passato e con l'appoggio di Chiesa ed (ex) coloni, perseguitavano i Tutsi, mentre questi dal canto loro si organizzavano dai paesi limitrofi dove erano fuggiti per tornare in patria e provare a ripristinare il vecchio dominio, cercando continuamente di penetrare la frontiera e destabilizzare il governo rivale. In Burundi, ad esempio, dove a governare erano gli spilungoni, nel '72 un tentativo di colpo di Stato dei tarchiatelli portò alla reazione violenta del governo degli "altissimi negri", con lo sterminio di ben 200.000 Hutu. No dico, 200 mila! Il doppio di quello che chiamano "piccolo genocidio"! Ed allora io, visto che nessuno ancora lo ha fatto, lo battezzo con il nome di "medio genocidio". Spero che qualche storiografo mi passi il termine.

Insomma, tutti sanno che nel '94 ci furono un milione di morti in soli 100 giorni, ma nessuno è a conoscenza del fatto che negli anni precedenti ci furono stragi da ambo le parti per centinaia di migliaia di persone. “Micro”, “piccoli” e “medi genocidi” spianarono la strada al grande genocidio del '94.

Questi cicli di violenza periodica, di delirium tremens collettivi, avviati con i massacri del 1959, ebbero svariati effetti catastrofici sulla popolazione: polarizzarono le posizioni sempre di più sviluppando ed esasperando la coscienza dell'appartenenza etnica, e soprattutto instillarono il catastrofico desiderio di vendetta nelle nuove generazioni, composte in gran numero da orfani, bambini soldato e profughi sradicati. Morti chiamano morti con un ciclo di vendette trasversali senza fine.

Ovviamente tutti questi massacri sono sempre stati strumentalizzati dai governi di ambo le parti per stringere le maglie della discriminazione e lanciare l'ennesima campagna di odio verso l'etnia rivale. Ad ogni tentativo di colpo di stato da parte dei rifugiati in Uganda, Burundi e Congo che cercavano di riconquistare il potere in Rwanda, corrispondeva maggior persecuzione del governo nei confronti della pacifica e disinteressata popolazione civile Tutsi che nulla c'entrava con tale guerra razziale, ma veniva invece ingiustamente accusata di collaborazionismo con i terroristi. Il governo esagerava all'inverosimile quegli incidenti trasformandoli in gravissima minaccia per la democrazia, giustificando così l'arresto e l'esecuzione dei leader delle fazioni rivali.

Poco per volta così, il cerchio di esclusione e discriminazione si allargava abbracciando tutta la popolazione tutsi: quelle carte d'identità, che prima garantivano loro i privilegi, diventavano lo strumento della loro condanna. I Tutsi divennero i no vax del Covid: niente lavoro, niente accesso a ristoranti e pubblica amministrazione, isolati nelle scuole, trattati come appestati e soprannominati "inyenzi", ovvero blatte, scarafaggi: si dava avvio alla campagna di disumanizzazione del nemico, il primo pericolosissimo passo di ogni potenziale genocidio.

Storia del genocidio (3): la dittatura del clan "Akazu" di Habyarimana

Nel 1973 il generale Hutu Juvénal Habyarimana, amico della famiglia reale belga e fervente cattolico, sempre sponsorizzato da Perraudìn, salì al potere con un colpo di Stato. Dovete sapere infatti che in Africa i colpi di stato si fanno anche... tra stessi membri di partito!

Il neogoverno di Habyarimana si vantò di aver conquistato il palazzo presidenziale senza alcuno spargimento di sangue... Ed è vero! Infatti circa 55 persone vicine all'ex presidente sparirono nel nulla, forse sciolte nell'acido o gettate nelle profondità del lago Kivu, mentre l'ex presidente e sua moglie furono imprigionati e... lasciati morire di fame.

Il neopresidente fondò nel 1975 l'MRND, il Movimento Rivoluzionario Nazionale per lo Sviluppo (sviluppo della panza loro ovviamente, non del popolo). Seguì un periodo di soppressione delle libertà fondamentali, con il ParmeHutu come solito unico partito ammesso nello stato, tutti gli altri fuorilegge. Le tensioni fra le due etnie si acuirono ed il conflitto divenne feroce. Le misure verso gli scarafaggi tutsi, già abbondantemente disumanizzati, diventarono giorno dopo giorno sempre più discriminatorie: venivano emanate le prime leggi razziali, si confiscavano i beni e si prese a deportare, vennero introdotte quote di ammissione nelle scuole e si proibirono per legge i matrimoni misti. Con il solito ovvio contorno di uccisioni impunite di civili mediante raid notturni.

A questo inasprimento ovviamente corrispose un'intensificazione delle azioni di terrorismo dei gruppi paramilitari dei paesi limitrofi, che però, strumentalizzati dal governo sortivano l'effetto contrario di aumentare la persecuzione nei confronti di innocenti cittadini tutsi, accusati ingiustamente di fomentare ed appoggiare il terrorismo. Maggior persecuzione, maggior terrorismo il quale porta a maggior inasprimento delle leggi razziali: insomma, un devastante meccanismo a cascata, un circolo vizioso, un groviglio inestricabile di omicidi e vendette trasversali, a cui tanto per non farsi mancar nulla, si aggiungerà a fine anni '80 anche una fortissima crisi economica.

Il ghigno malefico del presidente ruandese Juvénal Habyarimana, fotografato in una base militare del Maryland (USA) nel 1980

Dopo un decennio di stabilità infatti (nel senso di povertà stabile...), cominciarono ad crescere i problemi economici del Rwanda a causa del crollo del prezzo nei mercati internazionali di caffè, tè e stagno, risorse delle quali il Rwanda gode in abbondanza e che coprivano la quasi totalità delle esportazioni. I poveri diventavano sempre più poveri e numerosi. Ciò inevitabilmente aumentò lo stress sociale e divenne terreno fertile per i movimenti estremisti e l'esplosione della violenza, con la popolazione sempre più debole e manipolabile dai mercanti di guerra e di odio.

Il presidente ruandese Juvénal Habyarimana con il primo ministro tedesco Dries van Agt nel 1980

Se mi seguite nel blog, dovreste oramai aver capito che ogni qual volta accade un disastro in una qualche nazione africana, beh, c'è sempre lo zampino di Banca Mondiale (BM) e Fondo Monetario Internazionale (FMI). Ed il Rwanda non sfugge a tale regola. Il presidente accettò il loro amorevole aiuto, con le solite condizioni fortissime per erogazione del prestito basate sui principi del neoliberismo: in estrema sintesi, taglio della spesa pubblica, privatizzazione dei servizi, liberalizzazione dei mercati al capitale straniero, distribuzione al contrario dei terreni agricoli, dalla proprietà diffusa popolare a pochi latifondisti. Risultato, un paese totalmente destabilizzato a livello economico. I giovani ben presto si ritrovarono senza futuro e senza speranza, facile preda di ideologie estremiste pur di aver qualche soldo, deresponsabilizzati, illusi, disillusi ed ingannati. Sempre più schifati dalla politica, sempre più pronti ad imbracciare un machete o un AK-47.

Il presidente Habyarimana, lontanissimo dal popolo, divenne il classico dinosauro africano intoccabile, con la cricca che gli girava attorno che deteneva potere, soldi e successo. Essi godevano di quelle giuste protezioni e conoscenze internazionali che assicuravano loro una montagna di denaro da risorse illecite quali traffico di droga, armi ed animali selvatici come i gorilla del parco del Virunga. Questo gruppo elitario presidenziale che teneva in scacco il paese, veniva chiamato "Akazu" o anche "il clan della signora", in riferimento alla moglie di Habyarimana, Agathe, figura molto controversa, secondo molti ben più influente dello stesso marito, una sorta di Hillary Clinton in versione ruandese. Gli Akazu divennero presto una vera e propria mafia, suscitando sdegno, rabbia e paura anche negli stessi Hutu, i primi a chiedere più democrazia e maggior condivisione della ricchezza.

Il popolo moriva di fame mentre il "clan della signora" finanziandosi anche tramite i fondi di BM ed FMI sottratti alla popolazione, beveva champagne e caviale in lussuose ville con piscina: ad abbronzarsi in acqua (si fa per dire visto il colore della pelle...) si trovava anche uno degli esponenti di punta degli Akazu, ovvero Thèoneste Bagosora, cugino di Agathe, capo di stato maggiore presso il Ministero della Difesa: è lui la vera mente e l'architetto del genocidio, come lo definì anni dopo nel suo libro "Ho stretto la mano al diavolo", il grande generale canadese Roméo Dallaire, comandante delle forze armate della missione di pace ONU in Rwanda (denominata UNAMIR, dall'inglese United Nations Assistance Mission for Ruanda).

Storia del genocidio (4): la guerra civile con Kagame ed i patti di Arusha

E' in questo "esplosivo" contesto che entra in gioco la figura più importante di tutta la vicenda. Così importante che tutt'oggi è al governo. Nel 1987 i profughi ruandesi scappati dal “piccolo genocidio” in Uganda, fondarono il Fronte Patriottico Ruandese (RPF, Rwandan Patriot Front) con a capo Paul Kagame, con l’obiettivo di rovesciare la dittatura degli Akazu di Habyarimana e rientrare in patria.

Nel 1990 l'RPF approfittando della crisi economica che rendeva debole il governo, e spinti al ritorno anche dalle politiche non inclusive (diremmo oggi...) del presidente ugandese Museveni (tutt'oggi dittatore indiscusso dell'Uganda) che impedì loro in quanto stranieri di posseder terre, iniziò una vasta azione di guerriglia, di sconfinamento e di attacchi indiscriminati nei confronti degli Hutu. Il Fronte Patriottico tentò ripetutamente un colpo di Stato in Rwanda ed alimentò una orribile guerra civile durata quasi 4 anni, col solito contorno di sangue e profughi, isolati omicidi e clamorose mattanze collettive. Crimini di guerra da ambo le parti senza esclusione di colpi, senza farsi mancare stupri, squartamenti ed impalamenti, episodi di cannibalismo e ferocia più estrema, magari anche sacrifici umani stile atzeca, perché la stregoneria ed il vuduismo in quei territori dell'Africa nera erano ben diffusi. Il Rwanda era già da tempo regno assoluto ed indiscusso dei demoni degli inferi. Lucifero no, ancora non era sceso: stava aspettando il 6 aprile 1994, il momento giusto per far l'entrata trionfale.

Gli Akazu in ogni caso non è che vedessero malissimo lo sconfinamento di Kagame in territorio ruandese... avevano bisogno come il pane di un capro espiatorio che coprisse le loro mancanze e dirottasse lontano da loro e contro qualcun altro la rabbia crescente del popolo. E così riguadagnarono popolarità galvanizzando le masse contro l'invasore straniero, descritto come causa di tutti i problemi economici del paese. Al solito presero la palla al balzo per criminalizzare tutti i Tutsi "moderati" del paese, accusando di collaborazionismo anche persone che non c'entravano nulla: erano tutti "ibytso", ovvero complici degli invasori, traditori.

Il Rwanda negli anni della guerra civile tra il '90 ed il '94 era insomma già una polveriera stracarica, pronta ad esplodere da un momento all'altro: l'odio razziale ormai era incontenibile ed aveva raggiunto un punto di non ritorno. Bastava una sola scintilla per il disastro. Bastava una sola goccia per far traboccare un vaso già stracolmo fino all'orlo.

Nell'agosto del 1993 vennero firmati gli accordi di Arusha tra il governo Hutu e il Fronte Patriottico. Truppe ONU con al comando il generale canadese Romeo Dallaire furono inviate per vigilare sulla fragilissima pace: nasceva un governo di transizione a guida mista Hutu-Tutsi in cui si apriva agli spilungoni integrandoli nella vita politica. Il governo suo malgrado, accettava il pluripartitismo anche se comunque l'MRND conservava la maggioranza dei posti ministeriali e il totale controllo di prefetture e comuni. Tuttavia la vicenda costituì in maniera netta la prima sconfitta degli Hutu, che ebbe come conseguenza una maggior radicalizzazione degli estremisti tarchiatelli che vedevano in ciò l'inizio della fine del loro dominio.

Gli accordi di Arusha erano però una farsa assoluta, necessaria soltanto all'opinione pubblica internazionale. Si firmava la pace, ma al tempo stesso, tutti si armavano con gran velocità per prepararsi al peggio. Era già stato tutto deciso: per il via libera si aspettava solamente il casus belli. Che arrivò puntuale il 6 aprile 1994.

Storia del genocidio (5): l'assassinio di Habyarimana, il casus belli

Gli accordi di Arusha, anziché di pace, furono il pretesto per una rapida escalation di violenza e guerra. Solo un paio di mesi dopo, il 21 ottobre 1993 a Bujumbura, capitale del Burundi, venne ammazzato da miliziani tutsi, insieme a gran parte dei più alti membri del suo governo, l'amatissimo presidente Ndadaye, un politico moderato Hutu che lavorava per pacificare il paese. Nonostante avesse la maggioranza schiacciante, egli decise volontariamente di formare un governo misto Hutu-Tutsi, con la prima donna africana come Primo Ministro. Egli dirà: «Non voglio più vedere una sola goccia di sangue innocente scorrere nel mio amato paese. Voglio costruire una società nella quale l’uguaglianza non sia solo un pensiero o uno slogan: una società in cui la libertà e la giustizia siano disponibili per tutti». Insomma, un Sankara in versione burundese. Pacifista, socialista e panafricanista, molto amato dalla sua gente.

E difatti, come Sankara, farà una brutta fine: strangolato e trafitto da decine di colpi di pugnale dopo soli 100 giorni di governo: un messaggio forte anche ad Habyarimana che aveva aperto agli "scarafaggi".

Se Melchior Ndadaye non fosse stato assassinato, oggi probabilmente parleremo del Burundi come uno dei paesi più stabili e democratici dell'Africa, non come dello stato più povero del mondo.

La pressione della comunità internazionale fa comunque fallire il colpo di stato: il Burundi però, colpito al cuore nel suo uomo più amato, esplode letteralmente fornendo anticipazione di quello che sarebbe avvenuto pochi mesi più tardi in Rwanda ed aprendo la via ad una spirale di violenza che purtroppo dura fino ai nostri giorni. Il popolo Hutu burundese, rabbioso per il proprio leader, massacra il 10% circa dei Tutsi del paese in pochi giorni. La Croce Rossa stima che le vittime saranno circa 100.000. Perché, come già detto, quando si fanno massacri in Africa, per meno di 100.000 morti non ci si muove. Tale mattanza scatenò al solito esodi di massa nei paesi limitrofi, con dissenteria e colera che falcidiarono migliaia di persone.

La radio ruandese RTLM (della quale parlerò abbondantemente in seguito) che era ascoltata anche in Burundi, colse la palla al balzo per accusare nuovamente tutti i Tutsi dell'omicidio del presidente del Burundi. Per più di una settimana essa lanciò messaggi di odio, di caccia agli spilungoni ed ai tarchiatelli moderati, allenandosi per bene per quello che farà in Rwanda nei mesi successivi.

L'assassinio del presidente Ndadaye fu sfruttato alla grandissima dai radicali Hutu del Rwanda: era la prova più evidente, da mostrare ai pochi ancora indecisi, di quanto loro sostenevano da tempo, ovvero che i Tutsi erano decisi a dominare la regione con la forza ripristinando il vecchio potere.

A seguito dell'omicidio di Ndadaye si formò in Rwanda l'Hutu Power, la frangia più estrema e violenta degli Hutu: essi rifiutavano ogni accordo e possibile apertura, propagandavano l'ideologia genocidaria in base alla quale l'unica soluzione possibile e definitiva al conflitto era lo sterminio integrale di tutti i Tutsi.

Dopo aver firmato i patti di Arusha che consentivano il ritorno dei rifugiati Tutsi, Habyarimana sulla scia delle vicende burundesi e col culo bello stretto dalla paura, dichiarò gli accordi in questione “carta straccia”. Ma il suo destino era già segnato. Presto andrà a far compagnia sotto terra a Melchior Ndadaye. L’esercito e sua moglie Agathe lo considerano infatti troppo arrendevole con gli spilungoni, troppo moderato e poco genocidario... un leader inutile per l'Hutu Power, che aveva bisogno invece di una persona assetata di sangue come Bagasora.

Così il 6 aprile 1994 qualcuno ha la bella idea di lanciar 2 missili contro il jet privato di Habyarimana che stava atterrando a Kigali da Arusha. Non era solo: insieme a lui c'era il suo collega del Burundi, il neo presidente Cyprien Ntaryamira, ma non la moglie Agathe che guarda caso all'ultimo, furbetta furbetta, scelse di non salire su quell'aereo. I due capi di stato stavano tornando in patria dopo aver preso parte a dei colloqui di pace riguardanti proprio i cronici ed insanabili scontri etnici.

Immaginate in Burundi, secondo presidente Hutu ammazzato in meno di un anno! Impensabile in Occidente, la norma nell'Africa di quegli anni.

Ancora oggi restano ignoti gli autori dell'attentato. Ma è evidentissimo che entrambe le parti in causa avevano grande interesse nel farlo: le frange estremiste Hutu del partito presidenziale perché non accettavano la ratificazione dell'accordo di Arusha che assegnava forti concessioni all'etnia rivale, ed avevano bisogno di un pretesto per incolpare i Tutsi e dar avvio alla mattanza già accuratamente da tempo pianificata; l'RPF di Kagame per indebolire il governo ed avere via libera verso la capitale e riprendere il vecchio potere.

A deporre a sfavore delle frange violente Hutu direi più di ogni altra cosa è la tempistica: i massacri hanno inizio in effetti la sera stessa dell'attentato, meno di un'ora dopo, quando gran parte del paese ancora non ne era a conoscenza. Internet nel '94 ancora non esisteva.

A prescindere dagli autori dell'attentato, in ogni caso l'omicidio è il casus belli che scatena la mattanza. Già durante la notte del 6 aprile, i Killer Hutu cominciarono la pulizia etnica e la macellazione dei mutanti uomini-scarafaggio con il pretesto di una vendetta trasversale. L'apocalisse ha inizio.

Storia del genocidio (6): preparazione della mattanza

Un errore che spesso la gente comune e mal informata commette, è quello di pensare al genocidio come un atto di rabbia incontrollato di pochi assassini esasperati, un'esplosione di violenza tribale, eventi drammatici improvvisati e caotici scaturiti da una perdita di controllo di pochi nel fuoco di un'azione di guerra. No! Non si possono ammazzare così un milione di persone, la maggior parte civili, in soli 3 mesi! Il massacro dei Tutsi era stato ben organizzato dal governo ruandese, un piano pensato, preordinato e pianificato da tempo fin nei minimi dettagli, come pianificato era il successivo ritiro delle truppe occidentali. Tale piano richiedeva un gran numero di complici nei vertici delle istituzioni internazionali, diffusione capillare di armi e killer, coinvolgimento totale, pratico ma soprattutto ideologico della popolazione, dunque propaganda serrata. Addestramento. Pelo sullo stomaco. Rabbia e rancore. Ed ovviamente una mente diabolica a coordinare il tutto: la mente era Bagasora, come confermato più volte dal generale Romeo Dallaire.

L’ala più estremista legata al movimento presidenziale di Habyarimana e sotto la guida di Bagasora, temendo una collaborazione tra i Tutsi presenti dentro il Paese e quelli oltre confine, aveva creato da tempo un’organizzazione parallela allo stato in grado di uccidere su larga scala: erano gli squadroni della morte, organizzati nei due gruppi distinti degli "Interahamwe" (letteralmente "quelli che attaccano insieme") e degli "Impuzamugambi" (letteralmente, "quelli che hanno un unico obiettivo", ovvero lo sterminio dei Tutsi). Quando iniziò il genocidio nel 1994 le due milizie agirono in stretta collaborazione tra loro, differenziandosi unicamente per le loro divise.

Gli effettivi dell'esercito ruandese nonostante gli accordi di pace decuplicarono in poco tempo e le spese militari arrivarono a divorare nel 1993 oltre il 70% del tesoro pubblico. Il Rwanda, grande quanto una regione italiana, era in quegli anni costantemente sul podio tra gli importatori di armi nei paesi africani. Il governo già prima di Arusha aveva riempito interi magazzini della capitale di strumenti di morte pronti per esser rapidamente distribuiti. Un uomo di affari vicinissimo a Habyarimana e membro Akazu, di nome Félicien Kabuga, finanziatore numero uno dei genocidari sostenendo economicamente sia la radio RTLM che le milizie Interahamwe, fece arrivare ben 580.000 machete dalla Cina. Tale strumento di morte diventerà il simbolo indiscusso della Shoah africana. Chissà cosa cazzo pensavano a Pechino... forse che il piccolo paese africano si trovasse di fronte ad un enorme ed improvvisa infestazione di erbacce! Mahh...

Esistono poi molti video e testimonianze di sopravvissuti che sostengono che diversi giorni prima del genocidio, le autorità andavano per le case e con la scusa di un fantomatico censimento, facevano dei segni rossi sulle porte, una sorta di lettera scarlatta ad indicare: «Ok, entrate qui ed ammazzate tutti». La lista di persone da assassinare era già pronta da tempo, precisissima e dettagliata, con nome cognome ed indirizzo, soprattutto a Kigali. Si ebbe cura di preparare un civile killer per ogni quartiere che avrebbe dato coraggio a tutti gli altri: la psicologia delle folle avrebbe poi fatto il resto per trascinare nella mattanza anche persone pacifiche, pur esasperate dalla questione razziale.

Occorre comprendere dunque che la polizia, la classe politica tutta, l’esercito, le milizie paramilitari e diverse persone tra la popolazione civile erano già perfettamente operativi ben prima del 6 aprile 1994 ed aspettavano solo il via libera per procedere.

Storia del genocidio (7): l'adesione di massa al massacro

Altro errore comune che spesso si fa in merito al genocidio ruandese, è credere che siano stati solo i miliziani dell'Interahamwe o dell'Impuzamugambi gli autori delle stragi. In realtà ai massacri parteciparono moltissimi Hutu civili: se 20.000 persone circa tra politici, militari, giornalisti, insegnanti etc... sono considerati i pianificatori della strage, si stima che oltre 250.000 persone siano state implicate negli atti di genocidio. La macchina di morte prevedeva che in ciascuno dei 146 comuni del Ruanda ci fossero dai 200 ai 300 uomini pronti ad uccidere.

Decine di migliaia di giovani prima pacifici, si sono trasformati in assassini. La popolazione Hutu ha partecipato con le milizie a organizzare blocchi stradali nei punti di passaggio, circondavano i Tutsi nei loro quartieri, controllavano fisicamente quelli che conoscevano evitando che fuggissero, organizzavano "battute di caccia" per fare a pezzi gli eventuali fuggiaschi. La maggior parte di loro non aveva armi da fuoco ed utilizzò gli efficacissimi ed economici machete.

La domanda da un milione di dollari è allora: come hanno portato onesti e pacifici cittadini che non erano militari e mai avevano avuto arma in mano, a diventare serial killer? Tanto odio e rancore, evvabbene porca puttanaccia, ma non ci si improvvisa macellai umani da un giorno all'altro! Come hanno indotto conoscenti, vicini di casa ed addirittura parenti a massacrarsi a vicenda? Lo studente ad ammazzare il suo maestro, il dottore il suo paziente? Addirittura il marito la propria moglie?

La verità nuda e cruda è che spiegazioni semplici sull'adesione popolare di massa al genocidio, non ce ne sono. Tante sono le ragioni e le componenti da analizzare: ad esempio la crisi economica che genera fame e rabbia, una società immersa nella violenza da decenni e che ha perso ogni vincolo morale, incancrenito vizi ed esasperato desideri di rivalsa sociale, vendetta e disprezzo, la tendenza all'obbedienza del contadino ruandese all'autorità dello stato... molti furono spinti anche dalla paura e dal ricatto: o ammazzi o ammazziamo te e la tua famiglia in quanto collaboratori. Ammazzato uno "scarafaggio", con la mano tremante ed il cuore a mille, poi tutto era in discesa. Ammazzarne 10, 100 o mille è la stessa cosa: una volta saltato il fosso e diventato assassino, cambia poco a livello emotivo. E poi c'è il conformismo: è sempre facile andar a favore di corrente, difficilissimo invece opporvisi: il Covid lo dimostra, con le masse totalmente lobotomizzate e private del minimo spirito critico. E poi l'opportunismo economico, perché ammazzare una famiglia Tutsi voleva dire anche accaparrarsi le sue proprietà. E poi la psicologia delle folle: una massa di persone, aizzata a dovere ed emotivamente coinvolta, si comporta come un "monoblocco", come un’entità unitaria totalmente irrazionale ed indisciplinata, priva di controllo e potenzialmente dotata di enorme forza distruttiva, con i singoli individui che all'interno di essa tendono a perdere il proprio pensiero autonomo e agiscono con violenza in base ad emozioni estreme e primitive, regredendo ad uno stato selvaggio o infantile, come se fossero ipnotizzati o drogati.

Indubbiamente però il ruolo più importante e decisivo nella genesi di migliaia di serial killer nella popolazione lo ha avuto la propaganda martellante ed asfissiante. Del tipo lo spaccamento di coglioni h24 che abbiamo subito per ben 3 anni sotto Covid.

Storia del genocidio (8): la propaganda (di ieri... e di oggi)

Per poter eliminare i Tutsi, assicurandosi killer ovunque, non solo nelle milizie ma anche nel popolo, e nessun ostacolo ideologico e fisico al piano di sterminio, il governo doveva per forza di cose avere il sostegno incondizionato della popolazione Hutu, oltreché ovviamente disporre di armamenti sufficienti. Il crimine è stato certamente pianificato da uno Stato criminale centralizzato, ma mai avrebbe potuto essere realizzato in un paese dagli insediamenti non concentrati ma puntualmente diffusi sul territorio senza l’adesione massiccia della popolazione bantu. Questa è stata poco a poco convinta da una propaganda sviluppata dall'alto e gestita poi in modo capillare da quelli che tecnicamente si chiamano "super diffusori" ed "opinion makers", ovvero persone appartenenti all'elite culturale, politica ed economica, i quali, avendo ruoli di prestigio nella società, avevano grande credibilità ed ascendente nel popolo: ad esempio insegnanti, medici, avvocati, professionisti, imprenditori di successo etc...

Ai tempi di oggi i "super diffusori" sono soprattutto gli influencer e le persone dall'altissima visibilità nel web del tipo Ferragnez, youtuber e compagnia bella: più stupidi, decerebrati e deculturati sono, e meglio è, perché sono maggiormente seguiti ed apprezzati.

La musica, ieri come oggi, è stata sempre un potente strumento di propaganda, e così i cantanti più famosi come Simone Bikindi, noto come il “Michael Jackson del Rwanda”, venivano arruolati per diffondere nel popolo canzoncine orecchiabili come "Virulently anti Tutsi", la macabra colonna sonora del genocidio, cantata a squarciagola dalle milizie durante i massacri. E poi c'erano i fumetti con caricature e vignette, comprensibili anche a quel 40% di persone che non sapevano leggere.

La propaganda anti-Tutsi esplode violentemente nell'ottobre del 1990: la guerra civile e l'avanzata dell'RPF divengono contemporaneamente la causa e il pretesto della diffusione massiccia di menzogne e fantasmi. I giornali e la radio sviluppano gli stessi temi fino alla nausea con messaggi di odio e di paura, formulazioni sempre più fantasiose e paranoiche che presentano i Tutsi come gli "ebrei d'Africa", come una minaccia per la sopravvivenza del popolo di maggioranza e per l'ordine politico sociale faticosamente raggiunto negli anni.

Il messaggio genocidario veicolato era che esisteva un piano messo a punto da tutti i Tutsi, ed in particolare dal loro braccio armato dell'RPF, per sterminare le popolazioni della maggioranza bantu ed estendere il loro dominio su tutta l'Africa; e così poco alla volta i contadini Hutu si convinsero che il l'RPF che avanzava verso la capitale stesse preparando il loro genocidio. Bisognava dunque "agire" per legittima difesa, anticipando il loro piano. Non c'erano più alternative: "loro o noi", come veniva ripetuto con ossessione. Bisognava uccidere per evitare di essere uccisi.

Le truppe di Kagame avanzano verso Kigali sterminando gli Hutu che incontrano - vignetta presente nel giornale Kangura, N. 46 di luglio 1993

Léon Mugesera, presidente del partito MRND di Habyarimana e membro dell'Akazu, uno dei più efferati criminali del genocidio ruandese, fu uno dei più grandi portavoci di questa criminale menzogna che non perdeva mai occasione di ripetere in pubblico nei suoi comizi. Queste le sue testuali parole: «Il nemico Tutsi ha come obiettivo principale lo sterminio degli Hutu; non bisogna permettergli di invadere e conquistare il Rwanda; non bisogna neppure lasciarli fuggire come è stato fatto nel 1959, ma sterminarli [...] Sappiate che colui al quale non taglierete il collo, è colui che ve lo taglierà».

Questa propaganda martellante sviluppa nella popolazione una autentica paranoia del complotto, polarizza le posizioni, facilita il reclutamento delle milizie e la successiva trasformazione di persone comuni in spietati assassini.

I due mass media più tossici in Rwanda sono stati indubbiamente il giornale filogovernativo Kangura (svegliatevi) di Hassan Ngeze, e la Radio delle Mille Colline (RTLM, acronimo di Radio Télévision Libre des Mille Collines), meglio nota come Radio Machete, entrambi sostenuti economicamente da Francia e vari affaristi locali, in primis da Félicien Kabuga, il cosiddetto “tesoriere del genocidio”, abilissimo raccoglitore di finanziamenti in patria ed all'estero.

Prime pagine delle riviste Kangura N. 18 e N. 32

Machete e mazze chiodate teorizzate come armi di sterminio dalla rivista Kangura

Il colonnello Bizimungu ed il Presidente Habyarimana a tutta pagina in due riviste di Kangura. Bizimungu dice alla vigilia della guerra: "Non è la prima volta che sconfiggiamo gli scarafaggi e non sarà l'ultima. Affronteremo il futuro senza paura, siamo prontissimi"

Il giornale Kangura prima rilanciò il Manifesto Bahutu del 1957, documento considerato l’anima dell’emancipazione tarchiatella, e poi pubblicò nel 1990, nella famosa rivista N. 6 di dicembre, i famosi “Dieci Comandamenti Hutu”, diretta conseguenza del Manifesto precedente di Perraudìn, una blasfemia religiosa che rimandava alle Sacre Scritture e costituirà la base della supremazia razziale dell'Hutu Power. L'ideologia genocidaria dei Tutsi era dunque pronta già dal 1990.

I 10 comandamenti sostenevano la supremazia totale degli Hutu in Rwanda, la loro leadership esclusiva in ambito militare e sulle istituzioni statali come istruzione, politica e sanità, e la contemporanea esclusione degli spilungoni dalla vita pubblica. I Tutsi vengono definiti "nemici" di cui non aver la minima pietà, disonesti e calcolatori, stranieri con l'unico obiettivo di ripristinare il vecchio dominio e ridurre nuovamente in schiavitù la maggioranza Hutu: con loro erano vietate relazioni lavorative, sessuali, sentimentali, economiche, e si accusava di alto tradimento chiunque avesse con loro un legame di qualsiasi tipo, oppure semplicemente si rifiutasse di diffondere questa ideologia.

E' interessante osservare l'ultima pagina della famigerata rivista N. 6 di dicembre: una grande foto di quella merda di Francois Mitterand, l'assassino di Sankara, descritto come vero e sincero amico del Rwanda. un'ulteriore prova che il governo di Habyarimana aveva Parigi come fedelissimo alleato.

L'escalation di violenza in Rwanda è andata di pari passo con l'aggressività del giornale Kangura: già nel novembre del 1991 nella rivista N. 26 veniva sbattuto in prima pagina il machete, teorizzato come strumento principale per compiere mattanze diffuse nel paese; nel luglio del 1993 comparivano per la prima volta vignette che auspicavano un brutale genocidio a base di mazze chiodate e l'onnipresente machete... si guardi ad esempio il disegno a pag. 8 in cui vengono ridicolizzati, in lingua Kinyarwanda, i trattati di pace di Arusha. Da lì in poi è stato un continuo crescendo di propaganda genocidaria.

Kangura non perdeva mai occasione di ridicolizzare la missione UNAMIR ed in particolare il generale Romeo Dallaire, con caricature in cui egli, con gli stemmi RPF ben visibili al petto, si faceva sedurre da diaboliche spilungone sirene: le donne Tutsi venivano descritte come volgari e calcolatrici, con l'unico obiettivo di sedurre i maschioni Hutu e conquistare il paese con i loro ventri gravidi. Il generale Kagame veniva spesso ritratto sorridente vicino alla sua bara; se mancava lui, c'era comunque sempre la cassa da morto con il suo nome ben in vista. Gli uomini Tutsi venivano sbeffeggiati come stupidi saltatori etiopi allevatori di vacche, come scarafaggi o topi affamati di denaro da uccidere a bastonate. E dagli accordi di Arusha in poi, in ogni numero della rivista l'invito al genocidio diventava esplicito e diretto.

Caricatura del generale Romeo Dallaire - Kangura N.53 del dicembre 1993

Caricatura del generale Romeo Dallaire - Kangura N. 56 di febraio 1994

Un uomo Hutu si tappa il naso di fronte ad un'avvenente donna Tutsi - Rivista Kangura N. 35 del 1992

Ratti mangiasoldi con il volto Tutsi - Kangura n. 56 di febraio 1994 (siamo ad un paio di mesi dall'avvio del genocidio)

Vignetta genocidaria nel penultimo numero di Kangura, il N. 56 di febraio 1994

Vignetta genocidaria dell'ultimo numero di Kangura, il N. 58 di marzo 1994

Indubbiamente però, il più potente mezzo di propaganda è stato Radio Machete che ben presto entra in ogni casa, anche nelle aree più remote del paese. Il mercato viene inondato di radioline a basso costo, ed in molti casi addirittura vengono distribuite gratuitamente alla popolazione: gli ascolti rapidamente si impennano grazie allo stile popolare e come diremmo oggi populista, con interviste goliardiche, intermezzi musicali ovviamente monotematici, e gare o quiz con premi (un po' come quando sotto Covid negli hub vaccinali regalavano gelati ai bambini per iniettargli il siero genico killer). Gli ascoltatori potevano intervenire ed interagire perché gli speaker di RTLM scendevano in strada invitando i passanti a commentare gli argomenti del giorno.

Si ripetevano alla nausea i 10 comandamenti Hutu ed il Manifesto di Perraudìn, insieme ai soliti messaggi divisivi e guerrafondai: i Tutsi sono di origine straniera etiope, dunque non hanno il diritto di esser chiamati ruandesi, hanno compiuto e stanno compiendo massacri, hanno sfruttato per decenni gli Hutu nel periodo coloniale, l'RPF con la complicità di tutti gli spilungoni moderati del paese stava preparando lo sterminio della maggioranza della popolazione bantu per restar solo al potere.

La radio denunciava anche i loro complici Hutu, traditori da uccidere anch'essi senza pietà, accusando il governo (ovviamente complice con RTLM) quando era troppo debole e compiacente nei confronti del nemico.

Vignetta di Kangura su Radio RTLM delle Mille Colline

I messaggi di odio pre genocidio, divengono a partire dalla sera del 6 aprile, ordini tassativi di uccisione: il segnale di avvio mattanza parte infatti proprio da RTLM, che in tutta la guerra mantenne praticamente il controllo totale delle operazioni di sterminio: i miliziani avevano l'ordine di rimanere permanentemente sintonizzati con la radio per ricevere ordini di omicidi che dovevano esser eseguiti immediatamente, posizione dettagliata dei fuggiaschi, liste dei condannati a morte, aggiornamenti su esecuzioni, e quant'altro.

Le voci principali di Radio Machete erano gli annunciatori Valérie Bemeriki e Kantano in lingua locale, e Georges Ruggiu in lingua francese, l'Hutu bianco, come veniva da tutti chiamato.

La star senza alcun dubbio era Valérie Bemeriki, una donna soprannominata “la voce della morte” per la sua feroce dedizione alla causa, grandissima fan della Madonna (quante ne hai sopportate cara Vergine Maria!) che non perdeva occasione di associare alla causa dell'Hutu Power, ed anche del machete come strumento di tortura ed uccisione: «Non sprecate costose pallottole, facciamoli a fette!», urlava tra un intermezzo musicale ed un'intervista.

E purtroppo in questa triste vicenda di propaganda assassina, c'è anche una componente italiana, Georges Ruggiu, padre sardo emigrato in Belgio: egli cadde completamente nella trappola ideologica di coloni e missionari europei, e si trasferì in Rwanda per sostenere la causa di emancipazione Hutu. Si distinse in negativo per la veemenza dei suoi interventi, con inviti ripetuti a massacrare gli scarafaggi. Ed a guerra persa, con l'aiuto dei francesi, fuggì prima nello Zaire e poi in Kenya a Mombasa, dove si convertì all'Islam (idee un po' confuse le sue, mi sembra...) e venne arrestato nel luglio del 1997, riconosciuto in un ristorante italiano da un sopravvissuto al genocidio.

E' stato condannato dalla giustizia internazionale a 12 anni. In youtube esiste un video di un'ora che ricostruisce tutta la sentenza, con la sua dichiarazione di pentimento e colpevolezza dinnanzi alla giudice Carla Del Ponte, chissà se sincera o strumentale alla riduzione di pena.

E così, l'unico europeo condannato per crimini di guerra in Rwanda, ha purtroppo sangue italiano; ha finito a scontare la pena nel 2009 ed ora è a piede libero, chissà se in Italia o in Belgio, totalmente scomparso nell'anonimato, nascondendo nei meandri del suo cervello i ricordi e le prove del decisivo ruolo della Francia nella Shoah africana: sa bene che se parla è un uomo morto.

Ecco alcuni dei messaggi tipici di Bemeriki, Kantano e Ruggiu durante il genocidio:

«I seguenti traditori Hutu sono da uccidere: il signor Tizio, la signora Maria. Vivono nel settore nord di Butete. Anche il Consigliere del quartiere di Butete é un complice dei Tutsi. Cercatelo e uccidetelo. Non perdete tempo a cercare Caio. E’ stato già ucciso mentre cercava di fuggire.»

«Dovete portare machete, lance, frecce, zappe, badili, bastoni chiodati, ferro elettrico, fil di ferro, pietre e, con ordine, calma e amore, cari ascoltatori, dovete uccidere tutti i Tutsi ruandesi. Quelli tra voi che vivono lungo le strade di periferia, devono vigilare perché ci sono degli spilungoni, quelli che vi volevano dominare, che stanno cercando di scappare per rifugiarsi nella foresta. Intercettateli e uccideteli.»

«Il traditore Sempronio si è rifiutato di uccidere dei Tutsi nel mercato centrale ed è fuggito. Cercatelo e abbattetelo. Ma prima di tutto andate ad uccidere sua moglie e i suoi bambini. Abitano a Butete vicino all'alimentari. Non potete sbagliare!»

«Tagliate i piedi ai bambini tutsi così cammineranno sulle ginocchia per tutta la vita, uccidete le ragazze tutsi così non ci saranno future generazioni di inyenzi. Riempite le tombe... la fossa non è ancora piena!»

Il vocabolario usato per spingere all'assassinio faceva spesso riferimento agli animali più spregevoli ed alla vita quotidiana del contadino: inyenzi (ovvero scarafaggi), sporcizia, dissodamento, decespugliamento, estirpazione delle erbacce... perché una caratteristica comune a tutti i genocidi nella storia, come ben ricordato nel museo di Kigali, è la progressiva discriminazione e disumanizzazione della minoranza, accusata di ogni sorta di nefandezza.

La propaganda ha un potere immenso nelle masse, perché tranne casi rari e particolari, normalmente le persone non hanno il coraggio e la preparazione intellettuale per andar controcorrente. Non hanno pensiero critico ed autonomia decisionale, entrambi è bene specificarlo, totalmente svincolati ed indipendenti dal loro livello culturale. Citando Gramsci, il pensiero dominante è quasi sempre il pensiero della classe dominante (nonché l'unico ammesso ed ammissibile) perché soltanto quest'ultima ha a disposizione tutti i mass media, la stampa, le università, i super diffusori e gli opinion makers per formarlo ed imporlo al popolo inconsapevole.

Il Covid (sì, sempre lui...), più di ogni altra vicenda insegna l'enorme potenza della propaganda. Se nel Rwanda degli anni '90 i contadini Hutu furono convinti da radio e giornali che si stava preparando un genocidio nei loro confronti, così allo stesso modo nel 2020 sotto pandemenza, la maggior parte delle persone, sottoposta a bombardamento televisivo h24 con terrificante bollettino giornaliero di morti esagerati, inventati di sana pianta ed il più delle volte ammazzati negli ospedali (da criminali protocolli, dalla negazione di cure valide e successivamente da pseudo vaccini), aveva interiorizzato l'idea che i no vax fossero responsabili dei lockdown, delle polmoniti interstiziali, della fila dei camion dell'esercito a Bergamo, dei sacchi neri in attesa della cremazione, della diffusione incontrollabile della peste bubbonica.

Menzogne ripetute 10, 100, mille volte sono diventate magicamente verità (per dirla alla Joseph Goebbels, il ministro della propaganda nazista) ed hanno convinto il mondo che sieri genici tossici ad mRna avrebbero risolto il problema, che i no vax erano il vero pericolo per le loro feikkkk newssss, che plasma iperimmune, idrossiclorichina ed ivermectina non funzionavano, che bisognava chiuder tutto, che era cosa buona e giusta licenziare persone che si opponevano al buco, che occorreva far sesso con la mascherina o a pecorina (ci fa pure rima)...

Hanno messo mamme contro figli, mogli contro mariti, fratelli contro sorelle in nome della fedeltà ideologica ad un siero genico di origine satanica. Il meccanismo di odio che si è generato nella popolazione, con i dovuti paragoni, è stato esattamente lo stesso di quello ruandese.

Se la propaganda avesse insistito di più nel 2021-2022 con una forte campagna d'odio, i pro vax avrebbero preso i machete in mano contro gli untori no vax. Non ci credete? Ho decine e decine di screenshot in cui medici, infermieri, civili pacifici e ristoratori invocavano camere a gas per i no vax, invocavano le gabbie e l'alimentazione a base di topi e topicidi, chiedevano la mancata cura in ospedale dei "complottisti", invitavano a "stanare i sorci" (vero Burioni?) ed i camerieri nei ristoranti a sputare nei piatti degli ignoranti no vax.

Ma lasciando perdere i venduti buffoni della star virologia da salotto, e la massa di politicanti e pennivendoli sparacazzate che si prostituisce per 1000 euro al mese, ricordate le frasi di pura menzogna ed odio delle istituzioni più alte dello stato? «Non si invochi la libertà per sottrarsi alla vaccinazione...», per citare il presidente (non il mio, spiacente) Mattarella, alias il Mugesera italiano, oppure «L'appello a non vaccinarsi è un appello a morire... non ti vaccini, ti ammali, muori o fai morire... non ti vaccini, ti ammali, contagi, lui lei muore», per citare Draghi, alias il Bagasora italiano con le corna ed il forcone, oppure ancora «vaccinarsi è un atto d'amore ed un obbligo morale...», la minchiata colossale conclusiva di Bergoglio detto “El pampero”, alias il Félicien Kabuga argentino usurpatore del trono di Pietro, che ha spostato l'ago della bilancia in miliardi di persone indecise nel mondo consegnandole tra le braccia sataniche di Albert Bourla.

Frasi strategiche che hanno spinto la popolazione al buco deltoideo ed ai suoi inevitabili effetti avversi, hanno diviso le famiglie e la comunità intera generando nelle persone profonda rabbia e rancore per l'ingiustizia subita, sentimenti tutt'oggi, a distanza di anni, ancora presenti e mai scomparsi (e per quanto mi riguarda, l'avrete ben capito, non lo saranno mai). Frasi criminali ed assassine, né più ne meno di quelle degli speaker di Radio Machete, anzi molto peggio, visto che la stima nel mondo dei morti ammazzati dal siero genico supera oramai di decine di volte il numero delle vittime del genocidio ruandese.

E' in atto oggi un genocidio ben più grave di quello africano di 30 anni fa, perché più subdolo, nascosto, mondialmente diffuso e diluito nel tempo: i moderni sicari sotto busta paga di Big Pharma sono oggi insospettabili, hanno il camice bianco e lo stetoscopio rassicurante al petto e non si sporcano più le mani col machete; gli “eroi” televisivi della pandemenza hanno avvelenato il mondo intero con una semplice siringa ad effetto il più delle volte ritardato, addormentando per sempre le vittime addirittura col il loro consenso (dis)informato.

Non solo: le vittime si sono pure messe in fila per esser avvelenate, e spesso hanno pure schifato, insultato e discriminato in ogni modo chi provava a salvarle da quell'intruglio genico demoniaco.

Io ricordo benissimo gli sguardi e le parole della gente. Non solo odio e schifo nei nostri confronti, ma anche pietà e compassione. Noi eravamo poveri ignoranti, vittime di teorie del complotto... loro invece i colti, i superiori, gli studiosi, gli informati... Ricordo persone che sputavano dall'alto dei palazzi quando passavamo per le manifestazioni, e frasi orribili nelle chat di scuola, dove venivano mandati auguri di morte a noi ed ai miei bambini.

Davvero credete che questa gente non avrebbe preso il machete in mano? Illusi! Stolti! La storia è piena di onesti cittadini trasformati in serial killer dalla propaganda. Se siete tra questi ed avete avuto il coraggio di arrivar fin qui, beh fatevi un bell'esame di coscienza, magari davanti ad un sacerdote no vax se credete in Dio (consiglio in zona San Beach il grande, in tutti i sensi, Don Stefano Iacono di Villa Lempa). Perché con quel siero in corpo, il malore improvviso è sempre in agguato. E se malauguratamente questo accade, non avrete più tempo per pentirvi: andrete per l'eternità giù giù giù, dove fa tanto caldo e puzza di zolfo... e dove per la vostra grande gioia, vaccinano pure ogni giorno con nuovi intrugli a base di grafene, mRna e nanoparticelle lipidiche, giusto per dare un po' di sollievo alle terribili crisi di astinenza da siero genico dei neoarrivati.

Storia del genocidio (9): i 100 giorni della mattanza

Ok, basta divagare e torniamo alla storia del genocidio. Soltanto un'ora dopo la morte del presidente, con una rapidità davvero sospetta, scoppia l'inferno. Bagosora prende di fatto il controllo del Paese mettendosi a capo di un "comitato di crisi” senza la benché minima legittimità istituzionale. Egli approfitta della confusione e dello smarrimento generale per dare il via alla "soluzione finale" della minoranza Tutsi, accusata di aver abbattuto l'aereo presidenziale con la complicità dei soldati belgi dell'ONU.

Il generale Romeo Dallaire capisce immediatamente che la situazione sta precipitando, intuisce le terribili intenzioni dell'architetto del genocidio, e fa metter immediatamente sotto scorta il primo ministro.

Le forze Hutu più estremiste, ovvero l'esercito governativo delle FAR (Forze Armate Ruandesi) ed i due gruppi paramilitari Interahamwe e Impuzamugambi, prendono però il sopravvento ed ammazzano immediatamente tutti i leader amministrativi ed i più importanti membri e funzionari moderati dello stato, tra cui il presidente della corte costituzionale Joseph Kavaruganda ed il primo ministro Agathe Uwilingiyimana insieme ai 10 peacekeepers belgi che erano a sua protezione, evento quest'ultimo che spinge l'ONU a ritirare le truppe di pace ed abbandonare il paese al suo triste destino.

L'eroica resistenza dei 10 soldati belgi meriterebbe davvero una storia a parte... essi combatterono strenuamente per ore, quasi totalmente disarmati, asserragliati in un edificio circondati da un centinaio di soldati ruandesi indemoniati, attendendo rinforzi che però mai arrivarono. Quel luogo è stato lasciato intatto: dentro l'edificio della battaglia, crivellato di proiettili, si trovano le foto delle vittime e vicino sono stati deposti dei fiori e delle targhe ricordo.

Nella lavagna nera a tutta parete, si possono ancora vedere, protette da schermo di plexiglass, le scritte ed i disegni che fecero probabilmente i miliziani dopo la strage: si distinguono chiaramente 10 corpi stilizzati orizzontali, la scritta “Dallaire” vicino ad un teschio che non sorride, e la scritta “col. Bagasora” vicino ad altro teschio con ghigno diabolico.

All'esterno del sito è stato realizzato un monumento: 10 totem identici ad altezza uomo di pietra belga non levigata, spezzati in diagonale in alto a simboleggiare la brutale fine della vita dei caschi blu, e posti in cerchio per rappresentare la loro grande coesione negli ultimi istanti del combattimento. Ciascun totem ha inciso alla base il nome della vittima, mentre la sua età al momento dell'assassinio è simboleggiata da una serie di tagli orizzontali sulla pietra.

Il segnale, anzi l'ordine dell'inizio del massacro fu dato la notte del 6 aprile dallo speaker di Radio Machete. Tutta la popolazione Hutu era invitata a pulire la sporcizia, seviziare a piacimento ed a uccidere non solo tutti gli "scarafaggi" Tutsi del paese, ma anche gli Hutu moderati che si opponevano all'ideologia genocidaria, ovvero quella parte di popolazione imparentata con gli spilungoni o schierata su posizioni meno radicali: il 20% circa degli assassinati furono Hutu, in rapporto dunque 1 a 4 con i Tutsi. Il Presidente ad interim Theodore Sindikubwabo dirà: «Chi non vuole assumersi responsabilità, chi vuole vedere altri "fare il lavoro", si faccia da parte».

Gli assassini, ovvero soldati delle FAR, miliziani e moltissimi Hutu civili vedono nel genocidio non solo l'unica soluzione ai problemi storici del paese, ma anche l'unica possibilità di vincere la guerra, dunque si impegnano in una gara di velocità con l'RPF in avanzamento verso la capitale. Sarà una mattanza rapidissima: in base ai dati ufficiali, tra il 6 aprile del 1994 e la metà di luglio dello stesso anno, in soli 100 giorni, mentre il mondo intero era preso dai mondiali di calcio di USA '94, su una popolazione a quel tempo di poco superiore ai 7 milioni (con rapporto percentuale ben noto, 84% Hutu, il 15% Tutsi e l’1% Twa), vengono trucidate un numero di persone compreso tra 800.000 (stima per difetto) e 1.200.000 (stima per eccesso).

Una cifra precisa non sarà mai possibile stabilirla, pertanto è usuale prendere come dato il valore medio tondo tondo di un milione di morti ammazzati, tristemente ripartiti all'incirca in 800.000 Tutsi e 200.000 Hutu moderati, con 300.000 Tutsi che invece sopravvissero alla mattanza. Numeri davvero spaventosi: 10.000 morti al giorno, 7 al minuto, un olocausto africano paragonabile ai Killing Fields di Pol Pot in Cambogia o alla Shoah nazista. Ed attenzione perché questo numero comprende soltanto le persone trucidate in base all'ideologia dell'Hutu Power, non tutti i morti secondari successivi dovuti a stenti, malattie e migrazioni di massa.

Il massacro non avvenne soltanto per mezzo di bombe ed armi da fuoco, ma anche mediante bastoni chiodati, mazze, asce, zappe... No, devo deludervi ma i vaccini a base di mRna e grafene no, ancora non esistevano e non furono utilizzati, anche perché Pfizer comincerà ad ammazzare volontariamente in Africa soltanto un paio di anni più tardi, nel 1996 a Kano in Nigeria. Invece il più rudimentale ma altrettanto efficace machete sì, ben diffuso in tutto il paese in quanto principale strumento di lavoro dei contadini. Ai più fortunati veniva data la possibilità di pagare per esser freddati con un colpo di rivoltella in testa anziché subire lo strazio delle lame affilate.

Per impedire ai Tutsi di fuggire le forze governative istituirono posti di blocco in tutto il paese, anche nelle strade rurali sterrate più periferiche, soprattutto alla frontiera per evitare l'espatrio. Le carte d'identità furono il principale strumento di controllo: ogni Tutsi che provava a passare veniva ucciso. In assenza di documenti di identificazione, si guardavano i lineamenti del viso, il colore della pelle, l'altezza, i tratti somatici. Avevi delle labbra sottili? Fatti il segno della croce perché sei già morto. Non le hai ma sei alto 1,80? Idem con patate. Sei basso e brutto ma ti rifiuti di ammazzare gli scarafaggi? Sei scarafaggio anche tu, dunque kaputt... Mi hai guardato storto o mi stai sul cazzo? Inizia a scavarti la fossa. Insomma, in quei momenti, nei posti di blocco ma non solo, si moriva abbastanza spesso.

Foto di corpo in decomposizione presente all'interno del Genocide Memorial di Kigali

Foto dei massacri presente all'interno del Genocide Memorial di Kigali

L'addestramento di base prevedeva di tagliare immediatamente i tendini Achille degli "scarafaggi" per evitarne la fuga. Per tre mesi e mezzo interminabili, si susseguono massacri feroci, stupri e barbarie di ogni tipo; le esecuzioni furono sommarie, spietate, spesso sadiche, con gli inyenzi prima mutilati e poi gettati da dirupi o in pozzi profondi. Oppure soffocati sotto cumuli di corpi senza vita o peggio, ancora agonizzanti.

Agli Hutu non bastava uccidere ma volevano veder soffrire. I bambini erano forzati a partecipare all'uccisione dei loro cari con false promesse di sopravvivenza, per poi esser uccisi a loro volta. Peggio ancora, i genitori assistevano prima di esser mutilati e squartati alla tortura ed alla decapitazione dei loro figli. Tutto vero: ci sono centinaia e centinaia di testimonianze dei sopravvissuti, e la concordanza tra i racconti delle vittime, i ritrovamenti dei corpi e le tante confessioni di miliziani pentiti, è totale.

Cadaveri dappertutto: foto presente all'interno del Museo "Campaign against genocide" di Kigali

Corpi gettati nei fiumi e nei laghi: foto presente all'interno del Museo "Campaign against genocide" di Kigali

Molti cercarono rifugio in chiese e missioni religiose, oppure nelle postazioni controllate dai caschi blu prima della loro partenza definitiva, come ad esempio nello stadio Amahoro, ancora esistente, al quale è stata rifatta recentemente la copertura esterna; oggi sembra una struttura moderna ed europea, nuova e luccicante, ma 30 anni fa lì dentro era un inferno, un enorme campo profughi con i miliziani Hutu che cercavano costantemente di sottrarlo al controllo UNAMIR per ucciderne gli occupanti.

Molte mattanze furono estremamente concentrate nello spazio e nel tempo, come ad esempio quella dell'istituto tecnico di Murambi nella provincia di Gikongoro, dove oltre 45.000 Tutsi vennero uccisi in meno di una settimana. Furono attirati in una trappola dal sindaco del paese con la complicità, udite udite, del vescovo locale che convinse i Tutsi radunati nella chiesa ad andare all'interno della scuola, dove sarebbero stati protetti dalle truppe francesi... Alleluia! Le truppe francesi! Stolti! Mai fidarsi degli imperialisti! E difatti i transalpini imperialisti si dileguarono spianando la strada all'attacco delle milizie. Le vittime furono intrappolate nelle aule, senza rifornimenti, né acqua né cibo per giorni, in modo da fiaccarne la possibile resistenza: di 45.000 persone se ne salvarono solo una trentina.

L'orrore davvero non aveva limiti: l'italo belga Ruggiu, uno degli speaker di radio RTLM fomentatore dei massacri, un giorno testimonierà ai giudici di aver assistito ad una mutilazione di massa: era stato condotto in un edificio dove c'erano uomini, donne e bambini tutti ammassati a cui erano state mozzate le gambe, le braccia, le mani ed i piedi, lasciati volutamente agonizzanti vicino alle loro parti del corpo tagliate nella sofferenza atroce, tanto fisica quanto emotiva. Madri mutilate accanto a figli mutilati, agonizzanti e con pezzi del proprio corpo vicini ben in vista. Non so se ci si rende conto della immensità diabolica di tale orrore... Ruggiu dirà nel processo che si fece avanti chiedendo ai carnefici di ammazzarli tutti senza farli più soffrire; per tutta risposta si è trovato una pistola puntata alla tempia da un miliziano che gli ha ordinato: «Stai zitto o ammazzo anche te!».

Le peggiori crudeltà venivano riservate ai traditori Hutu, a chi proteggeva gli scarafaggi. Non necessariamente ammazzandoli: esistono diversi modi per ammazzare una persona. Una pratica frequente ad esempio era la seguente: quando i miliziani scoprivano un Hutu che nascondeva famiglie Tutsi, gli ordinavano di sterminare tutte le persone nascoste, ed in caso di rifiuto ammazzavano davanti ai suoi occhi uno per uno tutti i membri della sua famiglia. Tipicamente, alla prima esitazione ed al primo familiare passato per le armi, l'uomo con il cuore in gola e la morte nel cuore prendeva coraggio e diventava uno spietato killer. Manco a dirlo, i miliziani non mantenevano mai la promessa e davanti ai suoi occhi ammazzavano uno per uno tutti i suoi figli ed infine sua moglie, ovviamente dopo averla violentata. Lui invece lo lasciavano in vita. Tanto era già morto dentro: aveva visto la sua famiglia sterminata, e lui stesso era stato trasformato in assassino.

Scoperta di fosse comuni con centinaia di teschi: foto presente all'interno del Museo "Campaign against genocide" di Kigali

Foto dei massacri presente all'interno del Genocide Memorial di Kigali

L'obiettivo dei miliziani non era soltanto uccidere ma possibilmente anche umiliare e far soffrire, ad esempio con ripetuti stupri, episodi di cannibalismo, rituali e sacrifici di tipo satanico. Io credo che l'uomo per quanto bestiale e cattivo possa essere, non può esser in grado di commettere tali atrocità. Deve per forza di cose intervenire il maligno che si impossessa di anime e corpi... come disse un missionario del tempo, l'inferno nel 1994 era vuoto perché tutti i demoni erano in Rwanda. Lucifero compreso, con la sua bella entrata trionfale nella notte del 6 aprile.

Storia del genocidio (10): foto e video del massacro

Come descrivere a parole l'orrore... io personalmente non ce la faccio. Raccontare il male non è affatto semplice. Scrivo, scrivo, mi commuovo e spero di far commuovere, ma le parole sono fredde. Il lettore non vede e non può vedere né immaginare i volti degli assassini indemoniati ed insanguinati che magari sono ore ed ore che ammazzano e squartano col machete come macellai, gli occhi di terrore delle vittime, i neonati fatti a brandelli col cranio fracassato perché sbattuti contro il muro oppure testa contro testa (un colpo solo, due morti...), le donne prima violentate in gruppo e poi impalate, gli spasmi dei moribondi, i corpi smembrati, i tendini recisi, i corpi in decomposizione nel fango, le braccia senza mani ed i piedi senza gambe, le teste senza corpi. Il fetore nauseabondo che rende l'aria irrespirabile. Perdonatemi, ma io più di questo non posso fare. Devono per forza aiutarmi immagini, possibilmente video...

Dei giorni della mattanza purtroppo però non si hanno foto: tutti i giornalisti stranieri, dopo l'assassinio dei 10 pacekeepers belgi, lasciarono immediatamente il paese, gli smartphone non esistevano (ed ancora oggi in Africa sono poco utilizzati) ed alla stampa straniera fu impedito ogni accesso: un po' quello che è successo nella Cambogia di Pol Pot tra gli anni 1975 e 1979. Le foto protette dai diritti di Copyright dei giornalisti che entrarono dopo la fine della guerra sono comunque pazzesche... di seguito alcune di esse.

Conosco per caso un fotoreporter, Livio Senigalliesi, entrato nel paese delle mille colline pochi anni dopo la fine del genocidio. Livio è uno di quelli che cammina in direzione ostinatamente contraria, che non ha padroni e si prende tutto il tempo che serve per raccontare storie che necessitano di sensibilità e rispetto umano. Passerò con lui al telefono molto tempo sulle vicende ruandesi, del quale è indubbiamente grande esperto, ma non solo.

Vita pazzesca la sua! Sempre in viaggio, rigorosamente in zone pericolose di guerra e fronti caldissimi, a documentare sul campo insieme a pochi altri intrepidi giornalisti, vicende come la caduta del muro di Berlino nell'89 e dell'Unione Sovietica, le due guerre del Golfo, il conflitto nell’ex-Jugoslavia e quello israelo-palestinese... tanto Medio-Oriente, Sud-Est Asiatico e zone dimenticate da Dio dell'Africa più selvaggia.

Ho apprezzato tantissimo il suo modo di lavorare, scrivere e raccontare: Livio unisce il reportage al racconto antropologico, simile a quello di giganti del giornalismo quali Gianni Minà, Silvestro Montanaro e Giulietto Chiesa, sempre in punta di piedi, sempre con il rispetto più totale ed incondizionato delle persone fotografate.

Kicukiro/Kigali/Ruanda anno 2000: Thomas, rimasto orfano, vive tra le croci del cimitero in cui sono tumulati i suoi famigliari. Foto di Livio Senigalliesi

Livio mi concederà di pubblicare due sue fotografie scattate nel 2000, 6 anni dopo la fine della mattanza: quella di Thomas, bambino orfano che vive in zona Kigali nel cimitero dove sono seppelliti i resti dei suoi familiari assassinati, e quella di una donna, nome di fantasia Alice, con a fianco il lugubre emblema affilato della carneficina ruandese.

Proprio quest'ultima foto è stata oggetto di una piccola (e credo costruttiva) differenza di vedute tra me e l'autore dello scatto. Livio preferiva non fosse pubblicata nel mio blog, in quanto secondo lui si poteva prestare ad un possibile malinteso e strumentalizzazione: la donna era infatti una vittima, non una carnefice, e quel machete era solo lo strumento del suo onesto lavoro nei campi, trasformato in quei terribili giorni in arma micidiale da un popolo avvelenato dall'odio etnico. Un pensiero evidentemente davvero scrupoloso e coscienzioso quello di Livio, che fa capire tutta la sua grande sensibilità di artista e giornalista. A lui ho dato ampie rassicurazioni sul fatto che avrei brevemente raccontato la triste storia della donna fotografata.

Alice nel corso del genocidio è stata ripetutamente stuprata in gruppo e battuta, più e più volte. Guardate attentamente il suo volto: un sorriso appena accennato, amaro, rassegnato, in cui si può intravedere l'abisso della sua anima e tutta la sua profonda sofferenza interiore. Chissà quanto orrore e sangue innocente avranno visto i suoi occhi scuri! Chissà quanti familiari e figli ha visto morire! Due anni dopo quello scatto, la donna è morta di AIDS. Riposa in pace Alice. Che Gesù ti possa accogliere in cielo, ripagando la tua vita di dolore e sofferenza con la felicità e la pace eterna. E spedisca all'inferno tutti i tuoi carnefici.

Gyseni/Rwanda anno 2003, progetto Caritas: Alice (nome di fantasia), sopravvissuta al genocidio, violentata ripetutamente e morta di AIDS 2 anni dopo lo scatto. Foto di Livio Senigalliesi

Se è vero che praticamente tutta la stampa occidentale abbandonò il paese dopo l'attentato ad Habyarimana, è anche vero che un'eccezione fortunatamente c'è stata; e così qualcosa abbiamo di quei terribili giorni. Anzi, ben più di qualcosa! Qualcuno, davvero coraggiosissimo, è rimasto nell'inferno ruandese a documentare l'apocalisse, proprio mentre questo era in corso: si tratta di una giornalista belga di nome Els de Temmerman e del suo staff, che in quei mesi drammatici riuscirono incredibilmente a viaggiare per il Rwanda (e sopravvivere), gli unici a farlo, filmando, intervistando e realizzando un reportage semplicemente pazzesco.

Nel video, purtroppo in bassa risoluzione dato i limitati strumenti del tempo, si possono vedere l'atterraggio quasi miracoloso all'aeroporto di Kigali datato 10 aprile 1994, i posti di blocco con militanti Hutu che agitano il machete, l'evacuazione di tutti i bianchi con i camion che passano attraverso un numero imprecisato di cadaveri, le truppe ONU ed il generale Dallaire, le persone massacrate ancora in vita ed agonizzanti (minuto 7.04), i corpi nei fiumi... ed addirittura degli omicidi ripresi da lontano: due donne già immobilizzate e terrorizzate dalla paura, vengono uccise a colpi di machete (minuto 10.30). Per stomaci forti. Davvero spaventoso. Giornalismo puro, con la G maiuscola, altro che le cazzate dei pennivendoli nostrani di Repubblica, Corriere del Siero, Presa diretta, Report & co. Se si ha il coraggio, da vedere, dall'inizio alla fine.

Storia del genocidio (11): i principali bersagli sono donne e bambini

La "soluzione finale" dell'Hutu Power prevedeva lo sterminio di tutti i Tutsi senza distinzioni di sesso ed età, ma due erano le categorie di persone particolarmente prese di mira: per assicurarsi che non ci fossero in futuro nuove generazioni di spilungoni e chiudere per sempre la questione razziale, le milizie cercavano con ossessione ed uccidevano principalmente donne in età fertile e bambini. Anche perché un domani questi ultimi se sopravvissuti, sarebbero stati assetati di vendetta nei loro confronti per aver ammazzato i loro genitori. L'UNICEF stima che dei pochi bambini ruandesi sopravvissuti, ben l'80% hanno visto con i loro occhi morti ammazzati in famiglia. Un enorme problema anche psichiatrico perché ovviamente, molti di loro soffrono ancora di sindrome di stress post traumatico.

Racconti di sopravvissuti e foto di bambini trucidati presenti al Genocide Memorial di Kigali

Al memorial di Kigali ci sono diverse sale dedicate alle foto di alcuni bambini trucidati. Fidele Ingabire a quel tempo aveva 9 anni ed amava giocare a calcio. Gli hanno sparato in testa a bruciapelo davanti la madre ancora in vita. La bimba alla sua destra con la candela e la torta si chiama Ruterana Kanyange, ha 8 anni e sta festeggiando il suo compleanno: a lei andrà peggio di Fidele perché sarà uccisa a colpi di machete.

Bambini assassinati: Fidele Ingabire ( a sinistra) e Ruterana Kanyange (a destra) - foto presente al Genocide Memorial di Kigali

Stessa sorte per Patrick Gashughi Shimirwa che amava giocare col fratellino e girare in bicicletta attorno alla sua casa, dilaniato dalle lame affilate di ferro grezzo made in China. Irene Umutoni Uwamwenz invece è stata uccisa da una granata tirata dentro la sua abitazione per sterminare in un colpo solo tutta la sua famiglia.

Bambini assassinati: Patrick Gashughi Shimirwa ( a sinistra) e Irene Umutoni Uwamwenz (a destra) - foto presente al Genocide Memorial di Kigali

Assassinati senza alcuna pietà anche bambini piccolissimi. Thierry Ishimwe aveva soltanto 9 mesi quando è stato squartato insieme a sua madre che cercava di proteggerlo. Uwase Fillette invece 2 anni, ha avuto il cranio fracassato, sbattuta contro il muro per i piedi come facevano i soldati di Pol Pot in Cambogia per risparmiare munizioni.

Bambini assassinati: Thierry Ishimwe ( a sinistra) e Uwase Fillette (a destra) - foto presente al Genocide Memorial di Kigali

Le donne e le bambine poi ricevevano un "trattamento di riguardo", ben immaginabile. Le più giovani e belle erano condannate allo stupro, molte volte di gruppo, per giorni e giorni. Le bestie di Satana le lasciavano temporaneamente in vita per stuprarle dopo le fatiche assassine del giorno ed utilizzarle come schiave del sesso. Molte delle vittime si suicidavano, tanta era la vergogna e l'umiliazione dello stupro; le pochissime sopravvissute erano spesso per sempre ripudiate dai mariti.

Un rapporto delle Nazioni Unite stima in 250 mila il numero di donne ruandesi stuprate. No dico, 250 mila. Non solo: la piaga dell'HIV dilagava negli anni '90 in quei paesi africani. Molte donne violentate da uomini HIV positivi e lasciate in vita, venivano condannate, insieme ai figli nati dalla violenza, ad una lenta agonia per l'immunodeficienza sviluppata. Come Alice di Livio Senigalliesi. Si stima che addirittura quasi i tre quarti delle donne stuprate e sopravvissute siano e stiano morendo di AIDS. Tutte le altre sono in ogni caso mutilate, esternamente ed interiormente, segnate psichiatricamente per sempre.

Storia del genocidio (12): le chiese, il luogo perfetto per i massacri

Negli anni '90 il Rwanda era uno dei Paesi più cristianizzati d’Africa con il 65% di cattolici e il 15% di protestanti. Quando cominciò il massacro, i religiosi bianchi ed europei (con pochissime eccezioni tra cui Padre Mario Falconi che presenterò a breve) furono evacuati dalle forze UNAMIR, forzatamente o meno. Le persone presero a rifugiarsi nelle chiese e nelle missioni pensando che fossero luoghi sacri ed inviolabili e che le milizie, comunque credenti (va beh, si fa per dire...) e rispettosi dell'autorità dei pochi sacerdoti rimasti, lì dentro davanti al Santissimo esposto, non avrebbero ammazzato. Nei massacri degli anni precedenti, questo era effettivamente avvenuto, con gli assassini che davanti al crocifisso fecero un passo indietro. Stavolta però non fu così: Satana era già sceso in Rwanda in soccorso ai suoi demoni ed ordinò a tutti di fare un passo avanti. E così le chiese diventarono mattatoi, luoghi perfetti per lo sterminio in quanto i membri dell'Interahamwe potevano uccidere un gran numero di persone nel minor tempo possibile.

Foto d'epoca presente al Memorial di Nyamata: persone di etnia Tutsi trovano rifugio nel 1992 nella chiesa cattolica di Nyamata

Nei due paesi di Nyamata e Ntarama, si trovano, molto simili tra loro, due dei memorial più importanti di tutto il Rwanda: le loro chiese sono state il luogo di due dei peggiori eccidi della guerra. A Nyamata 10.000 persone circa si rifugiarono all'interno del luogo sacro pensando di essere al sicuro, ma il 10 aprile le milizie spaccarono le vetrate, lanciarono una pioggia di granate sugli sventurati ed aprirono il fuoco incrociato, entrando successivamente per finire le persone ancora in vita.

Gli orribili racconti dei pochissimi sopravvissuti ai massacri di Nyamata

Nelle pareti e nelle lamiere del soffitto si possono vedere centinaia di fori di proiettile e macchie di sangue ovunque; all'interno della chiesa, nei banchi di legno sono ammassati gli indumenti dei morti imbrattati di sangue e sono state temporaneamente parcheggiate delle bare bianche in attesa dello smistamento: sono i resti di una trentina di persone trovate poche settimane fa nei campi limitrofi.

In due cripte sotterranee sono conservati gli scheletri delle migliaia di persone trucidate nella zona. Sembra di scendere all'inferno: la scala è stretta, le stanze sono buie e si è circondati a destra e sinistra da tantissime bare, una a fianco dell'altra, impilate ed affiancate, con coperchi lievemente spostati per mostrare i teschi presenti. Ognuna di esse è piena zeppa di ossa, possibilmente di membri di una stessa famiglia. L'odore è forte, c'è silenzio totale perché sono solo... ma sembra che le mura siano impregnate in modo indelebile delle grida di terrore, degli spasmi e dei lamenti dei moribondi. Chiudo gli occhi e recito un'Ave Maria ed un Eterno Riposo. Collettivo ovviamente, altrimenti avrei dovuto recitarne ben 50.000, tanti sono in questo memorial i resti delle persone trucidate.

All'esterno incontro la tomba di un'italiana, la bergamasca Antonia Locatelli, una missionaria italiana ammazzata dalle milizie ruandesi: lei aveva assistito personalmente ai massacri pre genocidio commessi dai soldati governativi dell'esercito e la mattina del 9 marzo 1992 denunciò alla radio, alle televisioni ed alle ambasciate internazionali ciò che stava accadendo nella regione di Bugesera, dove i killer di Habyarimana avevano ucciso 500 Tutsi in meno di una settimana. Il pomeriggio dello stesso giorno, soltanto poche ore dopo la coraggiosa denuncia, uno squadrone della morte giunse appositamente per lei da Kigali: fu uccisa con due proiettili, il primo in bocca ed il secondo in testa. Ad indicare a tutti che non si doveva parlare né pensare, ma obbedire e basta.

Con modalità e tempistiche assolutamente simili, ad una decina di km di distanza, nel paesino di Ntarama sono state ammazzate ben 5.000 persone: come nella maggior parte dei memoriali ruandesi, tutti i loro nomi sono stati scritti in un enorme pannello nero verticale che giganteggia sopra la cripta dove si trovano le ossa dei defunti.

All'interno della chiesa, protetta dalle intemperie da una enorme tettoia a doppio spiovente in ferro, si trovano i soliti vestiti sporchi ed insanguinati, tanti cimeli dei morti come documenti d'identità, libricini, monete del tempo, vasi e bicchieri... e dentro teche di vetro tanti crani degli assassinati, molti dei quali fracassati da colpi di bastone ed asce, oppure con fori netti di proiettile e tagli secchi di machete.

Appena fuori la chiesa è posizionata una tomba molto ben tenuta di una sola donna di nome Umuraza Pelagie: è morta nell'assalto del 15 aprile insieme ai suoi 6 figlioletti piccoli. Il marito sopravvissuto, ha chiesto ed ottenuto il permesso di poterla seppellire vicino alla chiesa in un luogo dedicato, senza usufruire delle fosse comuni: Umuraza è diventata così il simbolo eroico di tutte le mamme Tutsi assassinate insieme ai loro figli dalle milizie Hutu.

Esistono oltre 250 memoriali registrati in tutto il Rwanda, la maggior parte dei quali sono in ogni caso poco più che una baracca con una targa. Il più conosciuto e visitato senza alcun dubbio è il Genocide Memorial di Kigali, costruito sulle fosse comuni in cui furono seppellite ben 250 mila persone, dunque addirittura un quarto di tutte le vittime dei massacri. Seguono per importanza e fama, Nyamata e Ntarama, ma anche Murambi e Biserero.

Ingresso del Genocide Memorial di Kigali

Una delle tante sale del Genocide Memorial di Kigali con le foto delle vittime

Le fosse comuni con i resti di 250.000 persone assassinate

Pannello fuori al Genocide Memorial di Kigali con i nomi delle vittime: molti cognomi sono uguali, ad indicare che sono state sterminate intere famiglie

Uno dei memoriali più grandi, se non proprio il più grande di tutti, ma poco conosciuto ed ancor meno frequentato in quanto assai difficile da raggiungere, è quello di Nyarubuye nella provincia di Kibungo, 140 km a sud est della capitale, vicino al confine con la Tanzania ed il parco naturale dell'Akagera.

La strada immersa nei bananeti che porta a Nyarubuye

Arrivando a Nyarubuye

Ci arrivo dopo 3 ore di sterrato in mezzo alle montagne (anzi... siamo in Rwanda, in mezzo alle colline!), attraversando villaggi sperduti con i bimbi che ogni volta che passo corrono a perdifiato dietro la mia macchina... spesso mi fermo, perché i loro occhioni ed il sorriso a mille denti mi intenerisce. Per loro sono un alieno, ed il solo fatto di scambiar due parole con me li riempie di gioia. Mai hanno visto un bianco da queste parti!

Un bimbo di Nyarubuye

Nyarubuye è piccola, più un villaggio immerso nei bananeti che un paese. Rimango quasi stupefatto quando vedo la chiesa del massacro, perché essa è assurdamente grande in un posto assurdamente sperduto nel nulla, del tutto sproporzionata rispetto al contesto nella quale è inserita. A differenza però di Nyamata e Ntarama, la chiesa romana non è stata destinata a luogo di memoria, ma è stata sistemata, nuovamente utilizzata e dedicata al culto religioso. Qui, al suo interno e nel grande piazzale esterno, tra il 15 ed il 16 aprile sono state ammazzate udite udite, 20.000 persone con le solite modalità: inganno per metter persone in trappola, chiusura delle vie di fuga, e via di bombe a mano e mitragliatrici, con il machete a completare il lavoro.

Trovo il memorial chiuso. E chi cazz ci viene effettivamente fin qui? Giro il paese un'oretta buona alla ricerca di qualcuno che me lo apra, con insormontabili difficoltà linguistiche, perché più ci si allontana dalla capitale più l'inglese è parlato poco e male... alla fine mi accoglie Florantine, una signora di 54 anni, una delle superstiti del genocidio. Mi confida che ha visto il figlioletto di 5 anni morire ammazzato. Poche parole, di quei giorni preferisce non parlare. E' un po' una costante in tutti i sopravvissuti che ho incontrato. Il dialogo con loro è difficile, talmente profondi sono i traumi che portano dietro. Ho notato in tutti grande reticenza a parlare di quello che è stato, come se si volesse dimenticare tutto e si avesse enorme paura dei propri fisiologici sentimenti di odio e desiderio di vendetta. Florantine mi dirà tra l'altro che hanno il divieto tassativo del governo di parlare del tema e delle proprie vicende personali. E del governo si ha rispetto e tanta paura.

Però ad una domanda mi risponde. Chiedo io: «Dopo quello che avete vissuto, dentro di voi non c'è il minimo sentimento di odio e desiderio di vendetta?» Lei accenna ad un sorriso sarcastico... «Non serve a nulla la vendetta, morte chiama morte e ci continueremo ad ammazzare per altri secoli... Però sì... ho perdonato, ma a volte quando penso a mio figlio, l'odio compare ed anche il desiderio di vendetta perché molti assassini sono ancora a piede libero... allora prego Gesù Cristo che mi aiuti ad allontanare questi pensieri...». Giù il cappello signori.

Florantine mi accompagna per le enormi sale del memorial. Sempre tantissimi vestiti e cimeli, oltre alle armi usate per la mattanza, statue cattoliche di santi decapitate in pieno delirium tremens diabolico... centinaia di teschi fracassati ed allineati ed una lunga ed interminabile fila di femori accatastati... davvero impressionante. E poi nei sotterranei le solite bare bianche riempite con ossa.

Come negli altri memorial, in ogni sala dedico una preghiera a queste povere sfortunate creature. Florentine vede ed apprezza... e poco a poco si apre un po' di più. Mi dice che il livello di atrocità e sadismo che si è visto qui, ha pochi eguali in Rwanda ed è assai difficile da comprendere e razionalizzare. Ci sono stati molti riti satanici ed episodi di cannibalismo, con i cuori pulsanti delle persone strappati e divorati come facevano gli aztechi... mi mostra il posto dove le milizie cucinavano al fuoco cuori ed intestini e li mangiavano, oppure le parti di muro ancora sporche di sangue dove sbattevano i piccoli per ucciderli.

Prima di salutarci Florantine mi dirà l'informazione più sconvolgente del mio viaggio in Rwanda, poi confermata ripetutamente da tutti gli altri superstiti del genocidio. E' forse la prova più schiacciante del fatto che Satana era davvero sceso sulle mille colline ruandesi: anche i religiosi, preti, suore e missionari si sono macchiati di stupri e crimini orrendi, trasformandosi da santi (se mai lo erano stati) in diavoli. Perché come in ogni guerra, Covid compreso, le persone si rivelano per quello che sono veramente: calano le maschere ed escono fuori i pochi leoni e le tante pecore, i lupi, gli sciacalli e gli avvoltoi, i tantissimi agnellini mansueti ben ligi al dovere, alle regole ed al compitino.

Storia del genocidio (13): preti diavoli e preti santi

Difficile da credere, mi rendo conto, ma diversi sacerdoti ruandesi a fine guerra sono stati condannati per crimini contro l'umanità (stupri inclusi) dall'ICTR, l'International Criminal Tribunal for Rwanda (Tribunale Criminale Internazionale per il Ruanda) con sede ad Arusha (Tanzania), come ad esempio Emmanuel Rukundo, Elizaphan Ntakirutimana e Wenceslas Munyeshyaka, quest'ultimo oggi in libertà a causa del vergognoso ostruzionismo francese alla giustizia internazionale e ruandese che gli aveva comminato l'ergastolo.

Non solo uomini ma anche donne consacrate, come ad esempio la suora Maria Kisito, la quale aiutò le milizie ad intrappolare nel suo convento circa 600 Tutsi per poi darlo alle fiamme. Purtroppo, per pochi colpevoli che sono stati condannati, moltissimi altri invece l'hanno fatta franca.

Il caso più famoso è indubbiamente quello di Athanase Seromba, all'epoca dei fatti sacerdote di una parrocchia cattolica a Nyange nella regione di Kibuye del Rwanda occidentale. Ben sapendo che le persone di lui si fidavano ciecamente, nell'aprile del 1994 concentrò oltre 2 mila Tutsi dentro la sua chiesa, promettendo protezione dalla follia assassina degli Interhamwe che non avrebbero osato profanare il tempio sacro del Signore. Ed indovinate che fece? Avvertì le milizie Hutu partecipando non solo ideologicamente ma anche attivamente alla mattanza!

Ben presto le persone capirono di esser in trappola perché ogni via d'uscita era bloccata, anche se non potevano immaginare che era stato lo stesso sacerdote ad averli traditi. Capiscono di esser arrivate al capolinea, chiedono disperatamente una messa al sacerdote, estreme unzioni e confessioni, offrono denaro per poter nutrire e dissetare i bambini presenti... e poco alla volta realizzano l'impensabile quando vedono il parroco stesso che spara a chi cercava di fuggire calandosi dalle finestre. Il loro pastore si era trasformato in un diavolo.

L'attacco degli Hutu dura diversi giorni, con raffiche di mitra e granate buttate dentro che maciullano corpi ormai allo stremo delle forze in quanto privati di cibo ed acqua. La soluzione finale, prevedeva di far crollare tutta la chiesa seppellendo così i sopravvissuti sotto le macerie. Secondo la follia assassina di Seromba, i Tutsi intrappolati erano tutti demoni che meritavano di morire senza pietà. Nessuno però avrebbe osato abbattere una chiesa, pur infestata di demoni, senza il consenso e l’approvazione dell’autorità religiosa che la governava... sai, un conto è ammazzare a colpi di machete dei bambini innocenti davanti ad un Crocifisso, un conto è far crollare una chiesa consacrata! Gli assassini, tutti cattolici, avevano paura della vendetta di Dio!

Seromba non solo autorizzerà la demolizione (sostenendo che tanto la struttura sarebbe stata ricostruita in soli 3 giorni), ma addirittura darà indicazioni sulle parti più deboli dell'edificio da attaccare. Le milizie prendono così a lanciar granate sulle mura e sulle colonne portanti. Ma non era sufficiente. Allora sequestrano gli autisti di due bulldozer che nelle vicinanze stavano costruendo una strada e gli impongono di abbattere la chiesa. Uno di questi si rifiuta e Seromba lo ammazza con un colpo in testa. Il lavoro è portato a termine dagli altri operai mentre chiunque cercava di fuggire dalle aperture che si creavano, veniva abbattuto a colpi di artiglieria e machete.

Seromba partecipò in modo attivo allo sterminio di tutti i 2000 Tutsi presenti, moltissime donne e tantissimi bambini, non solo favorendo le milizie Hutu, ma ammazzando molte persone con le sue stesse mani. Tutto vero, tutto agli atti, nero su bianco. Da non credere, ma è davvero andata così.

Seromba, raccomandato da alte sfere del clero africano che lodano le sue doti di religioso semplice e devoto chiedendo accoglienza in quanto profugo di guerra, fugge dapprima in Congo e poi nel '97 cerca di rifarsi una seconda vita in Toscana, accolto nella parrocchia dell'Immacolata e S.Martino in Montughi di Firenze, sotto il falso nome di Anastasio Sumba Bura.

Seromba pensava davvero di averla fatta franca! Ma non aveva fatto i conti con African Rights, un'associazione simile a quelle ebraiche che non smisero mai di cercare i nazisti responsabili dell'olocausto, che a fine 1999, insospettita dal nome molto simile a quello di un latitante irrintracciabile, lo scopre ufficialmente proprio lì. La notizia è una bomba, fa il giro del mondo e la magistratura italiana è costretta suo malgrado ad intervenire.

Il caso così finisce ben presto al tribunale ICTR: i giudici che analizzarono il caso non credevano ai loro occhi ed alle loro orecchie nell'ascoltare le testimonianze dei pochissimi sopravvissuti... nessuno pensava che un sacerdote fosse capace di commettere tali atrocità, e trattarono il caso davvero con i guanti di velluto mettendo fortemente in dubbio ogni testimonianza. Lo pseudoprete killer, senza mai mostrare il minimo segno di pentimento, negava tutto, persino l'evidenza, ad esempio quello di esser stato in Rwanda ai tempi del genocidio o di esser stato sacerdote in quella chiesa, nonostante tutte le testimonianze, i documenti e le tante foto che lo ritraevano mentre celebrava. Sosteneva addirittura di esser stato ordinato sacerdote dopo il '94 nonostante tutta la documentazione mostrasse il contrario.

Insomma, le prove della sua colpevolezza erano davvero schiaccianti, le sue menzogne grossolane ed imbarazzanti, e così di fronte all'evidenza il tribunale si dovette davvero ricredere. La super-giudice svizzera Carla del Ponte, amica di Falcone e procuratore generale del Tribunale, la stessa che condannerà a 12 anni lo speaker italo-belga di RTLM, ottenne così l’estradizione del criminale: era il febbraio del 2002.

Se Seromba però non aveva fatto i conti a suo tempo con African Rights, Carla del Ponte non li aveva fatti con il Vaticano. Voi non lo sapete, ma il Vaticano nel proteggere gli assassini è davvero imbattibile, specializzato in particolare nella protezione di due categorie di persone: genocidari (l'operazione Odessa vi ricorda qualcosa?) e pedofili clericali.

Immediatamente, dopo la richiesta di estradizione, parte in Italia la “schermatura” della curia fiorentina, assolutamente certa della sua innocenza, con atteggiamento vergognosamente ostruzionistico verso la sacrosanta giustizia ed ingiustificatamente solidale nei confronti del sacerdote. Don “Sumba Bura” viene trasferito in una piccola e sperduta parrocchia a S. Mauro a Signa, sulle colline fiorentine. Più tranquillità, meno curiosi, zero stampa e giornalisti invadenti... il piano è semplice: si fanno calmar le acque e poi lo si fa sparire. Dove? Latitante in qualche paese sudamericano? Magari in Argentina come i gerarchi nazisti nell'operazione Odessa? No... la cosa sarebbe troppo sporca, diventerebbe uno scandalo internazionale. Molto più semplice: a pochi passi dalla Cattedrale di Firenze, in un palazzo sotto la sovranità vaticana, quindi extraterritoriale.

E così Athanase Seromba, alias Anastasio Sumba Bura è stato nascosto dalle autorità ecclesiastiche in una sorta di impenetrabile ed inespugnabile bunker, facendolo sfuggire se non al processo, per lo meno alla giurisdizione italiana e conseguentemente a quella internazionale. L'ICTR lo cerca, l'Interpol impazzisce, i parenti dei Tutsi assassinati ed i membri di African Rights inviano lettere di protesta ai massimi vertici ecclesiastici, papi inclusi... e la Chiesa fiorentina invece che cazzo fa? Lo nasconde per anni, preparandone in gran segreto la difesa in tribunale, ricorrendo in appello e concordando infine con l'ICTR e le autorità ruandesi, a condanna ormai certa, le eventuali condizioni di estradizione.

Il Vaticano otterrà assicurazioni sui seguenti punti: il killer non potrà esser trasferito in Rwanda né incarcerato con altri Hutu genocidari nelle prigioni internazionali di Uganda, Burundi e Congo. Non dovrà essere condannato a morte, e dovrà avere un trattamento di assoluto riguardo.

Nonostante le enormi pressioni del vergognoso Vaticano sui magistrati, Seromba nel 2006 fu giudicato colpevole e condannato a 15 anni di carcere con immediato mandato di cattura internazionale ed estradizione esecutiva dall'Italia. Poi, due anni dopo nel processo di appello, fu condannato all'ergastolo.

L’avvocato di Seromba, un pezzo grosso di nazionalità del Benin, Alfred Pognon, basò tutta la sua difesa sull'assoluta innocenza di Seromba e sull'attacco al tribunale, da lui definito politicizzato ed anticlericale, un carrozzone internazionale che voleva colpire il Vaticano, perseguire i pesci piccoli e non i veri autori dei massacri al fine di giustificare agli occhi del mondo gli enormi investimenti dei vari paesi in esso.

Nonostante il suo blasone ed il suo grande potere, la causa la perse nel modo peggiore: ergastolo. Il suo assistito è stato trasferito nella prigione (? … d'obbligo il punto interrogativo...) di Porto-Novo, la capitale guarda caso, del Benin, dove ancora si trova. Nessuno sa se circondato di mignotte, bevendo champagne e mangiando caviale, o meno.

Ed in tutta la vicenda, spiace per i cattolici, spiace anche per me che oggi lo sono (ma credo in Cristo, nei veri sacerdoti e non in quell'istituzione corrotta e massonica del Vaticano), ma il principale responsabile in tutta la vicenda è stato Papa Wojtyla che tutto sapeva. E' ora che la Chiesa cominci a condannare non solo i peccati (anche se oggi non fa più neppure questo...), ma anche i peccatori!

E' probabile inoltre che per un Seromba scoperto e condannato, ce ne siano altri dimenticati nell'anonimato in varie diocesi sparse per l’Europa, Italia e Francia in primis, magari sotto false identità e sotto protezione di un Vaticano connivente. Poveri illusi: Cristo tutto vede, tutto ha visto e tutto sa. Potrete anche sfuggire alla giustizia terrena per qualche misero e stupidissimo decennio, ma nell'aldilà, per voi, saranno “volatili per diabetici”, alias... cazzi amari.

Attenzione però. Se è vero che ci sono stati sacerdoti satanici killer seriali, è anche vero che sono stati molti di più quelli che in quei terribili 3 mesi e mezzo hanno rischiato la vita salvando persone dalla macellazione ed hanno onorato di fronte al popolo, se stessi, Gesù Cristo ed il loro ordine sacro. Per un Seromba, esistono centinaia di sacerdoti eroi e santi. Come padre Mario Falconi, un missionario bergamasco che si trovava nel 1994 in quei territori maledetti: egli non fu evacuato dalle forze UNAMIR e riuscì a salvare tremila persone dai machete dei carnefici. Ancora oggi, pur avendo base a Milano, è spesso in Rwanda, in quella stessa missione a nord nei pressi del confine ugandese.

Una volta, in quei funesti 100 giorni, era in macchina con molti bambini tutsi e si trovò di fronte improvvisamente un posto di blocco delle milizie Hutu. In quei pochi secondi a disposizione egli realizzò che erano tutti spacciati e sarebbero stati ammazzati a colpi di machete. Col cuore in gola, si fece un rapido segno della croce e spinse giù a tavoletta tutto l'acceleratore forzando il posto di blocco. Gesù evidentemente era con loro, perché miracolosamente la scamparono.

Padre Mario Falconi con i bambini ruandesi salvati dalla furia delle milizie Hutu

Padre Mario nascose nelle sue strutture ben 3000 persone. Ma le milizie sapevano tutto e dopo il posto di blocco forzato, decisero di preparare l'assalto alla missione. Egli ordinò alle donne di pregare ed agli uomini di organizzare un'improbabile difesa con pietre e bastoni, del tipo Armata Brancaleone, ben consapevole però che a breve sarebbero tutti morti. Confessioni a palla per morire in grazia di Dio ed estreme unzioni date a tutti.

Evidentemente però le donne pregarono benissimo ed il Padre Eterno ascoltò le loro suppliche strazianti: proprio il giorno seguente, quello prescelto per l’attacco alla missione, i guerriglieri Tutsi dell’RPF conquistarono il vicino villaggio di Muhura, mettendo in fuga le milizie Interhamwe. «Ci salvammo per miracolo, poche ore prima della nostra condanna a morte».

Grande Mario, appena torni in Italia spero di venire a trovarti per scambiar due chiacchiere!

Storia del genocidio (14): l'atteggiamento del mondo

Domanda da 100 milioni di dollari: in tutto ciò il resto del mondo che ha fatto? Cosa diceva o proponeva mentre un milione di persone venivano massacrate? Un cazzo di nulla. Pochissimi media parlavano delle vicende ruandesi, etichettandole però come la solita esplosione tribale di violenza, incontrollata, incontrollabile ed atavica, totalmente irrazionale e tipica delle popolazioni africane, bollate come selvagge e violente. In generale, il silenzio più assoluto. Erano ben altri i temi di interesse, mondiali di calcio in primis.

Nelson Mandela in Sudafrica urlò al mondo intero di mettere in atto azioni concrete per arrestare il genocidio e fu immediatamente zittito da quel criminale di guerra di Mitterand: «Mandela o no, non permetteremo che gli anglosassoni ficchino il naso nei nostri affari». E così il genocidio ebbe il via libera, in quanto puro e semplice "affare francese".

Per carità, tra i colpevoli mi ci metto anche io eh... perché l'ignoranza è una colpa. Non ero minimamente a conoscenza dei massacri. Sedicenne, liceale con in testa solo il calcio e le ragazze, mi emozionavo per il rigore di Roberto Baggio a Pasadena e per l'eroica partita di Kaiser Franz, a pochi giorni dall'operazione al menisco. Ma anche l'avessi saputo, cosa avrei potuto fare? Tanto in Africa le cose vanno così... sono negri, son lontani... ma sì, cazzocenefrega...

Gli unici che oggettivamente potevano far qualcosa e non hanno fatto nulla, erano le varie organizzazioni internazionali. Il genocidio ruandese è indubbiamente ricordato come uno dei più clamorosi fallimenti di quel carrozzone inutile, dannoso, costoso ed aggiungo, criminale, che si chiama ONU, il quale, al servizio e sotto il totale controllo dell'imperialismo anglo-franco-americano, non fa altro che collezionare figure di merda a ripetizione in tutto il mondo, fin dalla sua nascita nel 1945.

L'ONU entrò nel paese nel 1993 per garantire il rispetto degli accordi di Arusha. Il generale canadese Roméo Dallaire a capo dell'UNAMIR, chiese più volte al Palazzo di vetro di New York di aumentare il numero del contingente ai suoi ordini, dagli insufficienti 2500 uomini senza possibilità di sparare a minimo 5000 armati fino ai denti, ben addestrati e col permesso di far fuoco, perché la situazione stava degenerando rapidamente. I massacri erano all'ordine del giorno già ben prima del 6 aprile, la violenza esplodeva, l'odio etnico si percepiva a pelle nelle strade, i mass media diffondevano messaggi di odio e vendetta.

Non solo: Dallaire denunciò anche l'imminente genocidio, avendone le prove attendibili tramite diversi informatori locali. Oltretutto questo veniva pure annunciato apertamente e pubblicamente dagli stessi membri dell'Akazu: ad Arusha, Bagasora disse a tutti i giornalisti presenti che stava andando a casa per «pianificare l'apocalisse», e pochi giorni prima del genocidio, in occasione di un ricevimento ufficiale, dirà che «la sola soluzione possibile ai problemi del Rwanda è lo sterminio dei Tutsi».

Dallaire sapeva bene che depositi di armi erano stati disseminati in luoghi strategici in tutto il paese, che si stavano preparando liste per i massacri, che si stavano addestrando milizie e civili assassini, che erano arrivati quasi 600.000 machete dalla Cina... che il disastro era vicinissimo e si stava aspettando solo il casus belli ed il via libera di Radio Machete. Ogni sua disperata richiesta fu ignorata.

Il generale UNAMIR Romeo Dallaire (Foto di Enzolamine, fonte https://commons.wikimedia.org, licenza CC BY-SA 4.0)

L'ONU manco a dirlo, fece l'esatto contrario di ciò che chiedeva il generale. A seguito della cattura e della barbara uccisione dei suoi dieci militari, il Belgio in stato di choc ordinò l'immediato rimpatrio dei sui quattrocento militari, privando l'UNAMIR del suo principale reparto, per numero, addestramento ed equipaggiamento. E chissà se quel massacro, non era stato concordato in precedenza nelle stanze dei bottoni di New York per dare all'ONU la giustificazione per ritirarsi da quell'inferno, concentrando così i suoi sforzi solo sul fronte jugoslavo... Ormai io non mi stupisco più di nulla: oggi credo che nulla di ciò che accade in questo mondo sia frutto del caso: tutto è pianificato dalle elìte nei minimi dettagli.

Il 21 aprile 1994 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sotto pressione di USA, Gran Bretagna e Francia, ovvero le 3 grandi potenze imperialiste mondiali, votò all'unanimità la riduzione del contingente UNAMIR a un piccolo gruppo di 500 uomini, poi ulteriormente dimezzati, con l'unico compito di intermediazione tra le parti in conflitto e senza il permesso di far fuoco. La Francia addirittura fece pressione sul Canada per rimuovere Dallaire, diventato molto scomodo in quanto aveva capito tutto quello che stava accadendo e chiedeva costantemente il permesso di intervenire con la forza.

Gli Stati Uniti di Bill Clinton e la Gran Bretagna di John Major non riconobbero il genocidio in Rwanda nonostante tutti i rapporti delle varie commissioni lo dimostrassero con certezza, perché utilizzare ufficialmente la parola "genocidio" significava esser obbligati in base al diritto internazionale all'intervento umanitario. Un intervento umanitario e militare che però nessuno voleva fare, soprattutto la Francia che appoggiava apertamente il governo Hutu genocidario, e che probabilmente ricevette forti pressioni dagli Akazu per spingere tutto il Consiglio di Sicurezza a quella decisione. E così, i caschi blu, unica speranza di salvezza per Tutsi ed Hutu moderati, andarono via a mattanza in corso. Tutta la comunità internazionale abbandona il Rwanda tra la disperazione generale, tranne la Croce Rossa e Medici Senza Frontiere che racconteranno di non aver mai visto nulla di così spaventoso.

I civili, appena si resero conto che la loro unica possibilità di salvezza si stava dileguando, affollarono le zone dove erano i soldati ONU supplicando loro di sparargli: preferivano morire con un colpo secco pur di evitare lo strazio di veder figli ammazzati e decapitati a colpi di machete. I caschi blu abbandonarono le postazioni con la morte nel cuore.

I diversi paesi, Italia compresa con la famosa operazione “Ippocampo”, mandarono dei soldati con l'unico scopo di evacuare rapidamente i propri cittadini e riportarli in patria, con l'ordine tassativo di non intervenire in nessun caso, nemmeno di fronte alle situazioni più drammatiche. Folle di persone disperate chiedevano aiuto e protezione, imploravano di salire su quegli aerei, boeing giganteschi da centinaia di posti totalmente vuoti e liberi che decollavano con solo una decina di bianchi da rimpatriare... ma non si poteva far nulla perché il loro destino di morte era stato già deciso al Palazzo di Vetro: il colore della pelle determinava chi doveva vivere salendo su quegli aerei, e chi doveva morire restando nell'inferno ruandese.

C'è di più. Le Nazioni Unite probabilmente erano dentro i massacri fino al collo. Non parliamo solo di ostruzionismo, di mancato intervento, di "fancazzismo" o "cazzocenefreghismo"... Poco prima dell'avvio della mattanza, in un paese già sull'orlo della guerra civile, il presidente degli esteri egiziano Boutros-Ghali, a quel tempo Segretario generale dell'ONU, fece da tramite per un affare da 26 milioni di dollari per il trasferimento da Il Cairo a Kigali di armi pesanti e munizioni destinate alle milizie dell'Hutu Power. A pensar a male si fa peccato ma spesso ci si azzecca!

Tutto il mondo però sapeva ciò che stava accadendo. L'ONU doveva salvare il culo e la faccia e così estrasse il coniglio dal cilindro. A fine maggio, quando la mattanza era già in larga parte già completata, autorizzò un contingente di 5000 soldati, mettendo però una serie di paletti burocratici assurdi che obbligavano a lunghi tempi per la formazione, il finanziamento e la preparazione della missione. I criminali in giacca e cravatta delle stanze dei bottoni newyorkesi presero a cavillare volutamente sulle questioni più insignificanti come il colore ed il numero dei mezzi da inviare, l'entità dei fondi, gli stati finanziatori e la ripartizione precisa delle spese: in tal modo potevano guadagnare tempo lasciando che la guerra civile sterminasse un paese intero, e poi entrare da vincitori a mattanza terminata salvando la reputazione.

Così, se si esclude un minuscolo contingente di soldati praticamente impotenti, l'ONU rientrò in Rwanda soltanto a metà luglio a genocidio terminato. Se la comunità internazionale avesse agito prontamente e con determinazione, avrebbe potuto fermare la maggior parte delle uccisioni. Ma la volontà politica evidentemente era un'altra.

In questa situazione assurdamente drammatica e con pochissimi uomini a disposizione, molti anche disarmati, Dallaire fece il possibile e l'impossibile per costituire delle aree protette per la popolazione civile e limitare i massacri, assistendo però praticamente impotente senza possibilità di intervenire al dispiegarsi del genocidio.

Romeo Dallaire era un giusto, un buono. E' stato uno degli eroi di quei giorni: la sua figura positiva emerge tra l'altro anche nel famoso film Hotel Rwanda. Al suo ritorno in Canada egli continuò la propria carriera all'interno delle forze armate, soffrendo tuttavia di una grave forma di disturbo post traumatico da stress che lo spinse, nel 2000, addirittura sull'orlo del suicidio. E ci credo, chissà quanto orrore avrà visto...

L'UNAMIR restò in Ruanda a bruciare denaro pubblico fino all'8 marzo 1996, con l'incarico farsa di assistere e proteggere le popolazioni oggetto del massacro. Nel corso del mandato persero la vita 22 caschi blu, 4 osservatori militari ed un interprete.

Tra tutte le potenze occidentali, la medaglia d'oro per il ruolo più ambiguo e schifoso nelle vicende ruandesi va data indubbiamente alla Francia di Francois Mitterand, il vile e schifoso assassino di Thomas Sankara (repetita juvant), il quale voleva tenere il Rwanda nell’orbita francofona e usarlo come base per depredare lo Zaire. Le porcate che lo stato transalpino ha combinato in Africa sono del tutto paragonabili se non superiori a quelle di USA ed Inghilterra in giro per il mondo.

La Francia, anziché mantener posizione neutrale, impedire massacri e favorire accordi di pace, prese sempre posizioni a favore della sanguinaria dittatura Hutu clerico-fascista di Juvénal Habyarimana, armando fino ai denti le FAR ed addestrando per bene a tecniche di guerriglia ed utilizzo di armi sofisticate il loro commando più violento, l'Interahamwe. Il colonnello belga Luc Marchal impegnato nella missione, denunciò pubblicamente che un aereo francese atterrato a Kigali e destinato al rimpatrio degli europei, era carico di armi che furono consegnate al regime Hutu di Habyarimana.

La Francia sostenne anche in ogni modo possibile l'attività di Radio Machete, fornendo costantemente apparecchiature ed antenne per migliorare la qualità delle trasmissioni e la diffusione capillare sul territorio. Non solo: quando il Fronte Patriottico di Kagame conquistò Kigali, i servizi segreti transalpini misero a disposizione degli speaker della radio (cosa confermata dalle dichiarazioni di Georges Ruggiu) dei furgoncini attrezzati per la trasmissione mobile in modo tale da farli continuare a lavorare. A Kigali ormai caduta, RTLM continuava così indisturbata ad inviare messaggi di morte e vendetta proprio nelle aree delle missioni “umanitarie” (virgolette d'obbligo) dell'esercito francese.

E manco a dirlo, alla Francia è anche collegata la misteriosa scomparsa di tutte le registrazioni di Radio Machete di quei mesi insanguinati. L'Hutu bianco Georges Ruggiu dichiarò in fase di processo ad Arusha, di aver consegnato l'intero archivio di RTLM a degli agenti militari francesi prima di fuggire in Congo, ben due casse piene di documenti, nomi cognomi, finanziamenti e soprattutto audio di 4 mesi di trasmissione, i 4 mesi più importanti. Le casse ovviamente sparirono, privando la giustizia di importantissime prove per incriminare i colpevoli ed aggiungendo l'ennesimo ostacolo alla sete di giustizia dei sopravvissuti alla Shoah africana. Chissà che cazzo di fine hanno fatto... Probabilmente oggi sono sepolte sotto tonnellate di scartoffie in qualche archivio segreto di stato di qualche banlieue parigina, con enorme sollievo dei molti colletti bianchi occidentali implicati fino al collo nei massacri.

E poi, persa la guerra, i transalpini lanciarono l’Operazione Turquoise sotto il mandato delle Nazioni Unite, ovviamente ben a conoscenza dell'ambiguo ruolo francese nella vicenda: quell'assassino di Mitterand inviò oltre 3000 uomini per far fuggire i genocidari nel Congo e distruggere le prove della loro partecipazione alle mattanze.

L'Operazione fu contemporaneamente mediatica e militare. Mediatica perché l'immagine francese agli occhi del mondo necessitava di una bella ripulitina: per questo sarebbe stato sufficiente evacuare in mondovisione un paio di Tutsi in lacrime e sfamare un bambino con la pancia gonfia di vermi, con annessa foto da sbattere in prima pagina su tutte le prime pagine delle riviste internazionali; e così fu. Militare, perché le milizie Hutu in ritirata a seguito dell'avanzata dell'RPF di Paul Kagame avevano bisogno di supporto e copertura. Insomma, l'operazione Turquoise fu un bluff assoluto, orchestrato male ed attuato peggio.

Nel corso dei massacri dunque, sul territorio ruandese si trovavano contemporaneamente due distinti contingenti sotto l'egida dell'ONU: quello poco armato e ridotto ai minimi termini del generale Dallaire pro RPF ed anti genocidio, e quello francese, ben armato e più numeroso, pro regime Hutu e pro genocidio. Da sbellicarsi dalle risate, se non fosse che stavano morendo a colpi di mitra, machete e propaganda centinaia di migliaia di persone.

Non solo: i francesi, per non farsi mancar nulla, si resero complici nei campi profughi di tantissimi stupri di gruppo, addirittura fotografando e filmando le loro orrende prestazioni sessuali ai danni di innocenti donne e bambine. Tante sono le testimonianze su youtube a conferma di ciò.

In estrema sintesi, gli Hutu genocidari in quegli anni videro sempre i francesi come grandi alleati ed i soldati ONU di Dallaire come ostacolo al loro piano di sterminio.Ufficialmente i francesi andarono in Rwanda a proteggere la popolazione, praticamente invece a violentar donne, a farsi belli belli agli occhi del mondo, ed infine a sostenere la fuga dei killer in Congo.

Bene bene... sparlato per benino della Francia di Mitterand, ricordo sempre a costo di esser ripetitivo, il vile assassino del più grande statista socialista africano della storia, Thomas Sankara, andiamo per par condicio a farlo degli USA.

Gli Stati Uniti si sono comportati in tutta la vicenda in modo decisamente più "intelligente" rispetto alla Francia, quest'ultima invece per sempre bollata dalla storia come sostenitrice e complice dei genocidari. Gli USA ebbero un ruolo ben più opportunista e subdolo anche perché la loro presenza in territorio africano è stata sempre marginale, così impegnati a far guerre in giro per il mondo, destabilizzare paesi socialisti ed annettere l'Europa all'Impero.

Non sapendo chi fossero i vincitori della guerra e controllando totalmente le decisioni dell'ONU e dei loro alleati, hanno scelto una tattica più attendista. Del tipo: sosteniamo Kagame, ma usciamo dal paese e facciamo scannare tra di loro i ruandesi... e poi a conflitto terminato entriamo da vincitori e ci alleiamo con chi sarà al potere per i prossimi decenni. Come nella seconda guerra mondiale in sostanza, quando sconfitti i nazisti dall'Armata Rossa, essi fecero l'ingresso trionfale in Normandia occupando poi militarmente tutta l'Europa, Italia compresa dove si trovano oggi ben 140 loro basi militari, 20 delle quali sono segrete per ragioni di sicurezza.

I servizi segreti americani formarono per benino Paul Kagame nel loro territorio, finanziarono l'RPF in Uganda fornendo ai rivoluzionari armi, soldati, tecnici esperti in strategie di guerra, supporto diplomatico, campagne di informazione nella popolazione atte a screditare il regime Hutu di Habyarimana (che non ne aveva nemmeno bisogno tra l'altro...). Senza l'aiuto degli USA Kagame non sarebbe mai stato in grado di prendere il potere in Rwanda diventandone il padrone assoluto per 30 anni.

A quel punto, vinta la guerra e con la Francia che ripiegava con la coda tra le gambe, gli USA misero in atto la seconda e ben più importante parte del piano: metter le mani sulle sterminate ricchezze minerarie del Congo, che si trovano proprio al confine ruandese nella regione del Kivu, poco a sud delle montagne del Virunga. Facilissimo davvero. I Tutsi sterminati erano infatti i buoni agli occhi dell'opinione pubblica, gli Hutu i cattivi... gli Hutu erano fuggiti in Congo, il Congo dunque era cattivo perché proteggeva i genocidari... creiamo a tavolino un'altra guerra (I guerra del Congo), tanto una più una meno che cazzo che vuoi che sia, coinvolgiamo pure gli stati confinanti per depopolare un po' il continente nero (visto che figliano come conigli ed i sieri genici Pfizer ad mRna ancora non sono stati inventati), e mettiamo al governo del paese un altro fantoccio che non rompe il cazzo e fa quello che diciamo noi. E fu così che le ricchezze del Congo sono oggi in mano ad aziende ruandesi che fanno a loro volta capo agli USA.

Tranquilli, in tutto ciò non c'è mai stato alcun attrito tra Francia e Stati Uniti. Il succo del discorso tra Mitterand e Bill Clinton potrebbe esser il seguente: «Francois, stammi a sentì... avete fatto un po' 'na figura de merda in Rwanda... facciamo così... non rompete il cazzo nel Kivu, dai... tanto avete 14 stati africani che controllate totalmente, l'Africa è quasi tutta vostra grazie al Franco CFA che solo degli idioti negri africani possono accettare... avete le miniere di Uranio del Niger con le quali alimentate agratiss tutte le vostre pericolosissime centrali nucleari... a voi l'Uranio a noi il coltan. Mi sembra una bella vittoria per entrambi... vabbeh, adesso annamo a magnà caviale e beve champagne a sbafo di quei negri de merda va'... ».

Storia del genocidio (15): filmografia ed eroi (veri o presunti)

Il genocidio ruandese è stato anche spunto per alcuni film, tutti ispirati a fatti e personaggi reali ed alle testimonianze di sopravvissuti. In "Accadde in aprile" del 2005, Augustin, insegnante Hutu con moglie Tutsi e figli per così dire "ibridi", affida la sicurezza della propria famiglia al fratello che, pur essendo speaker di Radio Machete, accetta di sfruttare la sua popolarità per superare i posti di blocco ed arrivare all'Hotel Mille Colline dove potrebbe esserci la salvezza. La famiglia di Agustin però verrà tutta sterminata. Sua moglie sarà ripetutamente stuprata ed in preda alla disperazione più totale, sceglierà di togliersi la vita facendosi esplodere con una bomba a mano in prossimità dei suoi aguzzini, per poterne ammazzare quanti più possibile. A 10 anni di distanza dal genocidio Agustin si metterà alla ricerca del fratello, ora sotto processo nel tribunale internazionale, per ricostruire gli orrendi avvenimenti di quei 100 giorni e trovar un minimo di pace interiore.

Nel film è evidentissimo un atto di denuncia contro l'ingiustificabile immobilismo dei decisori politici nelle stanze dei bottoni e dei militari dell'ONU che, anziché intervenire, preferiscono restare a guardare.

"Shooting dogs" narra invece la storia di un prete inglese di mezza età e di un giovane insegnante molto idealista. Entrambi lavorano presso una scuola che allo scoppio della guerra diviene un rifugio per centinaia di profughi. Ben presto i due si troveranno di fronte ad una scelta difficilissima: pensare alla propria incolumità lasciando il Paese o restare in Rwanda, nell'inferno in Terra, cercando di salvare più persone possibili dalle lame dei machete.

Indubbiamente però, il film più noto sul genocidio è "Hotel Rwanda" del 2004 che ben presto divenne un cult tra i sopravvissuti: narra la storia dell’ex albergatore, oggi attivista politico Paul Rusesabagina, il quale in qualità di manager dell'Hotel delle Mille Colline avrebbe (condizionale obbligatorio per i motivi che illustro in seguito) usato la sua influenza per salvare la vita di circa 1.200 persone che si erano rifugiate nelle sue stanze. La sua fama dopo il genocidio crebbe sempre di più ed ottenne anche diversi premi e riconoscimenti internazionali, soprattutto negli Stati Uniti.

Incredibile quello che accadde però in seguito. Rusesabagina nel 2006 presentò una denuncia al tribunale ICTR contro il generale Paul Kagame per crimini di guerra, affermando che l'attuale governo del Ruanda stava attuando un contro-genocidio, questa volta da parte dei Tutsi contro gli Hutu; nello stesso anno egli creò un partito politico di opposizione, con addirittura un braccio armato, l'FLN (Fronte di Liberazione Nazionale), movimento principalmente Hutu che si è reso anche responsabile di alcuni sanguinosi attacchi terroristici.

E così la percezione del popolo cambiò: egli improvvisamente si trasformò da eroe nazionale tanto amato a traditore e grave pericolo per la nazione. Secondo il governo, l'ex albergatore ha assunto posizioni revisioniste e negazioniste, è il fondatore e leader di un partito politico estremista che appoggia gruppi paramilitari terroristici tra cui probabilmente ci sono ex genocidari, e nessun sopravvissuto dell’Hotel lo considera un eroe: anzi, secondo molti si è arricchito costringendo i profughi a dargli denaro in cambio della sua protezione.

L'Hotel delle Mille Colline si trova in zona centralissima ed ancora oggi è operativo, confermandosi ogni anno come l'albergo più lussuoso di tutta Kigali. Al suo interno è presente un piccolo monumento a ricordare le vicende passate, ma incredibilmente, tra tutti i nomi che compaiono nella targa, guarda caso manca proprio quello del vecchio manager: colpevole o eroe che sia, si vuole assolutamente cancellare in ogni modo la sua memoria.

Rusesabagina fu arrestato a Kigali nell'agosto del 2020 dopo una sofisticata operazione per attirarlo in trappola in Rwanda dall'esilio negli Stati Uniti. Venne condannato a 25 anni di carcere, ma è stato rilasciato a marzo 2023 dopo diversi mesi di negoziati.

Chi è davvero Rusesabagina? Eroico salvatore come mostrato nel film o approfittatore che ha speculato sulla vicenda? Per quanto mi riguarda, preferisco non espormi e non entrar minimamente nella diatriba, non avendo materiale di discreta affidabilità per valutare il suo operato ed approfondire ulteriormente le tante zone d’ombra. Resta il fatto che in ogni caso, come vedremo più avanti nel capitolo che riguarderà Paul Kagame, chiunque è contro il presidente, o fa una brutta fine, o finisce in galera o viene mediaticamente bruciato.

Nessunissimo dubbio invece sull'operato del grande Pierantonio Costa, console italiano che viveva e lavorava in Rwanda. E' lui probabilmente l'eroe degli eroi di questo genocidio, l'Oskar Schindler italiano, il Giorgio Perlasca in terra ruandese.

Egli, in quegli orribili giorni era in servizio a Kigali; finché possibile rimase nella capitale per poi trasferirsi dal fratello in Burundi vicino al confine, lavorando incessantemente nel tentativo di salvare persone in pericolo, facendo leva sul suo ruolo di diplomatico europeo molto conosciuto e sulla fitta rete di amicizie e connivenze.

Costa utilizzò ogni strumento possibile ed immaginabile, lecito e non, per ottenere permessi di espatrio validi, mettendo in tal modo persone sconosciute sotto la protezione del governo italiano. Entrava clandestinamente nel territorio ruandese per organizzare convogli di salvataggio, pagando e corrompendo innumerevoli volte le milizie ai posti di blocco, mettendo a rischio la sua stessa vita.

Come Oskar Schindler, anche Costa aveva la sua lista di persone da salvare, un elenco che aumentava ogni giorno di più arricchendosi di persone comuni che incontrava per strada. I timbri necessari al lasciapassare li otteneva grazie alle sue conoscenze politiche, mentre nelle decine e decine di posti di blocco che incontrava, ammorbidiva gli ufficiali col machete bello caldo ed insanguinato in mano, offrendo buste ben cicciotte, piene di bei dollaroni. Attenzione, dollaroni non dell'ambasciata o del governo! No, dollaroni suoi!

Al termine del genocidio Pierantonio aveva salvato circa 2.000 persone, tra cui 375 bambini in una sola incredibile operazione da film, perdendo ben 300.000 euro attuali in denaro ed oltre 3 milioni di euro di sue proprietà. Per questo gli hanno dedicato due alberi nel Giardino dei Giusti di Milano e Padova, e venne anche candidato al Premio Nobel per la pace nel 2011. Un grandissimo davvero.

La caratteristica molto frequente dei giusti è quella di esser umili e non vantarsi mai dei propri successi... e Costa non sfuggiva a tale regola. Non aveva mai raccontato a nessuno ciò che aveva fatto, tanto che nemmeno la moglie sapeva molti dettagli sui rischi che aveva corso e sulle sue operazioni così spericolate ed ardite.

Per un buon decennio nessuno seppe nulla di lui, finché un giornalista amico, tal Luciano Scalettari, lo convince con estrema fatica a parlare ed a raccontare tutto, superando ritrosia, discrezione ed umiltà. Per Costa è una sofferenza atroce, non dorme per molti giorni perché i fantasmi tornano alla mente, addirittura i sensi di colpa per non aver potuto far di più... ma dalle sue parole miste a lacrime e singhiozzi nasce il libro "La lista del Console" e qualche anno dopo, l'omonimo documentario diretto da Alessandro Rocca.

Pierantonio dirà:«Ho fatto prima di tutto il mio dovere come console, e dopo ho fatto il mio dovere verso me stesso, verso la mia coscienza [...] La cicatrice che mi rimane dentro è il dubbio che potevo fare di più...».
Purtroppo ci ha lasciati: è scomparso nel 2021 all'età 81 anni.

Pierantonio Costa è la grandissima nota d'orgoglio italiana, insieme a padre Mario Falconi ed Antonia Locatelli dei quali abbiamo già parlato, persone ordinarie e straordinarie allo stesso tempo, che trovandosi improvvisamente di fronte alla barbarie, non si sono girati dall’altra parte ma hanno dato una sconvolgente prova di umanità, coscienza e coraggio, scegliendo di combattere il male a rischio della loro stessa vita.

Il nome Italia nella vicenda Rwanda davvero non poteva essere associato soltanto allo speaker di Radio Machete Georges Ruggiu, per giunta pure convertitosi all'Islam. Grazie Pierantonio, grazie Mario ed Antonia per aver tenuto alto il nome del Bel Paese nella tragedia ruandese. La banalità del bene, parafrasando il famoso titolo del libro di Enrico Deaglio su Giorgio Perlasca.

Storia del genocidio (16): fine della guerra

A proposito, come finì la guerra in Rwanda? Il Fronte Patriottico Ruandese di Kagame, ben finanziato dagli USA e sostenuto militarmente anche dall'Uganda, conquistò gradualmente sempre più territorio entrando a Kigali ai primi di luglio, dove avvennero pesanti scontri con le forze governative, del quale il palazzo presidenziale ancora porta i segni.

Attacco al palazzo presidenziale delle truppe RPF di Kagame: foto presente all'interno del Museo "Campaign against genocide" di Kigali

Il palazzo presidenziale di Kigali oggi, sede del Museo "Campaign against genocide"

Segni dei combattimenti nel palazzo presidenziale di Kigali

Il genocidio dei Tutsi ebbe termine a metà luglio del 1994 (con date ufficiali variabili dal 15 al 19) con la vittoria definitiva dell'RPF. Pasteur Bizimungu e Twagiramungu Faustin divennero rispettivamente presidente e Primo ministro: Paul Kagame fu eletto vice presidente e Ministro della Difesa, ma in pratica diventava di fatto il nuovo imperatore-dittatore del Rwanda.

Le truppe RPF del generale Paul Kagame entrano a Kigali dopo averla conquistata: gigantografia presente all'ingresso del Museo "Campaign against genocide" di Kigali

Giuramento a fine guerra del generale Paul Kagame come vicepresidente e Ministro della Difesa

31 luglio 1994: il generale Paul Kagame discute a fine guerra con il segretario della difesa americano William Perry

Ed a quel punto occorreva far giustizia e perseguire i responsabili delle stragi. Temendo vendette ed il genocidio opposto, due milioni di Hutu, ripeto, due milioni di Hutu, tanto innocenti quanto colpevoli, fuggono verso i paesi confinanti ammassandosi in particolare al confine con il Congo, allora ancora Zaire, aggravando ulteriormente la situazione umanitaria. La città di confine di Goma divenne praticamente un enorme campo profughi, in assoluto il più grande della storia dell'umanità. Decine di migliaia di persone muoiono di stenti e malattie: tra il 22 luglio del '94 ed il primo agosto successivo, un'epidemia di colera provocò la bellezza di 50.000 morti in 10 soli giorni.

Popolazione inerme, civili terrorizzati, Hutu più o meno moderati e complici dei crimini, assassini genocidari con decine se non centinaia di omicidi e stupri alle spalle... tutti insieme in viaggio, oppure ammassati nei campi profughi. Nessuno sapeva se vicino aveva una vittima o un carnefice.

Gli aiuti umanitari e le forze UNAMIR rientrano nel paese e si trovarono di fronte a scene apocalittiche: un milione di morti tra Tutsi ed Hutu moderati in rapporto 4 a 1, quasi tutti ancora per le strade o buttati nei fiumi, impossibili da identificare perché senza documenti ed in avanzato stato di decomposizione con cani randagi che ancora ne rosicchiavano i resti... gente viva ma rassegnata e morta dentro, decine di migliaia di zombies in marcia silenziosa attraversando distese impressionanti di cadaveri dei quali rimangono soltanto ossa, brandelli di carne marcia e vestiti... migliaia di vedove, molte stuprate e diventate sieropositive e 37.000 orfani da assegnare a qualcuno, molti di loro senza più nemmeno un parente in vita... persone mutilate ed impazzite per l'orrore visto, diffusione di malattie quali colera, dissenteria e tubercolosi... E sacrosanto desiderio di vendetta, ma non si sa nemmeno contro chi, perché è impossibile distinguere innocenti da Hutu estremisti, persone comuni da membri delle FAR o delle milizie.

Uno stato morto per sempre. Una catastrofe umanitaria, sociale, sanitaria, psichiatrica, giuridica e chi più ne ha, più ne metta.

Bambini rimasti orfani cercano i propri genitori o parenti: foto presente al Genocide Memorial di Kigali

Tra l'altro molti non lo sanno, ma i massacri dell'Hutu Power sono continuati anche dopo il '94. E' uno degli aspetti meno noti delle vicende Rwandesi. I genocidari ex-FAR ed ex-Interhamwe, ben protetti nel Congo, si riorganizzarono (con il solito aiuto dei francesi) per riconquistare il paese e misero in atto il secondo step del genocidio adottando la tecnica della guerriglia con frequenti ed improvvise incursioni killer oltre il confine. Gli estremisti Hutu modificarono il loro nome prima in ALIR (Army for Liberation of Rwanda) e poi in FDLR (Democratic Forces for the Liberation of Rwanda): sono tutt'oggi ancora attivi in Congo, col il sempre attuale obiettivo di rovesciar Kagame e tornare in Rwanda a "finire il lavoro" e “riempire le fosse”.

Il 18 marzo 1997 i ribelli entrarono nella scuola di Nyange, ne presero il controllo ed ordinarono agli studenti teenagers di separarsi in Hutu e Tutsi. Una ragazzina coraggiosa, Marie Chantal Mujawamahoro, prese la parola dicendo loro: «We are all Rwandans»... Fu immediatamente uccisa con un colpo in testa. Furono assassinati altri 6 ragazzi prima dell'arrivo dei soccorsi dell'RPF a disperdere i killer.

La verità nuda e cruda è che il genocidio Hutu-Tutsi non è mai terminato ed una fitta sequela di disastri è seguita al 1994, con continui tentativi di incursione in territorio ruandese delle ALIR/FDLR e continui assalti da parte dell’esercito di Kagame ai campi profughi congolesi per scovare i genocidari. La lunga scia di sangue si è arrestata oggi in Rwanda solo a causa del pugno duro del presidente, ma ha lasciato una situazione in perenne ebollizione nei paesi confinanti: l'odio razziale è stato trasferito al di là della frontiera ed è stato uno dei principali fattori, insieme alle sterminate risorse minerarie congolesi, della prima e della seconda guerra del Congo (rispettivamente 1996-1997 e 1998-2003), e della guerra civile in Burundi (1993-2005).

La guerra Hutu Tutsi non è mai terminata: si è semplicemente spostata dal Rwanda alle due regioni di confine congolesi del Nord kivu ed Ituri, dove tutt'oggi, anzi, soprattutto oggi, anno 2024, avvengono costantemente massacri impuniti. La costante, ieri come oggi, resta la totale indifferenza dell'opinione pubblica e della comunità internazionale.
Sintesi della sintesi della sintesi per chi si è perso qualcosa: "nu macill". Oggi ancor più di ieri.

Storia del genocidio (17): c'è stata giustizia?

A proposito, qualcuno ha pagato per i crimini commessi? Sì, qualcuno sì, ma non tutti. Purtroppo la giustizia ufficiale ha globalmente fallito. Molti dei più grandi criminali di guerra, come ufficiali e comandanti dell'esercito, ministri e membri di partito del governo Hutu di Habyarimana, giornalisti e propagandisti vari che buttavano benzina sul fuoco, sono rimasti impuniti, scomparsi o ben protetti in qualche paese connivente occidentale (uno a caso... la Francia) o dell'Africa francofona (maddai?) come Gabon, Camerun, Niger, Senegal e Mali. Félicien Kabuga ad esempio, il finanziatore numero uno del genocidio, fu catturato solo nel 2020 proprio in Francia, e tra l'altro nemmeno mai è stato condannato a causa di presunti problemi di salute. Poverino, a forza di comprar machete in Cina ha sviluppato una terribile malattia neurologica! O forse questa è dovuta al siero genico ad mRna, chissà!

Molti sicari sono morti all'estero, seppelliti sotto falso nome e dimenticati per sempre. Molti altri sono ancora in vita, fuggiti in Congo, dove, ben nostalgici di teste mozzate e crani fracassati, continuano ad ammazzare nella totale impunità.

Inutile dirlo poi, nessuno dei colletti bianchi newyorkesi in giacca e cravatta è stato minimamente mai sfiorato dalla minima indagine: loro erano i primi responsabili da perseguire, da metter in carcere per poi buttare la chiave nella fossa delle Marianne, perché stavano banchettando a base di caviale e champagne sapendo che in quel momento dei feti venivano estratti col machete dai ventri gravidi delle donne e sbattuti contro i muri.

Il fallimento giuridico del genocidio ruandese è paragonabile se vogliamo a quello di Norimberga per la Shoah... Eh già, dovete sapere che dopo la fine della seconda guerra mondiale furono condannati pochissimi ufficiali nazisti, i pesci piccoli, mentre gli squali più grandi riuscirono a fuggire all'estero e riciclarsi in posizioni chiave della NATO e dell'UE, entrambe le quali dunque hanno genesi di origine nazista. Bene, in Rwanda, più o meno è andata allo stesso modo: pochi assassini del genocidio ruandese hanno pagato con le sbarre, i più l'hanno fatta franca.

Ma d'altronde non poteva che esser così: la giustizia internazionale si ispira al giusto valore di “innocenza fino a prova contraria” e qui c'erano da giudicare centinaia di migliaia di persone in pochissimo tempo, con prove attendibili difficilissime da raccogliere. Un'operazione oggettivamente faraonica, oltreché delicatissima, perché spesso il confine tra bene e male è estremamente sottile: come sapere se un Hutu ha collaborato o meno con le milizie? Come quantificare il suo livello di coinvolgimento ed indifferenza nelle stragi? Il rancore ed il desiderio cieco di vendetta a volte portava anche i superstiti, tra l'altro persone con profondissimi traumi psicologici e psichiatrici, ad accusare alla cieca persone moderate che nulla c'entravano con i massacri!

E così l'ICTR, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, che si insediò nel maggio del 1995 ad Arusha in Tanzania per poi sciogliersi a fine 2015, delle decine di migliaia di assassini, in 10 anni riuscì a condannare dopo lunghi, complessi e costosi processi, soltanto una ventina di persone, concentrandosi per forza di cose sui nomi grossi, sugli alti funzionari dell'ex regime, sui propagandisti, oppure su casi clamorosi e mediaticamente interessanti.

Tra i grandi successi del tribunale, indubbiamente i nomi di Seromba, Valérie Bemeriki e Georges Ruggiu (ergastolo per lei, 12 anni per l'Hutu bianco), Hassan Ngeze (condannato a 35 anni di reclusione), il colonnello Bizimungu (30 anni di gattabuia per lui), Leòn Mugesera e Théoneste Bagasora, condannati entrambi all'ergastolo. La mente del genocidio, dopo le mattanze provò a rifarsi una vita in Camerun, ma fu lì arrestato nel 1996 e trasferito in aereo ad Arusha per affrontare il processo, che iniziò nel 2002 e terminò solo 5 anni dopo: fu dichiarato colpevole oltreché di stragi e crimini contro l'umanità, anche dell'uccisione dei 10 caschi blu belgi, del primo ministro ruandese e del capo della Corte costituzionale.

Una modalità di giustizia che invece ha funzionato alla grandissima, per la sua immediatezza, rapidità e totale assenza di burocrazia, è stata quella popolare: all'interno del Ruanda, sono stati istituiti a partire dal 2000 dei tribunali comunitari noti come "gacaca", per accelerare il processo contro le centinaia di migliaia di sospetti genocidari. Questi, se ritenuti colpevoli, venivano condannati a lavori duri ma socialmente utili, con importanti sconti di pena se ammettevano pubblicamente le proprie colpe e rivelavano dettagli ed informazioni utili ai familiari delle persone scomparse, come posizione delle fosse comuni, modalità di uccisione etc...

Un tribunale gagaca in discussione: Foto di Scott Chacon from Dublin, CA, USA - Licenza CC BY 2.0

Questi tribunali hanno così avuto un ruolo chiave e decisivo nel processo di riconciliazione della popolazione perché una buona metà dei carnefici hanno in qualche modo pagato e molti di loro si sono pentiti, chissà se per convenienza o per grazia divina. Per oltre un decennio 12.000 gagaca si sono riuniti una volta alla settimana nei villaggi di tutto il paese, all'aperto, spesso semplicemente sotto un albero, analizzando più di 1 milione di casi e condannando oltre 120.000 persone: essi hanno rappresentato senza dubbio il più grande programma di giustizia di guerra della storia dell'umanità.

Un pentito di fronte alla corte di un tribunale gagaca: foto scattata il 21 luglio 2006 da Elisa Finocchiaro (Licenza CC BY-NC 2.0)

Opinione personale, ogni qual volta queste forme di giustizia popolare sono state introdotte, hanno sempre riscosso enorme successo perché il popolo si è sentito parte attiva dello stato: una cosa simile ad esempio la fece anche Thomas Sankara con i tribunali del popolo che giudicavano i politici colpevoli di appropriazioni indebite, corruzione e malaffare. Questi tribunali popolari a mio avviso, rappresentano la forma di giustizia migliore che può esistere, che in un paese civile dovrebbe sempre affiancare quella ufficiale, inevitabilmente burocratizzata, corrotta dal potere e mai totalmente indipendente.

Storia del genocidio (18): riconciliazione possibile?

Come può un popolo riprendersi da una tale inimmaginabile tragedia, in cui si sono trucidati a vicenda amici di sempre e parenti? Sicuramente non con la vendetta, perché sangue chiama altro sangue e ci si continuerebbe scannare per secoli in mattanze senza fine. Uniche strade possibili sono il dialogo, la comprensione delle ragioni profonde che hanno portato ad una tale escalation di odio e violenza, il perdono cristiano che idealmente dovrebbe seguire la sacrosanta giustizia terrena... tanto a quella divina non si scappa: la bilancia di San Michele Arcangelo per la pesatura delle anime nel giudizio finale è sempre ben tarata.

E poi il tempo, tanto tempo, che inevitabilmente affievolisce i ricordi nelle generazioni successive: i giovani infatti non hanno memoria storica di quanto successo, non hanno vissuto sulla propria pelle gli orrori del genocidio e vivono una connessione con i massacri solo in quanto figli o familiari delle vittime. Sono proprio i numeri oggi che aiutano la riconciliazione: l'80% buono dei ruandesi è nato prima del 1994. E proprio su questo fa leva il governo di Paul Kagame: ogni tentativo di resuscitare il problema viene ferocemente schiacciato sul nascere, anche con metodi autoritari e poco democratici perché le nuove generazioni non devono esser contaminate dal vecchio odio etnico. Ci si aiuta anche con il cinema, con le soap operas pompate mediaticamente dalla stampa, che acquistano un ruolo importante nell'educare i giovani al “never again”, al “mai più”.

La distinzione Hutu-Tutsi, non è più menzionata su alcun documento personale, segno di un taglio netto con il passato. E tutti ma proprio tutti, politici, giornalisti e gente comune, evitano come la peste di pronunciarne i nomi. Nella settimana ruandese non mai ho sentito nominare Hutu e Tutsi, come se le persone avessero paura di aprire una ferita ancora sanguinante, e si avesse paura del proprio lato bestiale che potrebbe far scatenare sentimenti di vendetta. Ho provato una volta ad accennare le parole innominabili e mi hanno fulminato con lo sguardo. L'argomento è tabù e viene resuscitato solamente una volta all'anno in occasione della memoria, “Kwibuka” in ruandese, quest'anno particolarmente intensa soprattutto al memorial di Kigali, ricorrendo il trentennale: una settimana di lutto nazionale e di 100 giorni di commemorazione, che sono partiti il 7 aprile, data di avvio dei massacri, e sono terminati proprio oggi, giorno della mia visita al memorial.

Esterno del Genocide Memorial di Kigali con i fiori depositati per le celebrazioni del trentennale

Se però per i giovani le cose sono indubbiamente più facili, per adulti ed anziani le ferite sono ancora enormi e potenzialmente pronte ad esplodere. Oggi per molti ultraquarantenni, vivere in Rwanda vuol dire spesso vivere a fianco di chi ti ha violentato, di chi ha squartato in due la propria madre o ammazzato i propri figli. Il perdono diventa l'unica via possibile, difficilissimo me ne rendo conto. Ma non ci sono alternative se si vuole evitare di tornare ad scannarsi.

Umanamente è impossibile perdonare chi ha brutalmente ucciso il tuo figlioletto piccolo. Lo capisco benissimo, io non ce la farei. L'unico modo realistico per superare una follia di questa portata è avvicinarsi a Dio, scavalcare la limitata e fragile materia terrena ed entrare nel trascendente. Un atto di questa portata richiede necessariamente l'intervento divino.

Nel documentario che segue, una donna ricorda quei terribili giorni, in cui hanno cercato di ucciderla a colpi di machete e le hanno amputato una mano; cadendo ha visto sua figlia tagliata in due parti. Incredibilmente incontra il proprio carnefice pentito, già giudicato da un gagaca, condannato al carcere ed a lavori socialmente utili. Al primo colloquio sviene, i ricordi sono troppo forti ed intensi... ma con il tempo riesce a perdonarlo, stabilendo con lui un rapporto positivo e costruttivo. Sì, soltanto la mano del buon Dio può riuscire in ciò che per l'uomo è assolutamente impossibile.

Il paese è uscito dal genocidio, il processo di riconciliazione è in stato avanzato, ma la realtà è che le ferite sono ancora enormi. Sembrano chiuse e rimarginate, addirittura invisibili ad una vista superficiale. Ma frequentemente si riaprono e cominciano a sanguinare copiosamente: nella stagione delle piogge, verso marzo-aprile l'abbondante acqua erode gli argini dei fiumi, penetra nel fango, scava solchi nella terra color sangue... e dalle foreste, dalle paludi, dai terreni agricoli, dai bananeti, dalle mille colline del Rwanda emergono i fantasmi del passato. Centinaia di corpi riaffiorano ogni anno e vanno a riempire i traboccanti ossari dei vari memoriali sparsi per il paese: teschi, femori, vestiti strappati, brandelli umani, senza alcuna certezza tra l'altro che quei crimini siano avvenuti in quei 100 giorni... sicuramente anche prima e molto probabilmente, anche dopo.

Nonostante i fantasmi del passato oggi il paese è in uno stato di quiete e calma apparente per via della stabilità politica, della crescita economica e del generale senso di ordine, rispetto delle regole, pulizia e sicurezza.

Mai però abbassare la guardia: i sentimenti di rancore e diffidenza ci sono ancora, eccome se ci sono ancora. Oggi sono solo nubi nere lontane, appena visibili in un cielo globalmente sereno. Ma si sa, le previsioni meteo obbediscono alla teoria del caos ed una nuova tempesta potrebbe davvero esplodere a causa del battito d'ali di una farfalla Hutu oltre confine: i genocidari fuggiti in Congo hanno ancora il machete caldo ed aspettano solo il momento giusto per rientrare in patria e terminare un "lavoro" che considerano mai concluso.

Storia del genocidio (19): Paul Kagame, la soluzione o il problema?

Ok, la storia (ufficiale) del genocidio è più o meno terminata. A proposito, ricordate cosa avevo scritto nell'introduzione di tale post? Sono atterrato in Rwanda proprio nel giorno dell'elezione del presidente della Repubblica. Sapete chi erano i tre candidati? Paul Kagame, Paul Kagame ed infine... Paul Kagame. No, non è un caso di omonimia... E' ancora lui, il comandante del Fronte Patriottico Ruandese che conquistò Kigali nel 1994. Ancora lui, sempre lui, dopo ben 30 anni. Con percentuali bulgare di consenso in tutto il paese.

Ruandesi al voto a Kigali il 15 luglio 2024

Puntura di spillo fatta a chiunque ha già votato per impedirgli nuovo voto

15 luglio 2024, ore 21.00: sono in un bar a sorseggiare birra con i locali per vedere exit pool e risultati finali. A notte fonda arriva il verdetto definitivo: Paul Kagame (e chi sennò dei 3?) vince con il 99,6% delle preferenze e dunque sarà nuovamente il leader maximo del paese per altri 7 anni. E' così praticamente fin dal 1994: dopo il genocidio e l'ingresso trionfale a Kigali, egli dapprima accettò ruolo di ministro della difesa e vicepresidente per poi esser eletto nel 2003 e rieletto nel 2010; nel 2017 grazie a modifiche costituzionali che gli consentono di governare potenzialmente fino al 2038, rivinse il suo terzo mandato col il 76% dei voti, percentuale addirittura bassa se confrontata con il plebiscito attuale.

Clamoroso risultato finale delle elezioni ruandesi del 15 luglio 2024

Tutti e dico tutti i ruandesi che sono nel bar urlano di gioia deridendo gli altri due candidati che hanno ottenuto lo zero virgola. Se mi è stata chiarissima una cosa nella mia settimana di permanenza in Rwanda, è che il consenso di Kagame a livello nazionale è unanime ed universale: tutto il popolo lo ama e si identifica totalmente in lui tanto che è frequentissimo vedere persone che lo hanno come immagine di sfondo nel cellulare o nel pc. Kagame è adorato e venerato come un Dio.

Il suo successo politico nazionale e l'altissima reputazione internazionale sono dovuti principalmente alla radicata convinzione nel popolo ed anche all'estero che sia colui che ha arrestato la carneficina del '94 e sia l'artefice della rinascita e della democrazia. Secondo tutti è un uomo di carattere e di forte carisma, che è riuscito a ricompattare la nazione azzerando il desiderio di vendetta nella popolazione ed evitando un'altra guerra civile, puntando tutto su riconciliazione etnica post genocidio, crescita economica, modernizzazione del paese, benessere sociale, ingenti investimenti in sanità, istruzione ed ambiente. Kagame ha salvato il Rwanda, dunque merita pienamente di diventare Presidente e rimanerlo finché sarà in vita.

In realtà ciò che non torna di tutta questa vicenda ed insospettisce un pochettino, è proprio il sostegno così totale, radicale ed incondizionato della popolazione, senza alcuna voce fuori dal coro, sintomo di evidente presenza di spin doctors dell'informazione e propaganda: una versione dei fatti incontrastata è sempre sintomo di un’imposizione esterna. D'altronde, quando cervelli diversi pensano tutti allo stesso modo, vuole dire probabilmente che in realtà nessuno di essi sta pensando in autonomia.

E difatti in Rwanda, la propaganda governativa è fortissima. Kagame si è sempre presentato come il messia salvatore che ha conquistato Kigali e sconfitto i genocidari: tale storia è difesa con le unghie dal suo governo, interiorizzata dal popolo ed accettata da tutti i capi di Stato del mondo che con Kagame scendono a patti.

Kagame ha addirittura dedicato un intero museo a questa narrativa. E' il museo "Campaign against genocide" nello stesso palazzo presidenziale. In una successione di sale piuttosto buie si narrano, con pannelli esplicativi e foto d'epoca, le varie tappe della guerra, le zone conquistate, i ponti ricostruiti, le operazioni di riscatto allo stadio Omahoro e all'Hotel delle Mille Colline, alcuni salvataggi incredibili come quello in un pozzo di Kiziguro profondo 40 metri, dove gli Hutu gettarono persone mezze vive e mezze morte ed i soldati Tutsi estrassero ancora in vita 12 persone che poi sopravvissero, posso solo immaginare con quanti e quali profondi traumi. Salendo all'ultimo piano dell'edificio è possibile anche vedere sui muri i tanti fori di proiettile delle mitragliatrici durante gli scontri FAR-RPF per la conquista del potere. Il museo è essenzialmente l'apoteosi di Paul Kagame e dei suoi eroici soldati del Fronte Patriottico.

Ma chi è davvero Kagame? E come è andata davvero la storia? Possibile che in questa orribile tragedia ci siano stati solo cattivissimi (gli Hutu) e buonissimi (i Tutsi)? Tutto bianco o nero? Nessuna sfumatura ammessa? Davvero gli Hutu squartavano e stupravano mentre i Tutsi delle RPF di Kagame erano santarellini angelici, magari anche lettori di Kant come i battaglioni Azof ucraini nazisti (secondo quei buffoni di Repubblica)?

Paul Kagame è il figlio della diaspora del 1959, cresciuto in un campo profughi ma comunque membro di una ricca famiglia rifugiatasi in Uganda: ha avuto dunque la possibilità di formarsi nelle scuole militari del Kansas negli Stati Uniti dove ha conosciuto le persone giuste che poi lo hanno usato per i propri obiettivi. E' un uomo del sistema, rispettato dai potenti, invitato costantemente al WEF di Davos, amico di tutti i presidenti inglesi ed americani, amico ed estimatore dei vari Soros e Bill Gates, i quali non mancano mai occasione di far apprezzamenti entusiasti e positivi su di lui: evidentemente è sempre ben ligio al compitino.

Kagame è anche un incredibile campione di equilibrismo internazionale, abilissimo nel metter d'accordo un po' tutti. Fortissimi sono stati sempre i suoi legami con i paesi occidentali, UE, USA in primis, molto meno con la Francia perché l’eredità del genocidio rende complicate le relazioni con Parigi. L'UE è pappa e ciccia con Kagame: girando per Kigali ho visto tanti uffici con l'orribile bandiera blu europea esposta, cosa che non mi è capitato di vedere in nessun'altra città africana. L'asse Kagame-Washington è solidissimo, ed anche quello con Londra funziona benone: pur non essendo una ex colonia britannica, la lingua inglese è stata aggiunta alle altre lingue ufficiali e nel 2009 il Rwanda è stato ammesso nel Commonwealth. Recentemente il rapporto tra le 2 nazioni è stato molto seguito dai media a causa di un controverso progetto di accordo per il trasferimento di migranti irregolari africani dalla Gran Bretagna al Rwanda, in cambio di un gran bel gruzzoletto. Non solo occidente però: anche i paesi dei BRICS, Cina e Russia in particolare, sono ottimi partner commerciali del Rwanda.

A livello locale invece, il Burundi è tendenzialmente alleato di Kinshasa, dunque abbastanza ostile a Kagame; con l’Uganda i rapporti sono complicati ed altalenanti, mentre la Tanzania è un partner chiave visto che la quasi totalità delle importazioni ruandesi transitano dal porto di Dar Es Salaam.

Paul Kagame con il più grande guerrafondaio della storia d'America, Barack Obama e sua moglie Michelle (Metropolitan Museum di New York, settembre 2009)

Paul Kagame con uno dei più grandi guerrafondai della storia d'America, Joe Bidet (la t non è un errore) e sua moglie che non so (e non voglio sapere) come cazz si chiama (Casa Bianca, dicembre 2022)

Kagame è un personaggio estremamente discusso e controverso, ambiguo, rancoroso e pieno di sé, desideroso di primeggiare in qualsiasi cosa o idea; è un uomo di rigore e disciplina, estremamente intransigente e totalmente privo di empatia, per il quale i risultati giustificano qualunque mezzo. Pieno più di ombre che di luci. Temutissimo dai suoi avversari politici ed anche molto violento: è stato accusato ad esempio da ex collaboratori di percuotere personalmente i membri del suo staff, con manganelli o a mani nude, quando qualcosa non è di suo gradimento.

Detiene il potere con la forza, reprime ferocemente il dissenso, sostiene gruppi di guerriglieri che in Congo compiono massacri di civili e controllano militarmente le zone di estrazione dei preziosi metalli.

Paul Kagame con il presidente dello Zambia Hakainde Hichilema (Zambia, aprile 2022)

Paul Kagame alla 45-esima conferenza dei capi di Stato della regione caraibica (luglio 2023)

Ma soprattutto, la storia è davvero andata come la racconta il vincitore? Non è che la sua versione degli avvenimenti è parziale e di parte? I dubbi sull’accaduto ieri, sulla sua condotta da presidente oggi e sui rapporti con le potenze Occidentali ieri ed oggi, in effetti sono davvero tantissimi.

Come spesso accade, l'informazione mondiale ha bisogno di dividere gli schieramenti belligeranti in buoni e cattivi; chi sono poi i buoni ed i cattivi, questo dipende solo da scelte di convenienza politica, strategica, o commerciale. Nella vicenda ruandese, di buoni non ce ne sono stati proprio.

I genocidari ovviamente non si commentano: sono demoni degli inferi che si sono macchiati dei crimini più ripugnanti. Ma anche i combattenti dell'RPF non erano santi angelici lettori di Kant! Hanno ucciso indiscriminatamente migliaia di civili Hutu mentre prendevano il potere, ed tanti altri dopo essere entrati nella Repubblica Democratica del Congo, sia per controllare militarmente una zona ricchissima di risorse, sia per inseguire le milizie Interahamwe in fuga che si nascondevano nei campi profughi: proprio lì sono avvenute carneficine orribili, con le truppe RPF che hanno messo in atto una vera e propria contro pulizia etnica. Le Nazioni Unite scoprirono (da rapporto Mapping) oltre 600 zone di massacri oltre confine: se 1 milione fu il numero di morti del genocidio ruandese, 5 volte tanti furono quelli che seguirono all’invasione del Congo!

Ma senza sconfinare oltre frontiera e rimanendo al Paese delle mille colline, si stima che qui siano stati uccisi da aprile a luglio ben 200.000 Hutu moderati. Possibile che tale numero sia attribuito solamente all'azione degli Hutu radicali? Possibile che abbiano preso a massacrarsi anche tra stessa etnia? Non avrebbero così scatenato un onda di ribellione interna autodistruttiva? Bene, moltissimi studiosi credono che tale numero sia dovuto soprattutto all'avanzata dell'RPF che uccideva indiscriminatamente tutti gli Hutu che incontrava. Molti studiosi sostengono che le truppe di Kagame giungevano nei luoghi dei massacri sempre e solo immediatamente dopo che la carneficina era stata compiuta e dunque non hanno mai fermato il genocidio, non hanno mai salvato delle vite Tutsi. Diversi testimoni che hanno assistito all’avanzata dei soldati di Kagame affermano che ciò che in realtà l’RPF faceva, era uccidere tutti gli Hutu che incrociavano, militari e civili, colpevoli ed innocenti, e che anche le Nazioni Unite ne erano al corrente. Il vero scopo di Kagame, era conquistare il potere, ripristinare il dominio Tutsi pre indipendenza e sterminare più Hutu possibili.

E poi, in merito all'omicidio di Habyarimana, davvero il missile che ha originato il pandemonio è partito dalle milizie Hutu? La logica dice di sì, perché alle milizie serviva il casus belli per aprire le danze, ma la verità è che nessun tribunale ha mai cercato di individuare e perseguire gli autori materiali dell’attentato: ogni tentativo in tale direzione ha sempre subito un forte ostruzionismo da parte degli USA, come se i servizi statunitensi sapessero bene che l’attentato non era stata opera di estremisti Hutu e volessero insabbiare la verità.

Nel 1998, a seguito delle richieste dei parenti delle vittime che si trovavano su quell'aereo, si riuscì però ad aprire un'inchiesta ufficiale e sembra che le prove raccolte inchiodavano la controparte in modo schiacciante: ad esempio Faustin Kayumba Nyamwasa, ex pezzo grosso dell'RPF, davanti al giudice e sotto giuramento, sostenne a Johannesburg, dove era scappato sentendosi minacciato di morte, di aver partecipato alle riunioni in cui Kagame pianificò ed ordinò l'uccisione di Habyarimana, quale prima mossa per prendere il controllo del paese.

Furono proprio i massacri dell'RPF, tanto in Rwanda quanto in Congo, a convincere Nyamwasa, fino a quel momento fedele comandante dell'esercito di Kagame, a disertare e a confessare gli orrori commessi: da allora è sopravvissuto a 4 tentativi di omicidio e rimane il nemico N. 1 del presidente ruandese, da uccidere ad ogni costo. Uno dei suoi killer è stato addirittura preso ed ha confessato di esser stato assoldato da Kagame. Chissà per quanto tempo ancora riuscirà a scamparla!

All'ex colonnello dell'esercito Tutsi Patrick Karegeya, che sosteneva di esser in grado di provare il luogo da dove il missile era stato lanciato da Kagame il 6 aprile 1994, invece è andata decisamente peggio: fu trovato strangolato nella sua camera di un hotel di Johannesburg il primo gennaio 2014.

Fu ampiamente dimostrato inoltre, che l'esercito ruandese delle FAR non disponeva assolutamente di questo tipo di missili portatili a corto raggio, dei SA-16 di fabbricazione sovietica, che invece erano nelle mani del Fronte Patriottico.

Ora, è vero che il genocidio dei Tutsi era stato già preparato da tempo dagli Hutu e si aspettava solo il casus belli... dunque sarebbe avvenuto comunque, attentato o no... però è anche vero che un tale sconvolgente scenario implica una indubbia responsabilità di Kagame nel massacro della sua stessa etnia. Davvero Kagame allora fu il salvatore della patria? Non è per caso che è proprio lui, con l'appoggio dell'alleato americano, che ha scatenato il genocidio fornendo agli Hutu il casus belli? Non è per caso allora che in questa storia sono tutti colpevoli? Colpevole l'RPF di Kagame col sostegno americano, colpevoli gli Hutu genocidari di Habyarimana col sostegno francese, colpevole l'ONU e tutto il mondo per il suo vergognoso “cazzocenefreghismo”?

Vietato però indagare e metter in discussione la versione ufficiale della storia: chi l'ha fatto, accusando Kagame di crimini di guerra è sparito dalla circolazione. O morto ammazzato, o ricattato e silenziato, o destituito dall'incarico, come accaduto anche al super magistrato svizzero Carla Del Ponte, accusata di rallentare il processo deviando l'attenzione di stampa ed opinione pubblica verso un filone con poche prove e soprattutto ostile agli americani.

Altro tema di grande interesse sul quale Kagame non fa una bella figura, è la libertà di opinione e stampa oggi in Rwanda, davvero limitate secondo diverse ONG quali Human Rights Watch, Amnesty International e Freedom House. La crescita economica del Paese è innegabile, ma è stata sempre accompagnata da una forte limitazione delle libertà personali dei cittadini. I metodi dello spilungone Paul sono repressivi ed intimidatori: tutti sanno che esiste una linea sottile da non superare. Il Rwanda è di fatto una nazione a partito unico con la democrazia che esiste solo sulla carta; l'opposizione non ha spazio e non viene tollerata, le manifestazioni di dissenso sono fortemente represse; nei media nazionali domina il punto di vista governativo e ci sono sempre più denunce e testimonianze attendibili su cittadini trattenuti illegalmente in custodia militare o in altri centri di detenzione non ufficiali.

In generale basta avere opinione diversa da quella governativa o metter in dubbio anche una minima parte della ricostruzione fornita dal Presidente di quei terribili 3 mesi del 1994 per avere un qualche problema, più o meno forte, ed esser accusati di "revisionismo storico" o “negazione del genocidio”, con una pena di diversi anni di carcere. Proprio questa è l’arma più potente con la quale il regime di Kagame si assicura che la versione del governo sia l’unica presente perché qualsiasi voce fuori dal coro è tacciata di "incitamento all'odio etnico" ed "ideologia genocidaria", scusa eccellente ed incontestabile per bloccare qualsiasi avversario politico. Kagame si difende molto facilmente dalle accuse dicendo che «si pongono limiti alla libertà di espressione proprio come l’Europa ha vietato e reso un crimine la negazione dell’Olocausto». E così Kagame rimane totalmente immune dalle accuse che provengono dall’interno del suo Stato.

Gli oppositori più radicali e potenzialmente pericolosi finiscono o sottoterra o in carcere. Basti pensare al caso di Victoire Ingabire Umuhoza: la sua candidatura alle presidenziali dopo un esilio di oltre 10 anni in Olanda, si è trasformata in una condanna a 15 anni di prigione, in quanto accusata, senza ovviamente uno straccio di prova, di star pianificando un colpo di stato. La sua condanna è stata ridotta a 5 anni, è stata rilasciata nel 2018 ma senza il permesso di lasciare il paese per poter almeno riabbracciare i suoi cari in Europa.

Molti critici di Kagame hanno incontrato morti inspiegabili, non solo nel paese ma anche all'estero: diversi dissidenti sostengono che esiste una rete di intelligence internazionale e di assassini al suo servizio, sparsi ovunque in tutto il mondo.

Nelle mire del presidente ci sono ovviamente anche i giornalisti non allineati: se si scrivono articoli critici verso il governo nel migliore dei casi si è condannati a svariati anni di prigione, come ad esempio è successo alle due giornaliste Agnes Uwimana Nkusi e Saidati Mukakibibi. Nel peggiore dei casi invece si finisce a far da concime ai vermi, come accaduto a Jean Leonard Rugambage nel 2010, assassinato in macchina perché aveva pubblicato un articolo sul tentato omicidio del principale dissidente accusatore di Kagame, ovvero Nyamwasa. Il direttore del giornale accusò il governo ruandese dell'assassinio del suo dipendente: apriti cielo! Dovette fuggire in Uganda e la sua rivista venne chiusa e decretata fuorilegge. Continuamente vengono uccisi giornalisti nel paese delle mille colline, che difatti occupa costantemente insieme ad Eritrea, Gibuti, Egitto e Somalia le ultime posizioni nella classifica della libertà di stampa dei paesi africani.

In Rwanda, a Kigali soprattutto, molti (me compreso) dicono di sentirsi continuamente osservati, come se ci fossero occhi ed orecchie invisibili dappertutto. Chissà invece che non siano visibilissimi... penso ad esempio a quei totem neri disseminati un po' ovunque: magari lì dentro c'è un Grande Fratello che vede ed ascolta, spia e controlla tutti i cittadini!

Domanda: se il regime è così spietato e totalitario, come si giustificano i plebisciti ottenuti alle elezioni? Semplicissimo: propaganda, intimidazione dell'opposizione e brogli elettorali. Sulla propaganda c'è poco da dire: l'informazione è tutta in mano al governo che ne controlla ogni virgola, e quella indipendente viene silenziata e screditata. Quanto all'intimidazione, basterà dire che nelle elezioni del 2010, quando Paul vinse con il 93% dei voti, l'opposizione era stata azzerata: nessuno dei 3 leader dei 3 principali partiti d'opposizione si presentò, in quanto due di essi vennero spediti in carcere, mentre il terzo scappò dal paese a seguito della decapitazione in riva ad un fiume del suo vice.

Diversi testimoni hanno anche giurato in passato che venivano stracciate le schede elettorali di chi non votava per Kagame. Io francamente avendo assistito alle elezioni, posso confermare che il clima non era affatto sereno. Ho chiesto in qualità di “blogger europeo” di poter visionare aule ed urne, far foto e raccogliere opinioni nelle persone. Manco avessi chiesto la luna! Dopo ripetuti incontri fra loro, telefonate a superiori, documenti miei temporaneamente sequestrati e quant'altro, hanno acconsentito. Mi hanno messo però una persona alle calcagna a controllare ogni mia mossa, permettendomi di scattare solo un paio di foto all'esterno del seggio, senza poter entrare, né visionare lo spoglio, né tantomeno intervistare alcuno. Ed in tutto il tempo della mia permanenza ho notato una certa tensione, ansia e preoccupazione nei controllori presenti.

Chissà che anche io non sia stato schedato da Kagame! Hanno mio nome, cognome e sito web... Vabbè, che tutti sappiano che non ho fatto del male a nessuno, nessuno mi vuole morto né mi voglio suicidare perché amo la vita e la mia vita. Se dovesse accadermi qualcosa di strano, fate una telefonatina a Paul ed i suoi squadroni della morte per chiedere spiegazioni.

Riassumendo dunque, alla domanda "chi è Kagame?", fornisco 2 risposte: la prima politicamente corretta, adatta per esempio a bambini sensibili, ai membri del PD ed a persone che (come i membri del PD) credono a qualsiasi puttanata del mainstream (di proprietà del PD); la seconda, più logica e probabile, indirizzata a soggetti pensanti e dotati di minimo intelletto e spirito critico (probabilmente non del PD).

Versione N.1: Kagame ha vinto la guerra, ha arrestato il genocidio e fatto rinascere un paese raso al suolo. I paesi stranieri lo sostengono perché è un modello di democrazia e lealtà. In Rwanda è illegale parlare di etnia perché le ferite del conflitto sono ancora profonde e questo serve a prevenire discorsi di odio e altri spargimenti di sangue.

Versione più probabile N. 2: Paul Kagame, è uno spietato dittatore dal volto buono, il classico lupo travestito d'agnello ben protetto a livello internazionale dalle multinazionali occidentali; è un assassino, né più ne meno degli Hutu genocidari, che impedisce un serio dibattito etnico nel paese per evitare che i crimini commessi dai Tutsi vengano a galla. La sua è una durissima dittatura militare oramai trentennale con controllo totale e totalitario dell'informazione, che sostiene i guerriglieri M23 del Kivu e dell’Ituri, i quali controllano le miniere dei preziosissimi minerali che poi transitano a Kigali, facendone il centro mondiale del commercio di oro, diamanti e coltan depredati nella giungla del Congo. I paesi più ricchi, UE ed USA in primis, supportano San Kagame da Kigali perché hanno bisogno come il pane di queste risorse.

Io propendo per la seconda, che tra l'altro è anche confermata da diversi rapporti ONU. Anche se mi resta un dubbio dopo la mia settimana ruandese: chissà che oggi il pugno duro di Kagame non sia davvero per il Rwanda il male minore! Senza giustificare i suoi crimini ed i suoi metodi, forse se non ci fosse lui, l'odio uscirebbe nuovamente fuori con violenza inaudita e le persone tornerebbero ad ammazzarsi a vicenda... forse è necessaria oggi una feroce dittatura perché serve tempo e devono passare almeno un paio di generazioni per affievolire ed annacquare il ricordo dell'orrore che fu. Non lo so. Si accettano volentieri commenti da persone esperte in materia.

Storia del genocidio (20): da un genocidio (Rwanda) all'altro (Congo)

E' opinione comune che la guerra tra Hutu e Tutsi sia terminata a metà luglio con la conquista di Kigali da parte di San Paul Kagame. Niente di più sbagliato. La guerra si è semplicemente trasferita dal Rwanda al Congo e tornata immediatamente nel dimenticatoio internazionale.

Il genocidio ruandese provocò a partire da metà luglio del 1994 un esodo di massa verso Goma, città congolese sulle sponde del lago Kivu, situata proprio al confine, dunque assai vicino a Kigali. Ben 2 milioni di profughi si rifugiarono in un territorio bellissimo e maledetto allo stesso tempo. Bellissimo, perché quella regione regala paesaggi a dir poco strepitosi con grandi laghi, alte montagne e foreste pluviali impenetrabili, dove si nascondono dagli assalti dei bracconieri gli ultimi gorilla di montagna. Maledetto, perché possiede due caratteristiche "esplosive" che inesorabilmente lo condannavano (e lo condannano tuttora) al conflitto perpetuo: innanzitutto in quella zona si erano attestate storicamente popolazioni della minoranza Tutsi che ora si vedono circondate da centinaia di migliaia di disperati Hutu tra cui moltissimi assassini e membri delle milizie genocidarie; e poi quell'area è ricchissima di risorse naturali, come petrolio e gas, diamanti, oro, uranio, stagno, cobalto e soprattutto minerali preziosissimi per l'economia verde e digitale come il coltan, abbreviazione di columbite–tantalite, una miscela di Ferro, Manganese, Niobio e Tantalio, indispensabile per la fabbricazione di dispositivi elettronici, materiale per le energie rinnovabili e l'elettronica di consumo, smartphones in primis. Pensate che ben l’80% del coltan mondiale viene oggi estratto illegalmente nella parte orientale del Congo, in modo assolutamente artigianale e clandestino essendo questo l'unico mezzo di sussistenza per la popolazione.

E così Paul Kagame, che stupido non è, vinta la guerra in Rwanda, estese la sua politica al Congo. Utilizzò il pretesto della fuga dei genocidari per invadere l'area, ottenerne il controllo ed uccidere sistematicamente i rifugiati, assassini o innocenti non faceva alcuna differenza. Ben presto così rifiorì l’odio razziale che portò alla proliferazione di numerosi gruppi armati e milizie terroriste dall’una e dall’altra parte. Gli scontri tra queste, tra l’esercito regolare congolese e le truppe dei Paesi confinanti inevitabilmente coinvolti, hanno dato origine alle cosiddette due guerre del Congo in cui odio etnico e forti interessi economici si sono strettamente intrecciati in un abbraccio mortale, causando non meno di 5 milioni di morti e ben 7 milioni di sfollati.

La guerra congolese è terminata nel 2003, ma solo ufficialmente perché continuamente ci sono state riprese delle ostilità intervallate da fragilissime tregue. La tensione tra RDC (Repubblica Democratica del Congo) e Rwanda è tornata a salire prepotentemente negli ultimi due anni, fino ad una decisa escalation di morte nei primi mesi del 2024. Oggi la situazione vicino Goma è catastrofica, molto simile a quella ruandese di 30 anni fa, ed esattamente la stessa di quella che portò alle due guerre del Congo. Nulla è cambiato: agli ex genocidari ruandesi Hutu riuniti oggi sotto il nome di FDLR, si contrappongono i guerriglieri dell'M23 sostenuti e finanziati da Kagame.

Questi ultimi, ufficialmente avevano ed hanno tuttora il compito di scovare gli assassini Hutu del genocidio ruandese e proteggere i Tutsi congolesi dai loro attacchi, in pratica invece, col sostegno degli USA, stanno mettendo in atto un contro genocidio etnico e si vogliono assicurare il totale controllo di quell'area così ricca di risorse naturali, in modo da sottrarle al Congo per poi rivenderle a caro prezzo alle potenze occidentali ed alla Cina: due piccioni con una fava.

Proteste davanti al Marriot Hotel di Washington contro Paul Kagame in visita alla Casa Bianca nel maggio del 2006 - Foto di Elvert Xavier Barnes con licenza CC BY 2.0 (https://www.flickr.com/photos/perspective/157539675/)

Oltretutto la capitale Kinshasa si trova nella zona sud ovest dello sterminato paese centrafricano, in posizione diametralmente opposta rispetto a Goma, che invece si trova nella parte centro est: le miniere di coltan congolesi che hanno epicentro nelle montagne del Masisi ad una sessantina di km da Goma, sono dunque distanti solo 250 km da Kigali, ma ben 2500 e 3 ore d'aereo da Kinshasa. Non stupisce dunque che per il Congo la regione del Kivu sia estremamente difficile da gestire e controllare.

E così oggi assistiamo alla peggior crisi umanitaria degli ultimi decenni: immensi danni ambientali dovuti all’estrazione di minerali fanno nuovamente da orrenda cornice a massacri indiscriminati ed impuniti, con esodi di massa che tornano ad essere la normalità; si riformano campi profughi improvvisati, stracolmi ed incontrollabili che diventano terra di nessuno e regno della barbarie, della diffusione di malattie, della prostituzione, del traffico di esseri umani e dello stupro. Stupri a non finire... una costante negli ultimi 3 decenni, tanto che Goma si è guadagnata di diritto il soprannome di "città dello stupro".

Insomma, tutto esattamente come negli anni '90, incluso il menefreghismo totale del mondo intero ed il fallimento (al solito voluto e studiato per benino dai potenti) della missione umanitaria MONUSCO dell'ONU (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of Congo): un fallimento se vogliamo ancor più clamoroso rispetto alla missione UNAMIR, in quanto i caschi blu sono presenti in quell'area da oltre 25 anni, senza aver fatto un cazzo di niente per evitare o perlomeno ridurre il disastro.

Anzi no, scusate, in Congo una cosa buona l'ONU l'ha fatta: è il cosidetto "Rapporto Mapping" accennato in precedenza, un coraggioso documento di oltre 500 pagine sulle gravissime violazioni dei diritti dell'uomo e del diritto internazionale umanitario nel decennio 1993-2003, in cui sono dettagliati nomi e cognomi, vicende di massacri, fosse comuni, stragi impunite, coinvolgimento dei vertici della politica ruandese nelle mattanze, gruppi terroristici, connivenze e complicità occidentali... tutto però ovviamente finito nel dimenticatoio. Se un bambino occidentale morto riempie (giustamente) titoloni di giornali, delle migliaia di bambini palestinesi sventrati dalle bombe di quel macellaio di Benjamin Netanyahu, o delle decine di migliaia di bambini congolesi che muoiono di colera o colpi di mortaio, non gliene fotte un cazzo di niente a nessuno.

Figuratevi che idee sballate ad inizio viaggio che avevo... pensavo di entrare in un posto in balia di bande criminali, pieno zeppo di assassini senza scrupoli, dove ogni giorno avvengono massacri e dove convergono gli interessi economici di tutte le nazioni imperialiste più potenti del mondo! Impensabile, forse davvero non ne sarei uscito vivo... anche i salesiani di Don Bosco della città di Goma con cui ero in contatto, mi hanno parlato di una situazione catastrofica ed assoluta impossibilità di garantirmi un minimo di sicurezza. E così deciderò di restare in Rwanda tutto il tempo, anche perché lo sconfinamento mi avrebbe automaticamente invalidato il (costoso) visto.

Il conflitto congolese, esattamente come quello ruandese di 30 anni fa, è ovviamente alimentato direttamente e indirettamente dagli interessi bulimici delle multinazionali e delle potenze mondiali occidentali. Nemmeno in segreto, tutto alla luce del sole: il 19 febbraio 2024 quell'istituzione criminale e terrorista che prende il nome di Unione Europea ha giustificato e formalizzato nero su bianco questo commercio illecito e insanguinato firmando accordi con il Rwanda per la fornitura "sostenibile" (giù le risate!) di materie prime strategiche essenziali per la duplice transizione economica verde e digitale (ovvero il coltan), stimando in 1,5 miliardi di dollari il valore complessivo delle esportazioni minerarie ruandesi per tutto il 2024, 4 volte tanto il corrispondente valore del 2017.

Detto in modo politicamente scorretto, l'UE appoggia il Rwanda nella depredazione criminale delle risorse congolesi. Non è un caso che dopo la stipula di questi accordi, i combattenti dell'M23 siano riusciti ad estendere ulteriormente il loro controllo sulla regione maledetta del Kivu.

Perché l'UE fa l'accordo con il minuscolo Rwanda che non ha la proprietà di quell'area? Perché non con lo sterminato Congo, grande come mezza Europa, che invece possiede le miniere? Semplice Watson! Paul Kagame rispetto al collega congolese, obbedisce molto di più agli ordini di Zio Sam e mamma Ursula; quei territori pur non essendo i suoi, sono da lui controllati grazie ai gruppi armati dell'M23.

E difatti, all’indomani dell’accordo, la RDC si è leggermente incazzata con Bruxelles e Washington: il presidente Félix Tshisekedi, ha definito tale accordo "una provocazione di pessimo gusto" e con passione e rabbia ha denunciato al mondo intero le continue ingerenze ruandesi in territorio congolese che generano tensioni e destabilizzano tutta l'area, chiedendo anche un embargo internazionale sulle esportazioni minerarie di Kigali. Ha rivendicato la proprietà delle materie prime, ha accusato ferocemente il Rwanda di appropriarsene indebitamente grazie a gruppi terroristici Tutsi finanziati da Kagame che costringono a lavorare in miniere illegali uomini donne e soprattutto bambini con norme di sicurezza ed igienico sanitarie inesistenti per meno di due dollari al giorno, massacrando, torturando e stuprando chiunque intralci il loro cammino.

Manifestazione congolese a Roma del 6 aprile 2024 - Foto di Jaime C. Patias

Foto di Jaime C. Patias

Foto di Jaime C. Patias

Dopo questa ennesima porcata dell'Unione Europea, anche la comunità congolese in Italia si è mobilitata con una grande manifestazione di protesta: in data 6 aprile 2024, guarda caso il giorno in cui ricorreva il trentennale dell'avvio del genocidio ruandese, decine di immigrati del Congo hanno marciato in modo pacifico e gioioso per le vie di Roma, giungendo infine a Piazza San Pietro di fronte a Bergoglio (non scrivo papa perché non credo sia il papa... e se non capite, chiedete info ad Andrea Cionci) con cartelli e striscioni in cui si accusavano senza mezzi termini Rwanda, UE ed USA del genocidio in corso. Iniziativa davvero lodevole che però purtroppo pecca di ingenuità: il pampero argentino è un pifferaio magico che incanta le folle con frasi ad effetto pompate a dovere da una stampa totalmente prostrata al suo servizio, ma è un lupo travestito d'agnello, al totale servizio dell'imperialismo occidentale e delle élite sataniche di Davos.

Foto di Jaime C. Patias

Foto di Jaime C. Patias

Foto di Jaime C. Patias

E San Kagame da Kigali cosa risponde a tutte queste accuse? Ovviamente nega l'appoggio al movimento M23, sostiene di esser in Congo solo per scovare gli assassini di 30 anni fa, ed accusa Kinshasa di sostenere le Forze Democratiche per la liberazione del Rwanda che tentano costantemente colpi di stato nel suo paese. Al solito, la miglior difesa è sempre l'attacco!

Manifestazione congolese a Roma del 6 aprile 2024 - Foto di Elisa Gestri

Foto di Elisa Gestri

Foto di Elisa Gestri

Chissà se dopo la prima e la seconda guerra, ci sarà anche la terza guerra del Congo... Le premesse oggi come oggi ci sono tutte. Una cosa è certa: ne saremmo responsabili anche noi, con il nostro appoggio decerebrato ed incondizionato a Stati Uniti ed Unione Europea, e la nostra bulimia insaziabile di smartphone all'ultimo grido e dispositivi elettronici sempre più alienanti ed inutilmente performanti.

Il primo pianoforte d'Africa (forse...)

21 luglio 2024. E' l'ultimo giorno del mio viaggio in Rwanda... l'aereo per Nairobi parte a mezzanotte ed ho praticamente un intero pomeriggio libero da passare a Kigali. Che può fare un pianista (mediocre) come me con mezza giornata libera prima di ripartire? Elementare Watson! Si mette alla ricerca di un pianoforte... in Rwanda! Ed incredibilmente lo trovo.

Digitando su google "Kigali piano", mi appare infatti il sito di una scuola di musica in una zona periferica della capitale. Mezzora dopo sono davanti all'ingresso. Mi accoglie Bonani, insegnante che ora gestisce il centro, la cui proprietà mi sembra di aver capito essere di una signora inglese di nome Marion Grace.

Marion trovandosi a Kigali per lavoro, acquistò nel 2017 un vecchio scassato pianoforte sovietico Lirika del 1968, e non essendoci in Rwanda accordatori competenti, cominciò a ripararselo da sola acquisendo poco a poco nuove competenze e conoscenze. Marion provò poco alla volta a trasformare la nuova passione in lavoro e così nacque questo centro di riparazione pianoforti, che poi divenne anche scuola di musica.

Dopo una visita alla scuola, rapidissima essendoci soltanto tre stanze con un paio di tastiere scassate e scordate, una chitarra buttata per terra, bonghi e poco altro, Bonani mi accenna con entusiasmo al loro grande progetto: la realizzazione fisica del primo pianoforte di tutto il continente africano. L'idea partì sotto Covid (meglio noto come pandemenza) da qualche anfratto nascosto della testa di Marion, la quale girando per il Rwanda alla ricerca di artigiani e falegnami che avessero competenze nella riparazione del re degli strumenti acustici, incontrò delle persone sognatrici come lei che accettarono la sfida: non avendo però né le capacità finanziarie delle ditte Fazioli, Yamaha o Steinway & Sons, né tantomeno le loro conoscenze o il personale tecnico, ebbero l'idea di copiare di sana pianta, pezzo per pezzo nei minimi dettagli, il pianoforte Lirika di Marion. Tutto è cominciato così, con enorme entusiasmo ma mille difficoltà tecniche e pratiche, improvvise accelerazioni e brusche, lunghe e snervanti frenate.

Il progetto oggi è in buono stato di avanzamento, anche se attualmente si è un po' arenato per via di diversi problemi e Marion è tornata in Inghilterra. I risultati francamente mi sembrano alquanto mediocri, almeno al momento, vista ad esempio la disomogeneità abbastanza evidente dei tasti di legno nella tastiera che si sta mettendo a punto (ultima foto in basso a destra delle 4 in collage appena sotto)... ma sognare è sempre lecito, anzi, è indispensabile per condurre una vita appagante, per metter le ali della libertà, del coraggio e della speranza, per guardare al futuro sempre con ottimismo e meraviglia... ed il sogno in quanto tale prescinde completamente dai risultati che si otterranno.

Chissà se mai il primo pianoforte african-sovietico del mondo vedrà mai la luce... Sono in contatto whatsapp con Marion che ha promesso di inviarmi aggiornamenti non appena il progetto riprenderà slancio. Me lo auguro di cuore... Forza Marion, forza Bonani! Tifo per voi!

Passerò tutto il pomeriggio col maestro Bonani parlando di musica classica e contemporanea, accompagnandolo anche in giro per Kigali a far lezione a casa di suoi alunni. Ha 45 anni, età che in Rwanda è un campanello d'allarme... significa che ha vissuto il genocidio. E difatti è un sopravvissuto che ha perso in quei giorni entrambi i genitori, ammazzati dalla furia delle milizie. Ma lui non vuole minimamente parlare di quelle vicende.

Mi dice: «Hutu Tutsi? No... It's trash. When you have trash governments, trash things happen». Tradotto per chi non mastica inglese: «Hutu Tusi? Discorsi spazzatura. Quando hai governi spazzatura succedono cose spazzatura», riferendosi ovviamente al governo Hutu di Habyarimana.

Anche Bonani è un fan sfegatato di Kagame, che considera una sorta di Dio in terra. Mi dice:«Vedi Kigali come è oggi? Sembra quasi una città europea. Nessuna capitale in Africa è così ordinata e pulita. Se vai a Kampala in Uganda, la spazzatura arriva al secondo piano dei palazzi, si attacca persino alle mura verticali e resta lì anche quando piove. La gente per strada cammina nella sporcizia. Tu mi dici di Nairobi che è un delirio? Vai a Kampala e vedrai che è mille volte peggio! Tu non ti immagini caro Stefano le cose come erano 20-30 anni fa qui in Rwanda. E' sbalorditivo pensare a ciò che siamo oggi, e quello che eravamo ieri. Ed il merito è tutto di Kagame, che non solo è un grande presidente, ma si è anche circondato di un grande staff. Nessuno vuole cambiare e fare un salto nel buio. Le cose funzionano, sarebbe da idioti tornare indietro. Problemi di democrazia? E che significa democrazia? Noi africani abbiamo un concetto di democrazia ben diverso dal vostro. In entrambi i casi la libertà ed il volere popolare è solo apparente perché è sempre la stampa mainstream ad influenzare e determinare il voto finale».

D'accordissimo sulla democrazia a cui non credo nemmeno io, ma ribatto che in Rwanda le cose oggi vanno bene perché in Congo vanno male, e che continuamente vengono silenziati giornalisti ed oppositori politici. Ma non insisto minimamente: so bene soprattutto dopo il Covid che la dissonanza cognitiva nelle persone può arrivare a livelli talmente alti da riuscire a negare anche l'evidenza più clamorosa, e che sconvolgere radicalmente il proprio pensiero è un'operazione altamente destabilizzante, di una difficoltà estrema. Dunque parlo pochissimo e rimango ben volentieri in ascolto: Bonani ha un ottimo inglese e mi fornirà la sintesi perfetta degli umori e del punto di vista di tutto il paese. Il concetto brutale è: «Da noi va bene grazie a Kagame, non sappiamo nulla e non ce ne fotte un cazzo di ciò che accade in Congo; abbiamo sofferto abbastanza per poter pensare a ciò che accade in altri stati... colpa loro, cazzi loro».

Il maestro Bonani della scuola di musica di Kigali

Dopo aver trascorso tutto il pomeriggio a scorrazzare per Kigali, finalmente torniamo in sede e posso suonare un po'. Nella sala principale ci sono due pianoforti: il primo ha tastiera semplicemente disastrosa, tasti rovinati alcuni dei quali restano premuti senza risollevarsi, ma con pedale dell'allungo del suono funzionante, l'altro ha tastiera migliore, buon suono ma pedale kaputt. Opto per il primo. Appena apro il coperchio di legno mezzo marcio escono un paio di animaletti, delle formiche camminano indisturbate intrufolandosi poi in microscopici buchetti e scomparendo nel nulla... vabbehh, chissenefrega, l'astinenza è tantissima!

Appoggio le dita sui tasti malandati. Chiudo gli occhi e via... raggiungo il mio universo parallelo, del quale soltanto io ho le chiavi, un eden che non segue le regole del mondo fisico perché spazio esterno e tempo improvvisamente spariscono ed io mi sento pieno, libero, felice, estasiato. Così, persino in Rwanda, riesco a suonare i miei due pianisti preferiti, il contemporaneo Tiersen ed il romantico Chopin, degna conclusione di un viaggio intenso e coinvolgente.

Quattro brani, “La dispute”, “Portz Goret”, “Rue des Cascades” di Yann e “Valzer in la minore” di Fryderyk, dedicati ai milioni di morti ammazzati negli orribili genocidi ruandesi e congolesi, ed a tutte le vittime nel mondo dell'imperialismo occidentale, della propaganda e della menzogna, dell'odio, della violenza e della discriminazione.

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