In vetta al Kilimangiaro

Il mio 2020 comincia col botto, con la scalata del Kilimangiaro. Sarà un anno molto intenso, troppo.

Primo gennaio, ore 6.30 di mattina, mi devo sbrigare, ho appuntamento con la guida ed i portatori per iniziare una magnifica avventura. La mia prima e spero non ultima, vetta delle "seven summits". Mi vesto in fretta, esco dal fatiscente alberghetto di Moshi trovato ieri sera dopo aver lasciato Gaby ed i bambini all'aeroporto, ed il nuovo anno 2020 mi accoglie così: una visione da togliere il fiato. Cielo totalmente terso, di fronte a me il Kilimangiaro e la sua vetta coperta dalle nevi perenni. Se tutto va bene tra 6 giorni sarò lassù, in cima!

La bellissima vista della vetta del Kilimangiaro la mattina della partenza, Primo Gennaio 2020

Il Kilimangiaro è uno stratovulcano in fase di quiescenza, uno dei più alti del mondo. Con i suoi 5895 metri s.l.m. è la montagna più alta d'Africa, dunque una delle famose sette vette più alte dei sette continenti, tanto ambite dagli alpinisti di tutto il mondo.

Sono in condizioni fisiche strepitose. Faccio vari sport regolarmente, anche in doppia seduta, a volte gioco a tennis a pranzo e vado a correre la sera nel mio amato lungomare, mangio cibo biologico soprattutto frutta e verdura, evitando accuratamente carni, latticini, zuccheri e carboidrati raffinati, digiuno occasionalmente. Poche sbornie. Poche ma buone. Ho appena fatto 42 anni ma mi sento addosso l'energia che a 20 anni non avevo, sempre occupato a curare infortuni sportivi e sopra ai libri di fisica. Purtroppo però ho un cazzo di problema al piede sinistro, o meglio in famiglia ce l'abbiamo tutti tranne Gaby... L'ho sentita al telefono, una chiamata via whatsapp utilizzando la disastrosa wi-fi del chiosco del gate di ingresso al parco nazionale del Kilimangiaro, ultimo avamposto di civiltà e connessione prima del silenzio assoluto per una settimana. E' già atterrata a Roma ma ieri ha dovuto portare i bambini nel centro medico dell'aeroporto di Addis Abeba durante lo scalo aereo: non riuscivano a camminare e piangevano... poverini, pieni di eritemi, papule e bolle dolorose ai piedi con una gran voglia di grattarsi... prurito pazzesco, tumefazione e dolore. Leonardo mi ha detto: « Babbo la prossima vacanza la decide mamma!... la facciamo normale come fanno tutti, eh! Basta posti selvaggi come Mafia! ». Non gli ho promesso nulla, perché tanto lui sa che non succederà mai. Magari mi ritrovo incarcerato in qualche resort all inclusive 4 o 5 stelle! Sia mai! Ancora non sapevo cosa avevamo, pensavo fossero coralli oppure punture di qualche insetto o animale della sabbia. Ma Gaby ha parlato con i dottori all'aeroporto. Il referto è... larva migrans, un parassita presente nelle feci degli animali randagi, che sopravvive nei terreni sabbiosi caldi ed umidi dei paesi tropicali sviluppandosi a livello di larve infettive. La trasmissione avviene per contatto diretto della cute con il suolo contaminato. E' chiaro, l'abbiamo presa nell'isola di Mafia, la spiaggia era sporca e piena di cani randagi. Non è un caso che Gaby non ha nulla, ha sempre camminato in ciabatte nella spiaggia, mai stata scalza. L'infezione purtroppo non si risolve in pochi giorni ma dura diverse settimane fino alla morte naturale della larva, creando però grande fastidio e dolore, soprattutto un insopportabile prurito, talmente forte che vien voglia di scorticarsi. Merda... e adesso? Che faccio? La macchina si è messa in moto, non posso e non voglio tirarmi indietro anche se il dolore è davvero sempre più forte. Stringo i denti e parto. Ho comprato una crema al cortisone, speriamo che faccia effetto, la metterò ogni volta che potrò.

Ingresso al parco nazionale del Kilimangiaro: il Machame Gate, inizio della omonima via alla vetta

Ci sono 6 vie distinte per salire sulla vetta del Kilimangiaro. La più turistica e trafficata in assoluto perché meno impegnativa e più semplice è la Marangu route, soprannominata "coca cola route". Le soste sono più confortevoli rispetto a tutte le altre vie, perché avvengono in bungalow di legno, anche se piuttosto spartani e con un numero limitato di posti letto. Paradossalmente però, essa vanta il tasso di insuccesso maggiore: la sua apparente facilità e comodità, porta gente impreparata e superficiale ad affrontare quote davvero notevoli. Io seguirò una via assai meno battuta, più scenografica, molto più selvaggia e difficile: la Machame route, conosciuta anche come “Whisky route”. Non ci sono ricoveri, si dorme in tenda ed il percorso è sempre nuovo perché i due sentieri di andata e ritorno sono diversi. La percentuale di successo in ogni caso aumenta all'aumentare dei giorni di scalata, le maggiori probabilità si hanno con 8-9 giorni, lo standard minimo è 7, 6 giorni sono pochi e generalmente è una soluzione da sconsigliare. Ci sono anche agenzie che propongono la salita in 5 giorni: follia totale ed insuccesso garantito per mal di montagna. Io me la gioco in soli 6 giorni, confidando nelle ultime due notti nel Serengeti e Ngorongoro passate sopra i 2000 metri che dovrebbero aver favorito l'acclimatamento. Chiaramente un numero di giorni superiori di ascensione, aumenta sì le probabilità di successo ma anche i costi, diretti ed indiretti: le tasse da pagare al parco sono giornaliere cosiccome le mance a cuochi, guide e portatori, tipicamente da 5 a 10 dollari al giorno a testa. Sì, scalare il Kili costa una tombola. Per una 6 giorni, comfort minimo, mance incluse ed attrezzatura alpinistica non affittata ma di proprietà, sotto i 1800/2000 dollari è impossibile spendere; soltanto ben 830 dollari se ne vanno in tasse da pagare al parco per l'ingresso. La tassazione governativa sulle attrazioni principali della Tanzania, ovvero Kilimangiaro e parchi del nord, in particolare Serengeti e Ngorongoro, è altissima, spropositata. Purtroppo, come mi confermerà Hendry, un ragazzo di Moshi che sarà la mia guida, solo una minima parte di queste entrate pubbliche è effettivamente reinvestita nella tutela dell'ambiente ed in servizi welfare al popolo, a causa di una diffusa corruzione.

La Rainforest del Kilimangiaro

Sono al Machame gate, si parte. Convinto più che mai. Non sarà una larva ad impedirmi di raggiungere la mia prima delle "seven summits". Entro nella rainforest del Kilimangiaro, la fascia tra i 1800 ed i 2700 metri di quota più ricca di specie vegetali principalmente alberi ad alto fusto coperti di muschio con le chiome rigogliose che chiudono totalmente i sentieri formando suggestive foreste a galleria. Piove praticamente sempre durate il tragitto, di andata e ritorno.

Sono in marcia con altre 5 persone, una guida, 3 portatori ed un cuoco. A differenza del Nepal, dove gli sherpa vivono anche a quote molto elevate, qui nel parco nazionale del Kilimangiaro non vive una popolazione stanziale che può guadagnare qualcosa con ristorantini e guesthouse ospitando gli alpinisti. Non ci sono villaggi lungo il percorso né zone per rifocillarsi o pernottare. Dunque se si vuole scalare la vetta d'Africa, occorre portarsi tutto dietro per una settimana. Ci sono pochi scalatori perché l'ascensione non è per tutti, è piuttosto impegnativa e costosa; e molti portatori, mediamente 3-4 per ogni scalatore perché di lavoro a Moshi, come immaginabile, ce ne è poco. Nella cittadina ai piedi del Kilimangiaro, ben 10.000 persone lavorano nell'indotto delle scalate: la manodopera è disponibile in quantità praticamente illimitata e dunque ha un costo irrisorio. Le persone qui fanno il lavoro che yak ed asini svolgono nel Khumbu: andare su e giù per la montagna caricando tende, cibo, vettovaglie, gas, zaini, sacche di Gamow, bagni chimici per alpinisti esigenti che non si accontentano della natura ma hanno bisogno del cesso, e molto altro...

I portatori sul Kilimangiaro

Ovviamente il numero di portatori della spedizione dipende molto anche dal livello di comfort che si sceglie e da quanto si è disposti a pagare. Io ho il minimo sindacale, 3 portatori, mentre Roman Abramovich che ha tentato la scalata senza riuscirci, fermandosi al campo base e dovendo ricorrere alle cure mediche per mal di montagna, ne utilizzava ben 113.

Esistono ovviamente delle gerarchie tra chi lavora al Kili: la guida che ha fatto corsi e conosce le basi dell'inglese guadagna più degli altri. In realtà parlano un inglese assai stentato, abbastanza strano e difficile da comprendere ed hanno scarsa o nulla conoscenza della montagna e delle tematiche mediche correlate. Il cuoco guadagna meno della guida; in ultimo ci sono i porters. Nessuna particolare competenza tecnica, a parte montaggio e smontaggio tende e puro lavoro di fatica. Con loro si comunica a gesti e disegni perché parlano solo swahili.

Primo pernottamento a quota 2835 m nel Machame Camp

Dopo 5 h di cammino, la foresta pluviale comincia a diradarsi. Entriamo nella seconda zona di vegetazione e fascia climatica del Kilimangiaro, la famosa brughiera, tra i 2800 m ed i 4000 m, al di sopra della linea degli alberi. Scompaiono piante ad alto fusto tipiche della rainforest e la vegetazione diventa più bassa. Sono presenti arbusti e specie vegetali floreali come gli Helichrysum Kilimanjari o la caratteristica Lobelia Deckenii; i fitti cuscini di Erica Arborea creano suggestivi effetti cromatici. Le piante più singolari di questa zona sono comunque i seneci giganti, endemici del Kilimangiaro: essenzialmente, non me ne vogliano i botanici, un mix piuttosto bizzarro tra una pianta, un cactus ed una palma che può raggiungere diversi metri d'altezza.

Il primo pernottamento in tenda è alla quota 2835 m del Machame Camp.

Compilando il registro presenze del campo, scopro di esser il primo del giorno, dunque il primo dell'anno a tentare la vetta attraverso la Machame route! Se la maledetta larva migrans che ho nel piede me lo permetterà, se il Kilimangiaro lo vorrà, potrò esser il primo uomo del 2020 ad aver intrapreso la scalata e conquistato la vetta via Machame.

Il fastidio al piede è tanto, soprattutto la mattina appena devo mettermi in moto: dovrò modificare la camminata, appoggiando solo il piede senza rullare, perché il problema è soprattutto nella pianta vicino alle dita. Non sarà facile, ma ce la farò.

In primo piano, aspiranti alpinisti con larva migrans al seguito; sullo sfondo, il Mount Meru

Il secondo giorno è di pura marcia attraverso la brughiera del Kilimangiaro.

Pole pole, lentamente in lingua swahili, regola aurea della montagna, in 6 ore di marcia arriviamo al secondo campo, lo Shira Cave Camp, a quota 3750 m. Facciamo un'escursione di acclimatamento poco sopra i 4000 metri, quota a partire dalla quale, e fino ai 5000, la brughiera lascia spazio ad un'altra zona di vegetazione e fascia climatica del Kilimangiaro, il deserto d'alta quota. Nel cammino ad un certo punto si cominciano a vedere le tipiche pietre sovrapposte Himalayane che marcano i sentieri o fungono da piccoli improvvisati stupa buddhisti, in segno di rispetto per la montagna. Non è assolutamente un'usanza tipica del posto, mi spiega Hendry: lo fanno gli scalatori. Chiunque è salito qui, per forza di cose è appassionato di alpinismo e probabilmente è stato anche sull'Himalaya, me compreso. Le persone del posto poi, tutto tranne che buddhisti, non hanno alcuna credenza animista, non attribuiscono al Kilimangiaro una qualche forma di divinità, come invece accade per l'Everest, Sagarmatha in nepalese, dea madre dell'universo.

Quanti ricordi nel Khumbu! Solo pochi mesi fa ero al campo base dell'Everest. Solo pochi mesi fa ero in vetta al Gokyo Ri e davanti ai miei occhi estasiati si stagliavano 4 delle 6 vette più alte del mondo, Cho Oyu, Everest, Lothse e Makalu. Quanti ricordi, quanti struggenti ricordi...

Secondo pernottamento a quota 3750 m nello Shira Cave Camp

L'Himalaya oltre ad avermi regalato emozioni assurde, mi ha anche fatto conoscere per la prima volta il mal di montagna, una condizione patologica che può arrivare ad essere mortale se non adeguatamente trattata, sfociando nei casi più gravi in edema polmonare o in edema cerebrale da alta quota; è dovuta al mancato adattamento del corpo all'altitudine ed alla conseguente ridotta presenza di ossigeno. La sensazione è davvero orribile, molto simile ad un brutto post sbornia. La testa esplode, lo stomaco è sottosopra, nausea ed inappetenza, estrema debolezza, vertigini e generale senso di malessere, più o meno forte. Ricordo l'ascensione ai 5643 m del Kala Patthar, fu un calvario. Ogni passo mi sembrava di trascinare un autotreno. Ma sapevo di aver barato, onestà intellettuale prima di tutto. Lukla-Namche Bazaar in un solo giorno, quando è imperativo farlo in due. Un po' come se avessi saltato tappe decompressive in un'immersione fuori curva. Ho voluto rischiare, ben consapevole di ciò che stavo facendo, per mancanza di tempo. Dovevo e volevo completare il giro dei laghi di Gokyo, via ghiacciaio Ngozumpa, in soli 11 giorni, quando normalmente il tempo minimo necessario è di 14. E l'unico modo possibile per farlo era tagliare un giorno all'andata, assai importante ai fini della sicurezza perché si sale di quota e due al ritorno, al contrario ininfluenti perché si scende. Così ho spinto l'allenamento precedente al massimo, curato la dieta e bevuto come un cammello in quei 7 giorni di ascensione, forzandomi anche a 6 litri al giorno di acqua. Il mal di montagna l'ho avuto lo stesso, un senso generale di malessere durato un paio di giorni nei quali ho continuato comunque a camminare e salire senza sosta per non ritardare il programma di viaggio che avevo. La sensazione di stanchezza e spossatezza provata è stata molto simile a quando presi la dengue in Cambogia. Dopo questo paio di giorni però, volavo. L'acclimatamento era avvenuto e sopra i 5000 metri non ebbi più problemi.

Le regole generali per avere meno probabilità di esser soggetti a sintomi forti di mal di montagna, adattandosi a livelli progressivamente inferiori di ossigeno, sono ben note. Innanzitutto un altissimo livello di idratazione, bisogna bere anche 4-5 litri al giorno di liquidi, forzandosi in ogni situazione. L'aria rarefatta, fredda e secca della montagna, infatti disidrata il corpo assai rapidamente acuendo di molto i sintomi dell'ipossia. Inoltre non bisogna salire sopra i 3000 metri mai più di 500 metri al giorno ed ogni 1000 metri di dislivello effettuati bisogna pernottare due notti a quella quota. Camminare ma senza sforzarsi. Pole pole. La regola aurea poi di giorno è "camminare in alto, ma dormire più in basso". Uno stato di malessere generale va comunque messo in conto sopra i 3000 metri, anche perché la notte si dorme male. Dormire sopra i 4500-5000 metri vi assicuro che non è piacevole. Ci si sveglia in continuazione per le continue apnee dovute alla carenza di ossigeno del cervello.

Il terzo giorno, si comincia a far sul serio. Fedeli alla regola aurea del "cammina alto dormi basso" ma fregandosene altamente di tutte le altre, entriamo nel deserto d'alta quota del Kilimangiaro nella fascia di altitudine 4000-5000, fermandoci un paio d'ore per un miglior acclimatamento ai 4600 metri del Lava Camp. Scenderemo poi di quota per pernottare, tra seneci giganti ed i numerosi corvi imperiali collobianchi, nella brughiera del Baranco Camp a quota 3900 m, sotto l'omonima famosa parete verticale.

Sono in tenda a 3900 ed il freddo comincia a farsi sentire, meno male che il mio sacco a pelo Ferrino, con la sua temperatura di comfort -5 e minima -20, adempie perfettamente al suo compito. Una zuppa calda e si va a nanna. Con il solito problema sperimentato anche sull'Everest, il solito atroce dilemma notturno: bevi talmente tanto di giorno e la dieta è talmente liquida che la notte continuamente devi alzarti a fare pipì... questo significa uscire dal calduccio del sacco a pelo mezzo nudo ed affrontare il gelo ed il buio in mezzo ai lupi. Sensazione vi assicuro assai sgradevole. L'analisi costi-benefici della scelta è drammatica: mi alzo e faccio la pipì che ho la vescica a fuoco uscendo dal calduccio del sacco a pelo ed affrontando il gelo, oppure resisto? Pipì a parte, in ogni caso questa notte dormirò di merda perché la larva non mi darà tregua, il prurito è davvero insopportabile e mi alzerò col piede piuttosto gonfio ed indolenzito. La maledetta larva mica sta ferma! Non gli basta entrare nel piede... no! La zoccola, non sa di non avere alcuna chance di superare il derma e nel tentativo infruttuoso di penetrare all'interno del corpo umano per raggiungere gli organi, scava sottopelle dei cunicoli lungo un percorso casuale, lasciando una tortuosa eruzione cutanea filiforme di colore rosso-brunastro. Ma dove cazzo vai? Ma statti buona no, che devo salire sul Kilimangiaro! Proprio adesso devi stare a rompermi?

In mezzo ai senesi giganti della brughiera del Kilimangiaro; la vetta improvvisamente si scopre dalle nuvole

E coerentemente con la legge fisica più infallibile del pianeta, la legge di Murphy, il quarto giorno della scalata al Kili via Machame route, coincide con la parte più tecnica e difficile, la salita del Baranco Wall, un muro quasi verticale di pietra, da attraversare in molti punti mani e piedi.

Bellissimo, un paio d'ore per superarlo, ma la prima ora per me sarà un calvario. Mi sembra di avere tante pietrine dentro la scarpa o aghi che ti pungono. Camminavo e scalavo con una voglia insopportabile di grattarmi, senza rullare ma appoggiando solo la pianta del piede. Ho capito ormai che il problema si manifesta soprattutto la mattina appena sveglio e la sera quando vado a dormire; di giorno è meglio sopportabile, c'è una sorta di adattamento al dolore. Ce la faccio anche oggi. Non sarà sicuramente una maledetta larva ad impedirmi di conquistare la vetta, di questo sono certo.

Sintomi di mal di montagna al momento? Zero. Larva migrans a parte, sto benissimo, niente fiatone, gambe a 1000, nessun mal di testa o senso di malessere generale, nessun calo di appetito, grande energia. Ho bevuto davvero tanta acqua, 5 litri al giorno. Qui è più facile rispetto all'Himalaya perché l'acqua viene riscaldata e mantenuta in thermos. Nel Khumbu invece dovevi bere acqua semicongelata di ruscello disinfettandola con pastiglie: è difficile bere acqua gelida con retrogusto di cloro quando fuori fa freddo e gli stimoli della sete sono assenti.

In cammino verso il Barranco Camp, terzo pernottamento a quota 3900

Abbandoniamo definitivamente la brughiera del Kili per entrare nel deserto d'alta quota.

Altitudine e fatica fanno procedere tutti come automi, in silenzio, ognuno con il suo peso o zaino da trasportare, sguardo basso verso le rocce. Ognuno assorto nei suoi pensieri.

Ed io a che penso? Al pianoforte... madonna quanto mi manca! Oramai sono 2 settimane che ne sono lontano. Nella mia mente rimbomba un brano di Ezio Bosso, ascoltato per caso prima di partire per la Tanzania, Following a Bird. Mi è entrato nel cervello. Cammino e canticchio. Tornato a casa sarà il primo brano che studierò ed imparerò a suonare.

Ogni tanto mi fermo o rallento il passo; alzo lo sguardo, le nuvole si diradano e la vetta si scopre, e mi ricordo che sono a meno di 2000 metri dal tetto d'Africa. Ce la farò.

Una giornata sfiancante, il quarto giorno; forse la più dura finora. Una decina di ore di marcia complessiva. La mattina, il Baranco Wall. Mezzoretta di riposo sopra un masso a pranzo per un panino e subito si riparte per i 4700 m del Barafu Camp, il campo base del Kilimangiaro. La salita è di quelle che tagliano gambe e polmoni. Ma la mia condizione fisica è ottima. Bene. Molto bene.

Il meteo è cambiato. Siamo in pieno deserto d'alta quota, a poco dai 5000 della zona artica del Kilimangiaro. Il vento è forte e gelido. Montare le tende sarà abbastanza difficoltoso. Comincia anche a nevischiare. Nuvoloni coprono la vetta. Merda. E' davvero incredibile la rapidità con cui cambia il tempo al Kili. Esce il sole, si placa il vento e si muore di caldo, siamo d'altronde all'equatore. Una nuvola copre i raggi solari, si alza il vento e si gela letteralmente. E questo al campo base, 4700 metri. Figurarsi in vetta.

Vedo improvvisamente due portatori lanciarsi giù in discesa con la tipica barella improvvisata del soccorso del Kilimangiaro. E' una specie di letto metallico con 4 maniglie per il trasporto ed una ruota di motocicletta sistemata sotto per un'eventuale discesa più rapida e soprattutto meno faticosa quando il sentiero lo permette: caricano una ragazza il cui viso è distrutto. Sembra davvero malconcia... pallida, occhi chiusi... davvero in pessime condizioni. E' mal di montagna: occorre scendere di quota almeno 700 m. Subito, non c'è tempo. Speriamo che la ragazza si riprenda e non sia nulla di grave. Purtroppo le statistiche parlano chiaro, ogni anno sul Kili muoiono diversi portatori e clienti, circa una ventina in media. La montagna ci ricorda ancora che è sempre lei a comandare, lei decide chi arriva in vetta e chi no, chi sopravvive e chi no. D'altronde se si vuole il massimo, si deve esser pronti a pagar il prezzo massimo. Kilimangiaro ed Aconcagua sembrano montagne facili perché non richiedono competenze tecniche spinte, ma l'altitudine le rende vette potenzialmente letali. Sottovalutare le altissime quote da raggiungere può esser davvero fatale.

A nanna alle 7 di sera, domani è il grande giorno. A mezzanotte e mezza del 5 gennaio 2020 c'è la sveglia. All'una si dà assalto alla vetta. Ultima decina di ore, le più dure, dai 4700 metri scarsi del campo base ai quasi 6000 della vetta e rientro al Barafu. Larva migrans malefica, per favore dammi tregua questa notte almeno. Queste poche ore, le più importanti, fammi dormire!

Niente da fare; larva a parte, quelle poche ore non chiudo occhio. Altra notte in bianco. L'altitudine sicuramente non aiuta e poi un gruppo di portatori nella tenda a fianco, mortacci loro, fanno baldoria. Giocano a carte ridendo a squarciagola: giustamente loro non scalano, si fermano al campo base. Cazzo gliene frega a loro. Poi c'è un vento della madonna che sembra strappare la tenda ad ogni raffica. Piove e nevischia. Mi raggomitolo dentro il mio Ferrino aspettando la sveglia e pensando.

Il campo base "Barafu Camp" a circa 4700 m, quarto "pernottamento": sveglia all'una di notte per il tentativo di vetta

La montagna, sarà clemente con me? Lei sa che ho barato. Otra vez. Tutti abbiamo barato. Nel Kilimangiaro tutti barano per guadagnare giorni... Pole pole, va bene. Ok, si va piano. Scala alto dormi basso, va bene anche qui. Ma con le quote, ci se ne passa proprio. Mai più di 500 m giorno un par di palle. E due notti alla stessa quota ogni step di 1000 m, un altro par di palle. In una 6 giorni al Kili, ma in 7 giorni le cose comunque non cambiano, tutto è forzato: la prima notte si pernotta a 2850, la seconda a 3750, ben 900 m più alti mettendosi la coscienza a posto facendo però escursione d'acclimatamento a 4000. Il terzo giorno si dorme a 3900 passando per i 4600 del Lava Camp. Abbiamo dunque già rubato un giorno all'acclimatamento. Il quarto gg si dorme al campo base, quota 4700 ma in realtà nemmeno si dorme perché si parte a mezzanotte per conquistare la vetta a 5895 metri soltanto 6 ore dopo esser arrivati a quota 4700.

Sostanzialmente quello che si fa al Kili, è dunque ingannare il corpo. Al quarto giorno ci si sveglia a quota a 3900, si attraversa il Baranco wall, si raggiunge il campo base a 4700 e la notte si parte per la vetta. Questo significa che in meno di 24 h si passa dai 3900 metri della brughiera ai 5895 della vetta, praticamente 2000 metri di dislivello in un solo giorno. Follia, contro le regole della montagna. Non si dà al corpo il tempo di capire ciò che sta succedendo. Appena il corpo se ne accorge e cominciano forti mal di testa, nausea, vomito e malessere generale, già si è in discesa, in vetta non si passa più di 10 minuti. Altitudine e freddo non lo consentono. Nel Khumbu sull'Himalaya, tutto ciò è impensabile. Ci sono scalate importanti da fare sopra i 5000 metri come il Kala Patthar, l'EBC, vette come il Gokyo Ri, dunque l'acclimatamento ai 5000 deve esser eccellente. Qui al Kilimangiaro si conquista la vetta ma mai dormendo sopra i 4700 metri. Sull'Everest si dorme, o meglio ci si prova, a Lobuche e Gorakshep, sopra i 5000 metri e vi assicuro che dormire o no sopra i 5000 fa tutta la differenza del mondo.

Sveglia a mezzanotte e mezza del 5 gennaio 2020. Check up dell'attrezzatura con Hendry.

« Ready for the summit? » Gli dico. « Ok let's go! »

Sì... let's go un par di palle... .usciamo dalla tenda con un tempo da lupi, fa freddissimo e tira un vento che ti impedisce anche di stare in piedi... il nevischio colpisce la pelle del viso a tutta velocità, sembrano aghi che entrano nella carne... ritardiamo la partenza di una decina di minuti, monitorando la situazione. Decidiamo di partire comunque, sperando in una tregua del meteo più avanti.

Ci copriamo con tutto quello che abbiamo e torcia in testa, si parte.

Oggi il Kili ha già deciso che mi farà sputare sangue. Meglio così, una sua eventuale conquista mi darà molta più soddisfazione! Non mi spaventa. Le sfide mi piacciono. Il pericolo in montagna ed in immersione mi eccita. Siamo a meno 10 e mancano 1000 metri di dislivello ancora per la vetta. Sopra sarà un inferno bianco.

La salita è di quelle che ti tagliano in 2, che ti spezzano le gambe ed il fiato, ma lo spettacolo è indescrivibile. Su per la montagna, tra nebbia, tempesta e buio, si vedono le torce degli alpinisti che indicano il percorso... una ad una, quelle luci le supereremo tutte. In mezzo alla bufera, sembra di stare in un film. Chi dice che la scalata al Kili è facile si sbaglia. Magari non ci saranno passaggi tecnici ed impegnativi ma l'altitudine, il freddo, il meteo rapidissimamente mutevole, la salita finale di 6 ore dal campo base piuttosto ripida su roccia molto scivolosa per la presenza di ghiaccio, non la rendono ascensione facile. Quando il meteo da un minimo di tregua ed i nuvoloni si diradano, ma è questione di pochi secondi, girandosi indietro si vedono le luci in lontananza di Moshi, girandosi dall'altra parte invece la processione in fila indiana delle luci verso la vetta.

Nonostante ci si muova, si gela letteralmente... il vento schiaffeggia continuamente viso e pelle. Nonostante il cappello di lana, nonostante il passamontagna ed il giubbotto. Siamo oltre i 5000, nel pieno dell'ultima fascia climatica del Kilimangiaro. Nella zona artica, dove abbiamo la metà dell'ossigeno che possiamo respirare alla quota del mare. Cerco di godermela, di pensare che sto scalando il Kili, la vetta più alta d'Africa. Che ho pensato a lungo a tale momento... il problema è che il panorama non aiuta. Nebbia ovunque, un muro bianco di fronte. Null'altro. Visibilità pari a zero.

Continuamente sono costretto ad interrompere il passo regolare e costante perché la roccia ha uno strato sottilissimo di ghiaccio che rende difficile la presa e dunque spesso fa scivolare; folate improvvise di vento gelido fanno perdere l'equilibrio. Aggiustare il passo o riprendersi dalla caduta costringe ad uno sforzo notevole che aumenta il battito cardiaco, devi inevitabilmente fermarti per riprender fiato... finora tuttavia nessun mal di testa. Il mal di montagna è lontano, il mio corpo non ha ancora capito l'inganno. La menzogna continua. La larva è sempre lì. Non muore, non soffre né il freddo né l'altitudine. E' tosta, mortacci suoi. Ma io di più.

Superiamo quasi tutti, molte persone rinunciano e scendono, diverse sottobraccio a guide, impossibilitate a proseguire. Il loro corpo ha capito la menzogna della quota, il mio ancora no. Speriamo che duri, manca poco, l'ultimo sforzo.

Io ed Hendry non parliamo da almeno 2 ore. Ma ci guardiamo e capiamo che va tutto bene. Ognuno assorto nei suoi pensieri e lottando contro i propri demoni. Il mio demone ora si chiama sonno, un sonno sempre più forte. Faccio fatica a tener gli occhi aperti, anche se continuo a salire, pole pole. Molto pole pole. Ho praticamente saltato le ultime due notti, un po' l'altitudine, un po' il parassita di merda, un po' il tempo da lupi e la baldoria dei porters di ieri notte. Sono praticamente coperto di uno strato di neve e ghiaccio. E mi stenderei per terra pur di dormire un po'. Qui, in mezzo alla bufera, a quasi 6000 metri d'altitudine.

Partiti ultimi, io ed Hendry oramai abbiamo superato tutti e non ci sono più luci davanti a noi. Se tutto va bene, saremo i primi in vetta, sarò il primo del 2020 sull'Uhuru Peack via Machame. Mi sforzo di pensare positivo. Bella soddisfazione, no? Partito ultimo, il primo in vetta.

Sopra i 5500 però comincia una lieve nausea. Il passo rallenta e la fatica prende il sopravvento. Mi fermo sempre più spesso. Perdo di vista l'obiettivo. Non so più che sto facendo. Vento gelido, freddo, sonno, assenza di ossigeno, stanchezza. Nausea crescente. C'è tutto. Larva migrans compresa. Merda. Mal di montagna in arrivo e... mal di larva. Hendry invece non ha problemi, anche se è ovviamente affaticato anche lui; ma ha 15 anni meno di me, le notti scorse ha dormito, non ha una larva nel piede e soprattutto scala il Kilimangiaro due volte al mese per lavoro.

Ma la vetta è vicina. 10 minuti allo Stella Point, oltre il quale la salita si addolcisce di molto ed è quasi una passeggiata di un'oretta fino alla sommità dello stratovulcano. Continuo a scalare, passo lentissimo e respiro pesante. Il mio corpo ha capito ora l'inganno: poche ore fa ero 2000 metri sotto.

Vedo lo Stella Point, un piede dopo l'altro... cazzo la roccia, il maledetto ghiaccio di merda... scivolo e riprendermi mi costerà una fatica pazzesca. Adesso la testa mi gira pesantemente, ho le vertigini e mi sembra di perdere l'equilibrio. Mi fermo. Lo stomaco è sottosopra, sono a circa 5700 metri e rimetto l'anima due volte. Stop tecnico di una decina di minuti e riparto stringendo i denti.

Cammino sul plateau di neve che separa lo Stella Point dall' Uhuru Peak, attraversando un paio di punti davvero pericolosi, alla mia destra c'è un pendio ripidissimo, praticamente il vuoto. Scivolare vuol dire farsi un migliaio di metri in caduta libera. Meglio evitare e stare concentrati.

La salita si addolcisce sempre di più, il meteo no. Un muro bianco di nebbia è intorno a me, vento gelido e visibilità di paio di metri al massimo. Il Kili ha deciso: mi conquisterai Stefano, ma dovrai dar fondo a tutte le tue risorse.

Ce l'ho fatta! Io e la larva migrans siamo sulla vetta d'Africa, a quota 5895 m dell'Uhuru Peak

Siamo in vetta alle ore 6.30 di mattina. Poco più di 5 ore dal campo base, un ottimo tempo. Sono il primo uomo a cominciare e terminare la scalata al Kilimangiaro via Machame route nel terzo decennio del secondo millennio. Bella soddisfazione. Ma il panorama purtroppo manco a parlarne. Dovremmo poter vedere i ghiacciai sommitali, il cratere, tutta la Tanzania ed il Kenya... invece solo un muro bianco. A certificare che abbiamo conquistato il tetto d'Africa, la famosa struttura di legno della vetta con i 5 assi orizzontali, più storti che paralleli, dove è scritto, in modo quasi illeggibile per via del gelo e del ghiaccio che li ricopre:

« MOUNT KILIMANJARO »
« CONGRATULATIONS: YOU ARE NOW AT »
« UHURU PEAK, TANZANIA, 5895M/19341Ft AMSL »
« AFRICA'S HIGHEST POINT - WORLD'S HIGHEST FREE STANDING MOUNTAIN »
« ONE OF WORLD'S LARGEST VULCANOES - WORLD HERITAGE AND WONDER OF AFRICA »

Un vento gelido pazzesco, a malapena si sta in piedi. Siamo in 4 di cui 2 guide, tutti eccitati per aver conquistato la vetta d'Africa ma al contempo piuttosto preoccupati per il meteo. Bisogna scendere. Subito. Temperatura stimata di -25°C ma percepita ancora meno per effetto wind chill. Estraggo lo smartphone, tenuto sempre al caldo in tasca... ben memore di quando successo al Cotopaxi in Ecuador, quando il freddo scaricò totalmente la batteria della fotocamera impedendomi le foto in vetta. Ma prendere il cellulare a -25 e scattare delle foto con queste folate così fredde è un'impresa ai limiti dell'impossibile. La foto la voglio, però. Mi devo togliere entrambi i guanti, piuttosto stretti ed aderenti, per poter raggiungere il telefono in una tasca che non vuole più aprirsi. Hendry avverte il pericolo, bisogna tornare indietro... Che sofferenza, manco un minuto di relax possibile in vetta dopo tutta questa fatica! Il paio di selfie vengono malissimo. Hendry viene in mio soccorso e scatta un paio di foto. Anche lui, molto controvoglia, dovrà togliersi i guanti. Scendiamo di corsa ma c'è un piccolo problema! Ho entrambe le mani semicongelate ed il guanto sinistro non ne vuole proprio sapere di rientrare... attimi di panico, 3 persone intorno a me che mi aiutano a rimetterlo. La mano è pietrificata e non collabora. La sbatto, la colpisco mentre scendiamo. Ci alito sopra. Solo mezz'ora dopo riprenderò la sensibilità sulle dita. Un bello spavento. Forse un segno del destino per quello che succederà esattamente 3 mesi dopo.

Il ritorno al campo base è ben più veloce. Ora le gambe vanno. Alle 9 di mattina, dopo un tè caldo, crollo esausto in tenda. Mi chiudo dentro al mio sacco a pelo a mummia con il vento fuori che ancora fischia ed ulula. Dopo due notti in bianco, finalmente cado tra le braccia di Morfeo, felice ed orgoglioso di me. Ce l'ho fatta cazzo! Bravo Stefano! E mi addormento, pensando già al prossimo obiettivo. Aconcagua, quasi 7000 metri, la montagna più alta delle Ande e del continente americano, un'altra delle sette “seven summits”. Sempre di più. Sempre più su. Non mi basta mai.

Ci svegliamo verso mezzogiorno e sento le guide commentare l'ascesa. In pochi ce l'abbiamo fatta stamattina. In 4, due scalatori e due guide e questo mi rende davvero orgoglioso. Sento parlare di -30°C in cima e condizioni proibitive... già, posso confermare. La metà delle persone sono tornate indietro, l'altra metà si è invece accontentata dello Stella Point. I pochissimi che hanno avuto l'intelligenza di prevedere un giorno addizionale per gli imprevisti dell'ascesa, come maltempo o mal di montagna, ritenteranno questa notte. La maggior parte degli alpinisti invece deve accettare la sconfitta e scendere.

Il pomeriggio comincia il rientro a Moshi, stavolta dopo il sonnellino, le gambe volano... 3000 metri di dislivello in discesa, sparati fino al Mweka Camp dove farò l'ultimo pernottamento in tenda. Ironia della sorte, il giorno dopo, l'ultimo prima dell'uscita dal parco, vedrò, alla stessa ora, 6.30 del mattino, la vetta del Kilimangiaro totalmente scoperta, senza nuvole. Mortacci suoi. Eh sì, il Kili ha voluto farmi soffrire, ha voluto farmi sudare ogni centimetro della salita fino all'Uhuru Peak. Ma forse, è stato più bello così. Al Gate d'uscita mi consegnano il certificato di avvenuta ascensione.

Ed ora? Relax in qualche bar sgarrupato di Moshi? Sbronza con Hendry e gli amici? No, non ho tempo. Sempre di corsa. Sempre con i minuti contati. Subito all'aeroporto in partenza per Dar Es Salaam. La birra finale per festeggiare, o meglio, la tonnellata e mezzo di litri di birra, ovviamente di marca Kilimangiaro, me li farò stasera nella capitale. Mancano tre giorni ancora alla partenza per l'Italia ed un'altra, ultimissima, bellissima avventura in Tanzania mi aspetta. Selous Game Reserve!

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