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...verso la Dea Madre dell'universo

Verso Khumjung: la prima vista dell'Everest

Lasciare Namche Bazaar è come per un marinaio lasciare l’ultimo porto sicuro ed affrontare il mare aperto in tempesta. Sopra ci sono freddo e gelo, costi sempre più elevati, mal di testa e notti ipossiche insonni in luride ghiacciaie. Partire da Namche è, allo stesso tempo, esaltante e triste. Esaltante, perché comincia il vero trekking all'Everest Base Camp, quello per pochi fortunati e coraggiosi, lasciando la gran parte degli escursionisti che invece si fermano qui: ti aspettano villaggi sherpa con incredibili monasteri, addirittura scalpi di yeti, panorami indimenticabili con svariati ottomila... Ma anche triste perché la capitale sherpa del Khumbu è davvero un luogo magico e senza tempo dove staresti mesi interi: la nostalgia dell'abbandono è inevitabile. Namche Bazaar segna inevitabilmente lo spartiacque del viaggio: c'è un sopra Namche ed un sotto Namche.

Il sentiero che si inerpica sopra al villaggio tra ginepri e rododendri e consente di raggiungere Kumjung e Tengboche è di grande bellezza naturalistica e paesaggistica; si arriva presto ad un incredibile belvedere, proprio sopra l'anfiteatro naturale di Namche Bazaar sotto il Thamserku. Mi fermo una decina di minuti per fare il pieno visivo di immensità, e via verso il Campo Base. Saluto la “capitale” sherpa ma non per l'ultima volta: tale punto panoramico sarà un passaggio obbligato al ritorno, così forse, avrò nuovamente il privilegio di questa gran visione. Sempre ovviamente se sopravviverò all'Himalaya, alle notti insonni a meno 20, all'altitudine e forse se esistono come sostengono con forza tutti gli sherpa, anche agli yeti.

Saluto Namche Bazaar e parto per il campo base, direzione Khumjung

Il mio entusiasmo è a mille, perché oggi il tempo è bellissimo e probabilmente riuscirò a vedere in prossimità dell'Hotel Everest View per la prima volta la Dea Madre dell'Universo. Tra l'altro non vedo l'ora di poggiare nuovamente le mani su quello che credo sia il pianoforte a coda più alto del mondo... ieri l'emozione nel suonare "Oltremare" di Ludovico Einaudi di fronte all'Everest, al Lhotse ed all'Ama Dablam è stata unica, indescrivibile... e voglio riprovarla!

Per la seconda volta ho il privilegio di suonare un pianoforte a coda di fronte all'Everest, al Lhotse ed all'Ama Dablam

Giorno 3 del trekking, 26 novembre 2019: supero la sgarrupata pista di Syangboche, svolto un angolo. Ma vado piano... ho quasi paura nel guardare... la Dea sicuramente è a nudo ed io avrò un flash che mi rimarrà impresso a vita.... Giro la testa, da destra a sinistra: prima l'imponenza del Thamserku, poi l'Ama Dablam, il Lhotse... Cazzo... Eccola lì! Pazzesco... E' totalmente nuda. Scoperta. Bellissima. Ed io, soltanto a guardarla, ho un orgasmo.

Emozione pazzesca... sua Maestà Everest per la prima volta!

Il sentiero che collega Namche Bazaar a Tengboche passando per i pittoreschi villaggi di Khunde e Khumjung è leggermente più lungo ma più interessante di quello diretto e comincia con una salita in prossimità della pista di atterraggio di Syangboche. Ai piedi della montagna sacra Khumbiyela da un lato e del bellissimo e maestoso Thamserku dal lato opposto, con la fantasmagorica cornice sullo sfondo data da quel capolavoro naturale chiamato Ama Dablam, è adagiato il paesino sherpa di Khumjung, a mio avviso il più tipico, caratteristico ed autentico che si incontra nell'intero trekking dell'EBC. Ogni casetta, col tetto di lamiera rigorosamente verde, è affacciata sul suo piccolo appezzamento di terreno recintato con muretti di pietra e l'immancabile sterco di yak ad essiccare per terra o sopra le pietre delle recinzioni. Siamo nel regno delle patate: qui a Khumjung si coltivano e poi si seppelliscono in delle buche sotto terra per conservarle durante i mesi invernali. L'atmosfera è senza tempo: i cavalli girano indisturbati nella piazza centrale a fianco della primary school fondata da Sir Edmund Hillary dove si ergono maestosi i due enormi stupa bianchi, i bambini festosi e chiassosi con le guanciotte rosse vanno a scuola, con gli zaini di pelle tutti uguali dietro la schiena, gli uomini coltivano la terra o lavorano lo sterco, gli anziani fabbricano, seduti davanti la porta della loro casetta, le ceste di vimini per realizzare i "doko" utilizzati dai portatori, le vecchiette si recano nel monastero rosso per pregare camminando in fila indiana e girando tutte le ruote della preghiera che incontrano... Questo piccolo villaggio sherpa sotto all'Ama Dablam è davvero un viaggio nel tempo: qui l'atmosfera è la stessa che trovò Sir Edmund Hillary 70 anni fa. Sì, anche a Khumjung, come a Namche Bazaar, sarei stato più giorni molto volentieri.

L'abominevole uomo delle nevi

Il centro della vita di Khumjung, meta giornaliera di pellegrinaggio di tutte le vecchiette, è il monastero rosso tibetano, il secondo "gompa" più antico del Khumbu dopo quello di Pangboche. In occasione del centenario della nascita di Hillary (1919-2019), all'interno di esso è stata allestita una piccola mostra fotografica per omaggiare il grande scalatore che il 29 maggio 1953, insieme allo sherpa Tezing Norgay, conquistò per la prima volta la vetta del mondo. Una rapida occhiata alle foto d'epoca ed entro, immergendomi nella magia e nel misticismo del buddhismo animista del Khumbu.

Pochi lo sanno, ma dentro questo bellissimo gompa rosso, è conservato in una scatola di legno e vetro un presunto scalpo di yeti, una creatura leggendaria, parte integrante della cultura e delle credenze delle popolazioni himalayane. Il termine deriva da "yeh-teh" che in lingua sherpa vuol dire "quella cosa là" o anche "uomo delle rocce", mentre il nome "abominevole uomo delle nevi" è essenzialmente dovuto ad un'errata traduzione giornalistica di "Metoh Kangmi" che in lingua nepalese si traduce in "uomo-orso delle nevi".

Yeti Flight Shop all'aeroporto di Kathmandu

Quello dello yeti rimane ancora oggi un mistero che continua ad affascinare ed ad attirare curiosi. Da secoli le guide sherpa nepalesi riferiscono di incontri con lo "yeh-teh". Ho parlato con diversi di loro e tutti me ne hanno confermato l'esistenza: lo considerano una creatura della fauna locale capace di camminare eretto, alto più di due metri e con tratti fisici affini al gorilla ed all’uomo, che vive sulle alte cime e si avventura fra la neve alla ricerca di muschio e licheni e del quale non bisogna aver paura perché è solitario e fugge via se incontra persone, attaccando e diventando aggressivo invece soltanto se avvicinato. Ci credono davvero, ma ho notato che sono piuttosto restii a parlarne, considerandolo un animale umanoide quasi sacro.

I primi racconti ufficiali su tale presunto essere coperto di peli risalgono addirittura al 15° secolo, ma è solo dalla metà del 1900, in concomitanza con le prime ascensioni alpinistiche organizzate che cercavano di scalare l'Everest, che gli avvistamenti si sono moltiplicati stimolando incredibilmente le fantasie occidentali: hanno riferito di aver visto qualcosa di simile ad un uomo-orso addirittura alpinisti del calibro di Shipton, Hillary, Norgay ed anche Messner. Eric Shipton e Michael Ward, nel novembre del 1951, di ritorno da una spedizione, incontrarono delle orme misteriose di piede umanoide, le seguirono per un paio di chilometri per poi desistere in prossimità di un crepaccio, riuscendo in ogni caso a fotografare un'impronta delle dimensioni di circa 33x20 cm. Anche nella fortunata spedizione di Sir Edmund Hillary e Tenzing Norgay che conquistò la vetta dell'Everest nel 1953, gli scalatori riferirono di aver visto in alta quota grandi orme nella neve non meglio identificabili. Le numerose impronte fotografate e misurate fanno del presunto yeh-teh un essere alto circa due metri e mezzo, bipede, col piede più simile a quello di plantigradi che non di scimmie antropomorfe.

Foto della presunta impronta di Yeti fatta dall'alpinista Eric Shipton nel 1951

Nel 1998 l'alpinista e sciatore statunitense Craig Calonica, mentre stava sciando nel lato cinese di Sagarmatha, avvistò due creature che camminavano in posizione eretta. Era ben al di sotto della "zona della morte" e dunque allucinazioni visive sono assolutamente da escludere. Così dirà: «I saw something that was not human, that was not a gorilla, not a deer, not a goat and not a bear». Due anni prima, Reinhold Messner aveva avvistato, in una regione del Tibet orientale, una specie di orso delle nevi, in piedi sulle zampe posteriori. Il grande scalatore italiano per tutta la vita sosterrà che lo yeti esiste davvero, ma altro non è che una specie di raro orso. In effetti il genetista Bryan Sykes di Oxford, analizzando il DNA di peli di animali che la tradizione locale attribuisce allo yeti e confrontandolo col genoma di altri animali, scoprì una corrispondenza genetica totale con un campione della mascella di un antico orso polare delle Isole Svalbard di svariate decine di migliaia di anni fa, proprio il periodo in cui avveniva la speciazione, ovvero la separazione di due popolazioni in specie distinte, tra orso polare ed orso bruno: egli sostiene pertanto che la creatura leggendaria himalayana potrebbe essere una specie ibrida tra i due orsi. Il lavoro non è tuttavia esente da critiche: alcuni ricercatori inglesi e danesi sostengono tra le altre cose, che le analisi di Sykes abbiano incluso artefatti di DNA danneggiato e dunque siano poco attendibili; concordano con tale analisi anche altri studiosi americani, i quali pensano che non ci sia alcuna necessità di sostituire un "anomalo primate" con un "anomalo orso".

Negli anni sono state raccolte dalla popolazione locale ciocche di pelo, ossa ed escrementi che apparterrebbero allo yeti anche se non è stato mai possibile documentare con certezza le prove dell'esistenza di questo essere, la cui identità è pertanto tuttora avvolta nel mistero. Nella regione del Khumbu, esistono diversi copricapi fatti con presunti scalpi di pelle di yeti. Ne fu trovato uno negli anni '50 nel monastero di Pangboche ed i peli furono analizzati da esperti che però non riuscirono a trovare la specie animale conosciuta corrispondente. Addirittura nel monastero di Tengboche, fu rinvenuta una mano disseccata attribuita da uno dei monaci allo yeti: un dito fu inviato in Europa, fu esaminato e classificato come appartenente a un primate di specie sconosciuta.

Edmund Hillary, grandissimo appassionato oltreché d'alpinismo, anche di cultura sherpa, trovò nel monastero buddista di Khumjung uno dei famosi copricapi fatti con scalpo di yeti: era di proprietà di una donna anziana che lo teneva nascosto ben al sicuro, ritenendolo un portafortuna per tutti gli abitanti del villaggio. Hillary avrebbe voluto portare il cuoio capelluto con sé a casa per farlo analizzare da fidati e competenti zoologi per poi ovviamente restituirlo, ma l'anziana donna rifiutava costantemente di cederlo, avendo paura che portasse sventura alla comunità. Hillary riuscì a portare lo scalpo a casa per l'analisi di laboratorio promettendo di fare una grossa donazione al monastero e di costruire la scuola locale, portando anche con sé un uomo del posto che avrebbe garantito la cura e la sicurezza della "reliquia" e dello stesso villaggio. Gli scienziati occidentali conclusero questa volta però, che con buona probabilità lo scalpo fosse stato ricavato dalla pelle di un'antilope o capra locale e modellato in una forma simile a un teschio. Hillary come da accordi, ad esami terminati, restituì lo scalpo, costruì la scuola di Khumjung che si trova proprio nella piazza centrale vicino ai due chörten giganti e finanziò molti altri progetti pubblici a beneficio della gente della zona.

Lo scalpo (o presunto tale) di uno Yeti conservato nel monastero di Khumjung

La gente del posto tuttavia, alla conclusione scettica e negativa degli studiosi non crede: per loro, quello conservato nel bellissimo monastero di Khumjung è veramente il cuoio capelluto di uno yeh-teh. Il monaco responsabile della custodia dell'oggetto misterioso, ha ad esempio risposto così a chi gli chiedeva, dubbioso, dell'esistenza dell'uomo-orso delle nevi: «Non crediamo in giraffe e leoni in Nepal perché non ce ne sono. Allo stesso modo, voi non credete negli yeti perché non ne avete nel vostro paese».

A spegnere, forse definitivamente, la magia, il mistero e gli entusiasmi, ci pensa però la scienza. Il mitico "abominevole uomo delle nevi" che infesta Everest e dintorni, esiste davvero, ma non è una creatura “preumanoide” mostruosa, bensì con buona probabilità, il rarissimo e sfuggente orso bruno dell'Himalaya (Ursus arctos isabellinus), talmente raro e misterioso che il numero stesso degli esemplari in libertà è totalmente sconosciuto. A stabilirlo è stato uno studio, pubblicato sui "Proceedings of the Royal Society B", condotto da una collaborazione di ricercatori di università americane, norvegesi, francesi, pakistane e singaporiane.

Charlotte Lindqvist (responsabile della ricerca) ed i suoi colleghi hanno analizzato il DNA ricavato da diversi reperti, tra cui ossa, denti, pelle, peli ed escrementi, raccolti nella regione himalayana, provenienti da musei, monasteri e collezioni private e attribuiti allo yeti. Ad eccezione di un solo caso in cui la provenienza del campione era attribuibile ad un cane, in tutti gli altri casi i reperti provenivano da orsi neri asiatici, orsi bruni tibetani e soprattutto dal rarissimo orso bruno dell'Himalaya, difficilissimo da osservare ed oramai in via d'estinzione, il quale a causa del lungo periodo di isolamento dovuto all'orografia del territorio ed all'espansione dei ghiacciai durante una glaciazione avvenuta 650.000 anni fa, ha seguito percorso evolutivo totalmente indipendente dalle altre specie euroasiatiche ed americane.

Un rarissimo esemplare di orso bruno dell'Himalaya (Ursus arctos isabellinus)

«Tutti questi elementi, analizzati con la prova del Dna, sono in realtà i resti di 23 diversi orsi locali», afferma Lindqvist, lasciando aperta tuttavia una speranza, a tutti i sognatori del mondo: «Sono sicura che la leggenda e il mito vivranno ancora... Non si può dare per certo che non ci sia niente in quei posti».

Tengboche e Pangboche

Talmente è bello Khumjung che ci resto praticamente tutto il terzo giorno, mettendomi in marcia per Tengboche soltanto nel pomeriggio, piuttosto tardi. La salita a Tengboche è di quelle che spezzano le gambe: prima si scende di quota nella valle scavata dal fiume Dudh Kosi poi si risale nuovamente fino a quasi 4000 metri. Non si arriva mai e le gambe urlano pietà... il tutto mentre i porters locali ti passano vicino quasi fischiettando.

In marcia verso Tengboche

Il panorama è al solito sublime, con foreste di rododendri, cascate, vette imbiancate sullo sfondo (e che vette...), lo scrosciare del fiume ed i soliti vertiginosi ponti tibetani da attraversare, possibilmente non insieme a carovane di yak. Nel percorso Namche - Tengboche - Pangboche il re incontrastato è l'angelo dell'Ama Dablam che ti abbraccia con le sue ali e ti accompagna sempre alla tua destra... l'Everest invece si nasconde la maggior parte del tempo, ma quando compare lascia senza fiato.

Il paesino sherpa di Tengboche, sotto all'Ama Dablam e con il Lhotse sullo sfondo

Dopo Namche, dovendo salire di quota, è indifferente pernottare a Teng o a Pang, distanti tra loro circa un'oretta e mezza di cammino, perché l'altitudine è la stessa, poco meno di 4000 metri e dunque non si superano, coerentemente con la regola n. 2 illustrata nel post precedente, i 500-600 metri di dislivello giornaliero. Raggiungo Thyangboche a notte inoltrata, dunque mi fermo qui, camminando l'ultima ora al buio totale, sotto le stelle facendomi guidare unicamente dallo sterco di yak lungo il sentiero. A proposito, prima che qualcuno mi segnala l'errore: a differenza della lingua tibetana, alla quale è molto affine, quella sherpa non ha tradizione scritta, non esiste uniformità nella grafia dei nomi dei villaggi e dunque si ricorre a traduzioni fonetiche “multiple” piuttosto arbitrarie: così Tengboche, si può scrivere anche Thyangboche o Thyanpoche o Tengpoche e la stessa cosa accade per i nomi degli altri villaggi. Tengboche o Thyangboche che sia, a quota 3850 metri, non è in realtà un vero e proprio villaggio, piuttosto uno spiazzale erboso pianeggiante invaso da cavalli e yak con un gruppo di 3-4 casette di pietra adibite a guesthouse vicino al Dawa Choling Gompa, il più grande e bel monastero del Khumbu, il più citato nei libri di alpinismo, la madre di tutti i santuari montani. Non il più antico assolutamente, essendo stato edificato solo nel 1916 e ricostruito due volte, la prima dopo il grande terremoto del 1934, la seconda dopo l'incendio del 1989. E' qui che tutti gli alpinisti che ambiscono a toccare la vetta dell'Everest, devono assistere alla cerimonia denominata “Puja” (in sanscrito vuol dire “riverenza”), un rito propiziatorio per ingraziarsi la Dea Madre dell'Universo rendendole omaggio con offerte e preghiere, placando così la sua ira.

Il paesino sherpa di Pangboche, sotto all'Ama Dablam e con il Lhotse sullo sfondo coperto dalle nuvole

Se Tengboche ha il monastero più grande del Khumbu, il più antico invece lo possiede Pangboche, un incantevole villaggio dedito alla coltivazione di patate e all’allevamento di yak, immerso, esattamente d'altronde come Tengboche, in una cornice naturalistica semplicemente fantasmagorica, trovandosi, con Everest e Lhotse perfettamente visibili sullo sfondo, proprio sotto l'Ama Dablam: a due ore di marcia dal villaggio infatti si trova il campo base del Cervino dell'Himalaya, da cui partono le spedizioni alla vetta.

La vita nei lodge sherpa

Sopra Namche Bazaar in ogni caso le comodità finiscono. Da Namche a Gorakshep si può pernottare e mettere qualcosa sotto i denti in guesthouse di pietra degli sherpa locali, sostanzialmente dei rifugi di montagna piuttosto spartani ed economici, dai costi comunque ovviamente crescenti all'aumentare della quota: il pernottamento è gratuito se si consumano una cena ed una colazione e tutto compreso non si superano i 7-8 euro al giorno alla “bassa quota” di Tengboche ed i 15 alla quota massima di Gorakshep. Sì, uno dei trekking più belli del mondo è anche uno dei più economici. L’elettricità in queste guesthouse sherpa è inesistente o scarsa, garantita da pannelli solari sopra i tetti di lamiera: la si paga ad ore, per l'eventuale ricarica dei dispositivi elettronici. Il superfluo, come l'elettricità e l'acqua in bottiglia costano parecchio. Io preferirò utilizzare un caricabatterie solare fissato dietro il mio zaino, che funzionerà davvero alla grande, e potabilizzare, con pastiglie acquistate a Namche Bazaar, l'acqua di ruscello, in ogni caso davvero pura, di ottima qualità e disponibile in quantità illimitata, utilizzata dalle stesse guesthouse che a richiesta riempiono gratuitamente e senza limiti le borracce degli escursionisti.

Non aspettatevi nemmeno bagno in camera, con doccia calda e jacuzzi, magari pure una sauna ed un bagno turco... il bagno è una latrina, un cesso turco in comune, dove spesso nemmeno è possibile scaricare perché il secchio con l'acqua da tirare a fianco è totalmente congelato. Immaginate la mattina alle 6 quando ci si sveglia e ci si devono lavare viso e denti che goduria!

Entri comunque in queste strutture sherpa e sembra di stare in un lazzaretto più che in un rifugio di montagna, perché molti tossiscono. E' la fatidica e temuta “tosse del Khumbu”, dovuta all'aria secca della montagna, all'altitudine, alla disidratazione, al fumo dovuto alla pessima combustione della stufa dei lodge ed alla polvere delle mulattiere alzata dai trekkers e dagli animali, per combattere la quale, la cosa migliore è bere tantissimo, magari bevande calde come zuppe d'aglio o ginger tea, e respirare aria calda e pulita, meglio se dal naso, proteggendo le vie respiratorie con un buff.

In queste strutture sherpa c’è all'ingresso sempre un’area comune che funge da sala pranzo, con la stufa al centro alimentata a sterco di yak che scalda l'ambiente e funge la notte anche da piatto cottura cibi e riscaldamento bevande. Di giorno e col sole invece, si cucina e si scaldano pasti e bevande con caratteristici forni solari parabolici. Un pasto caldo è sempre assicurato, magari una buonissima e bollente “sherpa stew” (una zuppa tradizionale vegetale), un “dhal bat” (riso e lenticchie con curry), una zuppa d'aglio o dei “momo”, una specie di raviolo ripieno di carne o di verdure, tutto accompagnato dall'ottimo ginger tea, che secondo i locali aiuta molto a prevenire il mal di montagna.

Fantastica ovviamente l'atmosfera serale: sotto una luce fioca, sorseggiando tè bollente, escursionisti più o meno stremati, più o meno allegri o silenziosi perché colpiti da mal d'altitudine, e sherpa freschi invece come una rosa, si ritrovano intorno alla stufa intirizziti dal freddo condividendo esperienze, sogni, informazioni e pericoli sul trekking, tempi di percorrenza delle tappe... si raccontano leggende di yeti o spedizioni alpinistiche pazzesche... Sono molto pochi gli sherpa che sanno esprimersi in inglese, anche solo grossolanamente, ma quando li incontri bisogna drizzare bene le orecchie perché sono guide... a Lobuche e Gorakshep, molti degli sherpa che sanno parlare inglese e vi servono un momo o una zuppa d'aglio, sono saliti sulla vetta del mondo ed hanno scalato altri 8000. Vedi il riflesso dei ghiacciai nei loro occhi, vedi l'adrenalinico Khumbu Icefall, vedi l'orrore dei morti che hanno lasciato lassù o recuperato. Sono eroi quasi analfabeti che hanno salvato vite e trasportato carichi pazzeschi a quote assurde; potrebbero scrivere decine di libri sulla loro vita ed invece stanno lì, a servirti una zuppa d'aglio parlando del più e del meno. E tu ascolti estasiato, godendoti ogni secondo di quei magici momenti. Niente elettricità e wi-fi per più di una settimana. Niente news (o meglio fake-news) dal mondo. Fantastico. Quanto mi piace viaggiare!

A fianco di quella stufetta puzzolente, senti che quelli accanto a te, non sono perfetti sconosciuti ma i migliori amici di sempre, quelli con i quali poter parlare di tutto ed andare in capo al mondo, perché condividono con te sogni, passioni, spesso ideali... come te si emozionano infinitamente vedendo l'Ama Dablam sotto un cielo stellato o l'Everest sulla sommità del Kala Patthar.

Interno di una guesthouse con la stufa al centro alimentata a sterco di yak

E' vicino a questa stufetta che la sera, prima di addormentarmi, sfogo un'altra mia grande passione, la lettura. Per me un buon libro è stato sempre il miglior compagno di viaggio, negli inevitabilmente numerosi momenti di solitudine. Il libro di questo viaggio è “Aria sottile” di John Krakauer, un resoconto dettagliato della tragedia del 1996 nella quale morirono 8 dei 24 alpinisti che tentavano di scalare la vetta del mondo. Su questa vicenda è stato realizzato anche un film davvero avvincente, di nome ovviamente “Everest”.

Il mio compagno di viaggio "Aria sottile" di Krakauer accanto ad una bollente "sherpa stew"

John Krakauer era un giornalista con discreta esperienza da scalatore che, volendo raccontare ai lettori della rivista per la quale lavorava l'incredibile esperienza dell'ascesa alla vetta più alta del mondo, si unì ad una spedizione commerciale, alla quale partecipavano anche i due mostri sacri dell'alpinismo Rob Hall e Scott Fisher, guide e pionieri che contribuirono a rendere per la prima volta accessibile a (quasi) tutti l’avventura sull'Everest, nonché rispettivamente fondatori delle due società “Adventure Consultants” e “Mountain Madness”.

Le condizioni meteorologiche sembravano ideali ed invece una tremenda e gelida tempesta sopra gli 8000 sconvolse tutti i piani: nella disperata battaglia per la sopravvivenza, alla fine di quel drammatico giorno, ben 8 scalatori troveranno la morte, compresi gli stessi Rob Hall e Scott Fisher: incontrerò gli stupa alla loro memoria nel cammino poco prima di arrivare a Lobuche. L'autore riuscirà a sopravvivere e racconterà nel bellissimo libro le complesse circostanze e l'intreccio di decisioni ed errori che condussero un gruppo più o meno amatoriale a lottare contro la morte nella famigerata "Death Zone", quella zona ai limiti della troposfera, tipicamente sopra i 7600 metri, la quota di crociera di un boeing praticamente, oltre la quale a causa della ridotta presenza di ossigeno e del freddo intenso, la vita umana non è più sostenibile. Sopra l'Everest c'è solo il 30% dell'ossigeno presente alla quota del mare, la saturazione di ossigeno nel sangue precipita al 25% e si perdono più dell'80% delle proprie capacità fisiche e mentali. Pur con le inevitabili differenze individuali, a queste altitudini l'acclimatamento non è più possibile ed un qualsiasi essere umano per quanto allenato e ben coperto, non può stare più di qualche giorno al massimo senza andar incontro a morte certa perché le cellule del corpo cominciano a morire e le funzioni vitali si riducono fino a spegnersi del tutto. Tutti gli alpinisti professionisti sanno pertanto che dalla zona della morte occorre scappare il prima possibile per evitare l'incorrere di danni irreversibili. Ad 8 scalatori di quella sfortunata spedizione non fu possibile.

Tale reportage non fu comunque esente da critiche, come quella della guida russa Anatoli Boukreev, successivamente deceduto sull'Annapurna, in risposta all'accusa mossagli da Krakauer di aver scelto di scalare la cima senza bombole d'ossigeno e di aver poi ridisceso la montagna davanti ai suoi clienti abbandonandoli al loro destino.

In ogni caso comunque, sogni e libri a parte, le serate post trekking sono brevi: si cammina per gran parte del giorno, la notte arriva presto, alle 6 e 30 di pomeriggio è buio totale e così alle 9 al massimo si è dentro il sacco a pelo; ci si sveglia presto, di primo mattino, ed alle 7 si è spesso già in marcia. Le stanze singole o doppie per dormire sono davvero piccole e semplici, con una tavola di legno rialzata dove metter il sacco a pelo, una coperta fornita ed un piccolo comodino: diventano praticamente delle ghiacciaie sopra i 4500 metri, da Dingboche in poi. Di queste ghiacciaie ricordo una cosa in particolare che mi costava tanto sacrificio: bere 5-6 litri di acqua al giorno è fondamentale come già detto per favorire l'acclimatamento e prevenire il mal di montagna ma è anche un incubo notturno per la diuresi, tra l'altro accelerata anche dall'altitudine! Sfinito dopo una giornata di cammino, sei al buio ed al silenzio in questa ghiacciaia a meno 10, anche meno 20 sopra i 5000 metri (a Lobuche e Gorakshep), sei rannicchiato al calduccio nel tuo caldo sacco a pelo a mummia Ferrino che soltanto cacciando un dito lo congeli all'istante, e porcaccia puttena, per dirla alla Lino Banfi, hai la vescica piena stracolma! Dilemma dei dilemmi: svuotarla, liberandosi da questa sofferenza, ma uscire dal sacco a pelo mezzo nudo al gelo, rivestirsi ed andare alla latrina puzzolente oppure fuori a farla in mezzo agli yak che ti osservano, oppure tenersela, soffrire e rimanere al calduccio... dilemma vescicale notturno a parte che mi accompagnerà per una buona settimana da Namche Bazaar in poi, la notte alle alte quote si dorme comunque davvero male, tanto peggio quanto più sei alto: l'aria rarefatta infatti costringe a continue apnee svegliandoti frequentemente.

La sberla di Dingboche

L'obiettivo del giorno 4 è raggiungere Dingboche, un villaggio sherpa a 4.400 metri d'altezza con una vista spettacolare sul Lhotse, dove sarò obbligato a fermarmi due notti per l'acclimatamento. Da Pangboche in poi la vegetazione poco a poco scompare lasciando il posto al deserto d'alta quota: pura roccia, pietre, sabbia e rari arbusti. Il clima diventa rigido con forti sbalzi termici diurni: di giorno si può stare a +10 gradi ma di notte si scende anche a meno 20.

Sopra i 4000 metri in ogni caso non si scherza più: la montagna diventa estremamente democratica e non concede sconti a nessuno. L'altitudine abbatte il capitalismo, distrugge il neoliberismo ed instaura il comunismo: l’uguaglianza, quassù, è la regola, e la modestia, l'umiltà, il rispetto verso l'ambiente, la consapevolezza di sé e del proprio ruolo nell'universo, sono obblighi morali. L’Everest comincia a guardarti ed a scrutarti, osservando ogni tuo gesto, ogni tuo singolo movimento. Ti studia in silenzio, senza che tu te ne accorga; devi portarle rispetto e venerazione perché, che tu ci creda o no, lei è la Dea Madre dell'Universo e tu, in quelle zone, sei solo un moscerino, un intruso. Se la vuoi avere, se la vuoi conquistare, devi giocare secondo le sue regole. Che sono comunque semplici e ben note, ma non puoi sgarrare. Devi esser allenato, molto allenato, perché non si può avere il massimo senza dare il massimo: devi adattare il tuo corpo all’assenza progressiva di ossigeno, dunque camminare lentamente, rispettare le tappe di acclimatamento, bere tantissima acqua, anche sotto forma di zuppa d’aglio e tè allo zenzero, evitare la carne mangiando soprattutto legumi e verdura contenuti ad esempio nei piatti sherpa tradizionali del dahl bat e sherpa stew. Sono banditi assolutamente alcolici e sigarette. Ti devi svegliare all’alba e camminare la mattina presto, zaino leggerissimo, vita sana ed ascetica. Certo, si può sempre provare a barare, magari saltare una tappa o affrettare il passo per arrivare prima. Ma l’Everest lo vede. Sorride di cotanta stupidità e non ti lascia passare, facendoti pagare il prezzo più alto, ovvero ti fa perdere il tempo guadagnato, tutti quei metri di quota faticosamente conquistati durante la giornata: devi scendere di corsa in preda al mal di testa e alla nausea, per evitare guai maggiori.

Da Dingboche in poi si fa sul serio davvero. Dingboche è lo spartiacque tra chi può farcela e chi si ferma e torna indietro. Per la maggior parte delle persone è qui che avviene il primo vero incontro con l'altitudine, è qui il luogo in cui si ha vera consapevolezza che al proprio corpo manca ossigeno vitale. Si diventa più silenziosi ed introspettivi, si percepisce sempre più il fiatone sul collo dei giganti himalayani che ti osservano, che studiano ogni minimo comportamento per scoprire eventuali sgarri ed inganni. Anche le guide sherpa del posto osservano i clienti per scorgere segnali di malessere e pericolo. Con l'Everest non si bara, scordatevelo proprio.

Ed io so bene di aver fatto quasi tutto alla perfezione tranne una cosa: ho tagliato un giorno di viaggio all'andata per guadagnare tempo... L'Everest l'ha visto. Alla dea non sfugge niente e deve farmela pagare. Poco, perché comunque per il resto, sono stato molto rispettoso e molto scrupoloso, ma deve farmela pagare. E poi ho un'altra colpa gravissima che lei non può accettare: oggi, 27 novembre 2019, la mia patatina Maya compie 10 anni ed io non sono presente: le ho fatto recapitare una rosa con un bigliettino ed ho preparato un video davanti all'Everest per lei, ma comunque non ci sono...

Dingboche, 4.400 metri... d'ora in poi non si scherza più!

Entro nel tardo pomeriggio in una guesthouse di Dingboche. Sto bene, un po' stanco come normale che sia, ed affamatissimo. Da stamattina che non mangio. Mi siedo e chiedo una sherpa stew, un piatto di momo ed il solito ginger tea. Fa freddo. La stufa è accesa, con i soliti trekkers e sherpa tutt'intorno a scaldarsi.

C'è però qualcosa che non va perché l'aria puzza e poco a poco diviene irrespirabile. E' lo sterco di yak, il quale brucia male anche nelle circostanze migliori, figurarsi nell'aria povera di ossigeno a 4500 metri... l'ambiente divenne ben presto saturo di fumo denso ed acre. Gli sherpa restano dentro, ci sono abituati, i pochi escursionisti presenti, dopo un po', invece escono nauseati. Me compreso, e da quel momento in poi, la testa comincia a girarmi. Due chiodi mi si ficcano nelle tempie e non riesco a toglierli. Vado in bagno, o meglio, nella latrina sporca all'inverosimile, e vomito il mondo. Ho le vertigini e perdita d'equilibrio, come se stessi in un forte dopo sbornia. I piatti ordinati rimarranno lì sul tavolo perché lo stomaco si chiude impietosamente come quando si toccano le antenne di una chiocciola. Capisco immediatamente che ho il mal di montagna, scatenato sicuramente dal fumo della stanza. Impossibile scendere, è notte fonda. Sono solo, al buio con il tempo fuori che urla e tutti già a dormire. Così mi chiudo, con la testa che mi scoppia, ed il mondo che mi gira attorno a velocità impazzita, nel sacco a pelo. Dingboche lo ricorderò per sempre come il mal di montagna più violento della mia vita. Una sberla paurosa. Qualcosa di simile, ma inferiore, lo vivrò sopra i 5500 del Kilimangiaro, vicino alla vetta.

Fortunatamente la notte dormo bene e la mattina mi sveglio che mi sento meglio. Posso anche permettermi di dormire di più perché non posso procedere oltre, dovendo nuovamente pernottare a 4400 metri per l'acclimatamento. Riscaldo sulla stufa un litro di acqua gelata e ma la bevo alla calata, senza pensarci, come infuso di zenzero. Sto decisamente meglio e metto anche qualcosa sotto i denti. Basta cazzate, non si può sgarrare più con la dea.

Scala alto, dormi basso: oggi, giorno 5 del trekking, farò escursione di acclimatamento alla montagna che sovrasta Dingboche che consente una strepitosa vista sul Khumbu, il Nangkartshang Peak, chiamato anche Dingboche Ri: per la prima volta nell'Himalaya, supererò i 5000 metri. Sì, capisco bene quello che pensate: in Europa, l’idea di scalare un 5000 è terrificante... si pensa che ci aspettano cime innevate, ghiaccio, crepacci, freddo e vento gelido... Ma qui è tutto diverso, come sulle Ande in Perù o in Ecuador, o in Africa sul Kilimangiaro, dove, carenza d'ossigeno a parte, gli ambienti naturalistici sono “shiftati” di oltre 2000 metri a causa delle diverse latitudini in gioco. A 3000 metri, dove in Italia troveremmo al massimo ghiaccio e nevi perenni, in Nepal ci sono campi coltivati, fiori, foreste di rododendri e magnolie; avvicinandosi ai 4000 compare il deserto d'alta quota fin quasi i 6000 metri, dove cominciano neve e ghiaccio.

L'incredibile vista dell'Ama Dablam dalla vetta del Nangkartshang (5.083 m)

La salita di 3 ore al Nangkartshang sarà durissima, ma aiuterà molto l'acclimatamento e sarà ricompensata da panorami assurdi sul Khumbu. L'Ama Dablam sembrerà di toccarla. L'angelo mi abbraccia e mi tranquillizza dopo la sera precedente. L'Everest ha parlato: non devo scendere ma mi è permesso continuare. Dovevo semplicemente pagare pegno, una sera ed una notte, per lo sgarro fatto, per la saccenza, la superbia, l'arroganza che ho avuto nel decidere che la mia preparazione fisica e mentale erano tali da permettermi di tagliare un giorno di viaggio. Grazie Dea Madre dell'Universo, ti chiedo umilmente scusa. Giuro che non lo farò mai più.

Ultimi step e ci siamo: Lobuche e Gorakshep

Lobuche e Gorakshep sono gli ultimi due step prima del Kala Phattar e dell'EBC. Oggi, sesto giorno del trekking, il tempo è pessimo, per la prima volta. Fa molto freddo e c'è nebbia, a tratti la strada nemmeno si vede. Cammino totalmente solo perché siamo in bassa stagione ed a queste quote, in ogni caso arrivano in pochi; la bassa visibilità mi costringe anche di giorno, in molti punti dove sono in dubbio, a farmi guidare dallo sterco degli yak lasciato lungo il sentiero. Sto abbastanza bene dopo la sberla di Dingboche e l'acclimatamento di due giorni ai suoi 4400 metri, anche se la fatica si sente ed il respiro è molto affannato. Non potrebbe esser diversamente, sono una persona normale, ben allenata, ma mica uno sherpa! In ogni caso sono abbastanza preoccupato per il tempo... Domani arriverò a Gorakshep, salirò sul Kala Phattar e potrò vedere per la prima volta da vicino l'Everest... ma se il tempo è questo, è un disastro! Probabilmente non vedrò nulla, se non un muro bianco di nebbia...

La porta d’ingresso a Lobuche è una specie di memorial di stupa legati tra loro dal solito fitto intreccio di "lung-ta”, le onnipresenti bandierine di preghiera. Gli stupa si improvvisano anche con semplici pietre sovrapposte a formare piramidi delle più svariate dimensioni: ognuno di essi è dedicato alla memoria di sherpa ed alpinisti caduti nelle montagne, nell'Himalaya e nell'Everest in particolare, ma non solo. Nomi altisonanti, come Rob Hall e Scott Fisher, oppure Babu Chiri, lo sherpa che salì 10 volte sull'Everest e morì l'undicesima, ma anche alpinisti minori e sconosciuti, come il primo iraniano a tentare invano l'ascesa o dell'italiano Mario Merelli purtroppo morto in un incidente alpinistico sulle Alpi nel 2012... in realtà, sconosciuti solo per la massa perché Mario Merelli ad esempio, è stato uno degli "himalaisti" più attivi e conosciuti degli ultimi anni: nel corso di 18 spedizioni è salito su ben 10 ottomila: l'Everest nel 2001 (parete sud) e nel 2004 (parete nord), Makalu e Kangchenjunga (pochi la conoscono ma è la terza montagna più alta del mondo dopo Everest e K2), Shisha Pangma nel 2003 e nel 2005, e poi Broad Peak, Gasherbrum I, Lhotse, Cho Oyu, Dhaulagiri. E la più mortale di tutte, l'Annapurna. Direi non proprio quindi un escursionista della domenica...

Arrivo a Lobuche

Lobuche, in ogni caso, tra tutti i villaggi del trekking credo sia il più squallido, il meno caratteristico e spettacolare a livello paesaggistico con la vetta del Pumori appena visibile sullo sfondo: un pugno di casette di pietra attorno ad un ruscello congelato, immerse in un paesaggio spettrale, con gli yak che gironzolano indisturbati vicino alla piattaforma di pietra d'atterraggio degli elicotteri ed i loro escrementi messi ad essiccare un po' ovunque.

Arrivo verso le quattro di pomeriggio con un tempaccio da lupi ed in netto peggioramento. Sfinito dalla fatica, fiato corto a causa dell'altitudine e tutto infreddolito, entro nella locanda "Mother Earth" dove lascio lo zaino. Per la prima volta, dormirò (di merda) sopra i 5000. Non l'ho mai fatto, né nelle Ande quando ho scalato il Cotopaxi, né nel Kilimangiaro perché i loro campi base erano entrambi ad una quota leggermente inferiore. Vorrei ripartire all'esplorazione dei dintorni, soprattutto visitare la famosa Piramide del CNR di Ardito Desio, a mezzoretta di distanza da qui, ma apro il portone d'ingresso della guesthouse e capisco che non è decisamente il caso: vento gelido, nevischio che ti buca la pelle del viso come tanti piccoli aghetti, temperatura molto bassa ed una cappa di nebbia che non si vede a mezzo metro... oggettivamente è rischioso riuscire di nuovo, non troverei la strada... e se mi perdo? E poi non sto neppure in formissima... lasciamo stare, meglio riposarsi un po' che domani sarà un giorno durissimo. La Piramide del CNR la visiterò al ritorno, sulla via dei laghi di Gokyo. E così, alle 4 e 30 di pomeriggio mi piazzo col mio bel libro di fronte alla stufetta sorseggiando un tè di zenzero bollente.

L'altitudine comunque si sente tutta. Non ho molto appetito, ho un po' di nausea e mal di testa, effetti fisiologici del tutto normali a quest'altezza. Non mangio nulla e già alle 8 di sera mi ficco dentro il sacco a pelo, per la prima notte, piuttosto turbolenta, della mia vita sopra i 5000. Con questo tempaccio, stanotte sarà un inferno dormire. Il vento ulula ed il rifugio è un'autentica ghiacciaia, in camera sono a meno 20 con il vetro della finestra pure rotto. In fisica si direbbe “perfetta termalizzazione”: temperatura esterna = temperatura interna. Meno male però che il mio sacco a pelo a mummia, pur leggerissimo, è davvero caldo: tiro su la cerniera fino al cappuccio e divento Tutankhamon, sperando che la vescica mia dia tregua. Provo a chiudere gli occhi con un po' di angoscia per il tempo di domani, che non promette nulla di buono. Riuscirò a vedere l'Everest? O vedrò solo un muro di nebbia bianca?

La mattina seguente, 30 novembre 2019, il fatidico giorno 7 del trekking, accade però il miracolo. Nel cielo non c'è nemmeno una nuvola. Il tempo si è aperto. Io sono distrutto da una notte orribile, stanco ed affaticato, con mal di testa, nausea ed inappetenza. Non tocco cibo da 1 giorno. Ma le tappe del mio incredibile programma al momento sono state tutte rispettate. E poi oggi, proprio nel giorno più importante, il tempo è strepitoso: tutti gli sherpa che incontro mi dicono che un cielo così limpido, senza nemmeno una nuvola, non si vedeva da diverse settimane! Che felicità! Bando alle ciance, si va a Gorakshep. Si va a vedere l'Everest da vicino!

Il cammino di circa 3 ore verso Gorak, in salita e su una morena, è accompagnato dalla vista del Pumori, una splendida e superba piramide imbiancata alta 7.165 metri, a mio avviso insieme all'Ama Dablam, al Nuptse ed al Thamserku, una delle montagne più belle e scenografiche del trekking.

Gorakshep fu il Campo Base originario stabilito nel 1953 ed è l'ultimo step di acclimatamento prima della salita all'EBC ed al Kala Patthar: una manciata di case col tetto blu di lamiera sono affacciate sull'inquietante ghiacciaio del Khumbu e collocate su uno spiazzale di sassi e sabbia grigia che un tempo era il letto di un lago, sul quale si fronteggiano maestosi il Pumori ed il Nuptse quasi a sfidarsi a duello tra chi è il più abbagliante. Il nome del minuscolo villaggio in nepalese significa “corvi morti” e mi dicono sia stato dato a causa della presenza costante di corvi neri nel paesino e della totale mancanza di vegetazione di questo luogo, piuttosto desolato e squallido in sé, se non fosse per la cornice fantasmagorica di montagne che la circonda.

Vista panoramica di Gorakshep, adiacente al ghiacciaio del Khumbu, sotto il Pumori (a sinistra) ed il Nuptse (a destra)

Kala Phattar, la vista più bella dell'Everest

Arrivo a Gorak verso le 11 di mattina e lascio lo zaino nella prima bettola ghiacciata che incontro. Sono quasi solo: arrivare a Gorakshep nel trekking EBC, è un po' come arrivare all'ultimo anno di fisica all'università: partono in tanti, arrivano in pochissimi. La maggior parte delle persone si ferma a Namche Bazaar (ed al secondo anno di corso...), oltre non va quasi nessuno.

A questo punto che faccio? Dove vado? Kala Patthar (KP) o Everest Base Camp (EBC)? In realtà c'è poco da pensare... Contrariamente a quello che si potrebbe credere infatti, al Campo Base, l'Everest non è visibile, se non una “puntina” molto nascosta tra le altre vette, dunque andarci con una giornata bella o nuvolosa fa in realtà poca differenza; al contrario, sulla sommità del KP che sovrasta Gorakshep, si ha la vista più incredibile ed impressionante del trekking, con la maestosa parete sud dell'Everest tra il Changtse a sinistra ed il Nuptse a destra, tanto che l'ascensione al KP viene considerata dagli escursionisti il vero ed unico obiettivo dell'intero viaggio. Con un cielo limpido come questo, la scelta praticamente risulta obbligata.

Solitamente i programmi delle guide sherpa o delle agenzie viaggi prevedono che gli escursionisti, con una levataccia all'alba, raggiungano il Campo Base in giornata da Lobuche e la mattina successiva, sempre partendo nel buio della notte, facciano l'ascensione al KP, torcia frontale in testa, per assistere alla nascita del sole sulla parete sud dell'Everest. Ma è ben noto a molti, che se il mondo va a destra, io vado a sinistra: sono un po' anticonformista di mio ed in generale, anche un po' per principio, non mi piace fare quello che fanno tutti. A mio avviso questa non è assolutamente la scelta migliore: se all'arrivo a Gorakshep il cielo è limpido, conviene assolutamente puntare dritto alla meta che garantisce la miglior vista sull’Everest. I vantaggi di tale scelta sono diversi. Innanzitutto c'è molta meno gente, la quale come già detto, si concentra soprattutto all'alba e ci si risparmia, con un già probabile stato di spossatezza dovuto all'altitudine, una levataccia ed una salita al gelo a meno 10, anche a meno 15; è vero poi che all'alba il sole sorge proprio dietro la parete sud dell'Everest e dunque si può godere di un momento davvero magico, ma di contro le foto saranno pessime perché in controluce! Saranno invece molto migliori qualitativamente le foto a favore di luce al tramonto, quando tra l'altro, la magia è assolutamente identica, se non superiore. Non solo: lasciare la salita al Kala Patthar all’alba del giorno dopo dedicando il pomeriggio al campo base, vuole dire dargli soltanto una possibilità. E se fosse nuvoloso?? Carpe Diem pertanto e salgo, rigorosamente in solitaria sulla cima della montagna che sovrasta Gorakshep, ad ammirare uno dei panorami più belli del mondo.

Sentiero con vista del Pumori per la salita alla vetta del Kala Patthar; la giornata è bellissima!

Il Kala Patthar, 5.643 metri d'altezza, è una “brulla collinetta” che sovrasta il villaggio di Gorakshep, decisamente ridicola in confronto ai giganti imbiancati che la circondano. In nepalese significa “pietra nera”, anche se più che nera a me francamente è sembrata marrone: effettivamente è una montagnetta di pietre, terra e sabbia... quasi non ti sembra vero visto che ti trovi a quasi 6000 metri d'altitudine sull'Himalaya! Alzi lo sguardo e la cima è lì, sembra vicinissima. Dicono che ci vogliono minimo due ore, normalmente 3 per raggiungerla. Ma tu non ci credi... E' davvero lì, ad un tiro di schioppo! Come è possibile? Beh, la risposta è semplice. Primo, quella che vedi non è la cima. E nemmeno quella dopo; la intravedi solo dopo un'oretta di cammino e mezzo polmone perso per strada. Ed anche lì pecchi di superbia e stupidità, chiedendoti come sia possibile metterci un’altra ora... perché ancora non hai capito, nonostante la stanchezza, nonostante il mal di testa e la nausea, nonostante il respiro affannoso, che i 5000 ti costringono alla lentezza, che comandano loro, che ogni passo è sofferto e sudato. E qui tra l'altro, abbiamo abbondantemente superato i 5000 e ci stiamo avvicinando ai 6000, in soli 7 giorni, dunque con il corpo poco acclimatato e le tue cellule che gridano vendetta, in quanto affamate di ossigeno che non c'è: a questa quota, la sua percentuale nell'aria respirata è la metà esatta di quella corrispondente a livello del mare.

La salita al KP è così paragonabile al calvario di Cristo sul Golgota. Come Cristo, scalo la montagna con una pesantissima croce sulla schiena. Ad ogni passo, ho un martello pneumatico che picchia in testa con maggior violenza. Il fiato è cortissimo e mai lo avrei immaginato, in quanto aerobicamente ero super allenato. Un fiatone assurdo. Ma non mollo, perché mio nonno Mimì è con me. E poi, nonostante il malessere generale, l'emozione è fortissima. Diverse volte mi capita di avere gli occhi lucidi: l'obiettivo del viaggio si sta avvicinando sempre di più, il cielo è blu e limpido come non mai ed il panorama intorno a me è di indescrivibile bellezza, di abbagliante magnificenza: alla mia destra il Khumbu, il famosissimo ghiacciaio, incubo di tutti gli alpinisti che ambiscono alla vetta del mondo, alla mia destra il Nuptse con la sua vetta storta ed a punta, e davanti a me, con l'Everest ancora nascosto, quel capolavoro di eleganza e maestosità che prende il nome di Pumori, con la sua forma perfettamente conica e aggraziata che svetta sopra la brulla e brutta “collinetta” che sto cercando di conquistare. Il paesaggio è sublime, ma il fiato è sempre più corto e non so perché, la cima del Kala si sposta sempre più in là. Più cammino ansimante, più lei si allontana e le distanze si moltiplicano. L'Everest mi ha già graziato una volta ed ha deciso che oggi, per averla, io devo sputare sangue e dare fondo a tutte le mie riserve energetiche e risorse mentali.

Eccola la croce... la vedo... e vedo anche le bandierine di preghiera svolazzanti... pochi passi ed arrivo.... o mio Dio a destra! Vicino al Nuptse! La parete sud dell'Everest ora è totalmente scoperta... Un brivido percorre tutto il mio corpo e gli occhi si riempiono di lacrime. Ce l'ho fatta cazzo, eccolo lì il gigante dei giganti, la regina delle montagne! Eccolo lì il punto più alto del mondo...

In vetta al Kala Patthar, 5643 m d'altezza: primo obiettivo raggiunto!

La paura del fallimento scompare e lascia il posto ad una felicità infinita ed una soddisfazione interiore difficile da descrivere: l’Everest ha mosso ogni mio passo, ha dominato i miei sogni notturni e permeato ogni mio pensiero per mesi, da maggio 2019, fin da quando mio nonno, scomparso da poco, ha cominciato ad inviarmi una serie di segnali per portarmi fin qui.

Ieri un giorno orribile, a visibilità nulla, ed oggi, nemmeno una nuvola in cielo... caro nonno, so che sei con me, so che è merito tuo questo miracolo. Ti lascio qui per sempre, nascondendo in una nicchia, proprio di fronte alla piramide della faccia sud di Sagarmatha, una tua piccola foto plastificata, coprendola con diverse pietre. Lo farò anche al campo base e sulla vetta del Gokyo Ri.

E dopo le foto di rito col cellulare posizionato in equilibrio precario tra le rocce per l'autoscatto, mi siedo, cielo cristallino e vento gelido che ulula, ad osservare estasiato il panorama che ho sognato per mesi: davanti a me, perfettamente visibile, c'è la “zona della morte” dell'Everest che tante persone ha ucciso.

Mi sento il re del mondo, come mai mi sono sentito. Da quando sono partito, mi sto rendendo conto di un altro aspetto non secondario di questo trekking, ovvero la purificazione totale dell'anima che ne deriva. Mi sento puro e provo un immenso sentimento di conquista; ma non ho conquistato l’Everest o il Kala Patthar, ne’ tanto meno il Nepal. Ho conquistato me stesso.

Rimarrò in totale solitudine, intirizzito dal freddo, ad ammirare questa fantasmagorica cornice naturale per diverse ore, fino al tramonto. Questo è un panorama da "once in a lifetime" e non voglio che la mia retina perda nemmeno un fotone di questo magnifico scenario. Voglio “ungarettianamente” parlando, illuminarmi d'immensità, fare il pieno di immenso prima di ripartire.

È paradossale comunque se ci si pensa... L'Everest è la vetta più alta, è stata lì tutto il tempo ma nel viaggio fin qui, tranne in rarissimi punti, non si è vista quasi mai. La Dea Madre dell'Universo è timida e misteriosa, forse si vergogna: non è una montagna particolarmente attraente che ti fa strabuzzare gli occhi, è grossa, tozza, sformata, sgraziata e dalla massa imponente... non ha la snella bellezza “angelica” dell'Ama Dablam, non ha la regolarità piramidale del Pumori... non ha nemmeno la vetta "puntuta" del Lhotse o quella storta e spigolosa del Nuptse... L'Everest si nasconde alla vista e lascia spazio ai suoi vicini, ben più piccoli ma più belli. Si nasconde sempre, non solo nel trekking al campo base, ma anche nella scalata, addirittura anche nel fatidico giorno dell'arrivo in vetta: la cima non si vede quasi mai e ciò costituisce un enorme problema mentale per gli alpinisti.

No, forse mi sbaglio... L'Everest non è timida e vergognosa, perché brutta e sgraziata. L'Everest è furba e ti fa aspettare. Ti studia e ti mette alla prova. Ti fa soffrire, insinuando nella tua testa i dubbi più atroci. Ti fa superare una serie di prove prima di concedersi, perché tu devi dimostrare di volerla veramente e di essere disposto a tutto per averla.

Così è stato con me. Ed ora mi godo, uno dei momenti più indimenticabili della mia vita, un tramonto a cielo terso di fantasmagorico e sublime incanto.

Everest Base Camp

Primo dicembre, giorno 8 del trekking, il più impegnativo. Sarà massacrante, non meno di 10 ore di marcia d'alta quota, ma confido già su un miglior acclimatamento dopo due notti trascorse sopra i 5000. Il piano è il seguente: sveglia all'alba, in cammino prestissimo per il Campo Base, ritorno a Lobuche e visita alla Piramide del CNR. Nuovamente in marcia da Lubuche per Dzongla, 4900 metri ai piedi del passo del Cho La per fare poi l'indomani la traversata verso Gokyo.

La giornata è limpidissima esattamente come ieri e gli sherpa mi dicono che è un'evento eccezionale perché è vero che sono possibili ad inizio dicembre giornate cristalline come quella di ieri, ma non due di seguito! Gli dei sono con me, o meglio, la Dea è con me e devo approfittarne. Si va al Campo Base, secondo grande obiettivo di tale viaggio.

Per arrivare al campo base da Gorakshep, sono necessarie circa 3 ore di marcia attraverso un sentiero che costeggia ed in alcuni punti attraversa l'inquietante morena del Khumbu, un mostro di quasi 4 km che si muove un metro al giorno e che tutti gli alpinisti che ambiscono alla vetta devono obbligatoriamente affrontare: enormi blocchi di ghiaccio sono sormontati e quasi nascosti da montagne di detriti rocciosi, sedimenti vari, sassi e massi di diverse dimensioni, franati dalle montagne circostanti anche a causa del lento ma incessante moto di scivolamento per gravità del ghiacciaio. Insieme all'Hillary step, una parete di roccia quasi verticale alta circa 12 metri ad un'altitudine di quasi 8800 metri poco sotto la vetta, la parte più difficile e mortale dell'ascensione al Monte Everest è proprio costituita dall'attraversamento del ghiacciaio del Khumbu e della sua serraccata finale. I seracchi del ghiacciaio del Khumbu rappresentano uno degli ostacoli più importanti e pericolosi durante la salita: un seracco può essere grande come un palazzo e può staccarsi senza preavviso mentre lo scalatore è in attraversamento. I crepacci, spesso non sono visibili perché coperti da neve fresca: alcuni sono strettissimi e superabili con un salto, altri sono larghi pochi metri e necessitano di una scala d'alluminio posta tra i due estremi con corde di sicurezza, altri sono larghissimi, fino a 25 metri e profondi alcune centinaia, e devono esser superati con più scale d'alluminio, legate tra di loro con robuste corde... E poi c'è la serraccata finale, poco sopra i 6000 metri, un salto verticale chiamato Khumbu Icefall, il tratto tecnicamente più impegnativo di tutta la scalata. Non conta quanto sei bravo, quante volte hai scalato l'Everest ed il K2 o se l'hai fatto addirittura senza ossigeno come Messner: l'attraversamento del Khumbu è un terno al lotto, una roulette russa per tutti. Tante volte va bene; quando va male, semplicemente, muori. In tutto ciò, gli sherpa, portatori o guide che siano, pagano in assoluto il prezzo più alto: mentre gli alpinisti attraversano questo tratto nel più breve tempo possibile minimizzando il rischio, gli sherpa per adempiere ai loro compiti devono andare avanti e indietro lungo i tratti più pericolosi della scalata, sistemando scale e corde di sicurezza, verificando il percorso migliore e lo stato di stabilità del ghiaccio, soprattutto nella terribile parete della “cascata del Khumbu”, dalla quale si staccano spesso enormi blocchi congelati: quelli che lavorano nei punti peggiori della cascata, vengono addirittura soprannominati “Icefall doctors”.

Al campo base dell'Everest, 5364 m d'altitudine: secondo obiettivo raggiunto!

Il Campo Base, nonostante dia il nome al trekking, viene in realtà sminuito un po' da tutti: l'Everest come già detto non si vede o si vede a malapena e le famose tende a cupola colorate degli alpinisti in preparazione o addirittura in partenza, non ci sono in autunno ed in inverno, in quanto le ascensioni si tentano soltanto in primavera, a maggio in particolare.

Un passo dopo l'altro ed arrivo a destinazione: ci sono bandiere, stendardi di club alpini, lung-ta quadrate o rettangolari di preghiera svolazzanti ovunque. Stupa improvvisati realizzati con pietre sovrapposte di dimensioni via via più piccole. E la famosa roccia che fa da cappello ad un blocco di ghiaccio, dove è scritto in rosso "Everest Base Camp 5.364 m". Sotto di essa, in una zona ben riparata, nasconderò un'altra foto di mio nonno, coprendola con un mucchio di pietre: ne avevo 3 da posizionare. Missione compiuta con due di esse, me ne resta una soltanto.

Nonostante quello che dicono, il luogo per quanto mi riguarda è davvero emozionante, anche senza tende montate, anche senza la parete sud visibile sullo sfondo: è comunque il punto più vicino alla vetta del mondo a cui si può arrivare gratuitamente senza sborsare decine di migliaia di dollari di permessi al Nepal, di attrezzature alpinistiche, di agenzie e guide di supporto alla missione. Tra questi ghiacci c’è il sudore, a volte il sangue, di mille eroi. E' il posto dove si sono preparate le più grandi e leggendarie missioni alpinistiche della storia: le pietre che sono lì parlano di Mallory ed Irvine, di Hillary e Norgay, di Rab Hall e Scott Fisher, di Messner ed Urubko... dello sherpa Kami Rita che ha scalato Sagarmatha la bellezza di 24 volte... e poi c'è una bellissima vista del ghiacciaio del Khumbu che sale e poi curva verso destra impennandosi fino alle cascate di ghiaccio: quel leviatano naturale ti fa capire per la prima volta che l'Everest non è semplice roccia, ma è materia viva divina che parla. Che sente, ascolta e reagisce ai tuoi stati d'animo. Che urla ed ansima. Che gracchia, spaccando la roccia. I gemiti provenienti dalla seraccata sono potenti, affascinanti e inquietanti. Sì, il Campo Base è un luogo magico, emozionante. Da vedere.

Qui, seduto su una roccia che sovrasta un pezzo di ghiaccio, sfoglio un giornale a fumetto che mi ha prestato uno sherpa della locanda di Gorakshep sulla missione di Hillary e Norgay. E la mia immaginazione vola. Vola a quel 29 maggio 1953.

La conquista dell'Everest

I primi tentativi di raggiungere la vetta risalgono ai primi anni del 1900, ma l'Everest aveva sempre “respinto”, spesso uccidendo, diversi alpinisti in solitaria o "squadre d'assalto", come nel '24 quando gli inglesi George Mallory ed Andrew Irvine scomparsero nel corso di un tentativo di scalata alla vetta dalla parete nord: non è mai stato appurato se i due raggiunsero o meno la cima prima di morire, anche se risulta poco probabile perché Hillary e Norgay non trovarono in vetta nessun segno della loro presenza, nessuna bandiera inglese, nessuna foto riparata in qualche nicchia della moglie di Mallory che lo scalatore inglese aveva promesso di lasciare lassù in caso di successo.

Negli anni '50 ci fu una brusca accelerata nei tentativi di conquista perché si scoprì il percorso migliore da approcciare sul lato nepalese ed avvenne la prima ascesa delle insidiose Cascate del Khumbu nella parte finale più alta del ghiacciaio. Lo Sherpa Tenzing Norgay, insieme allo svizzero Reymond Lambert, si spinse nel 1952 fino a quota 8600 metri sulla Cresta Sud-Est prima di tornare indietro, raggiungendo un’altezza mai toccata da nessuno: solo l'assenza di viveri e la scarsa qualità dei respiratori impedirono ai due di raggiungere la vetta. Tenzing dirà sempre in merito a quella incredibile esperienza, che se si fossero spinti soltanto un solo metro più in là, non sarebbero tornati indietro vivi. I tempi erano comunque maturi. Nel 1953, un colonnello dell'esercito britannico, Henry Cecil John Hunt, organizzò una spedizione nei minimi dettagli, contrattando ben 350 porters, 20 alpinisti sherpa e 10 tra i migliori scalatori disponibili, tra i quali figuravano ovviamente Norgay, l'uomo che in quel momento era andato più vicino alla conquista di Sagarmatha, ed il trentatreenne Edmund Hillary, con già ottima esperienza himalayana ed in gran forma, il quale si guadagnò subito grande rispetto del gruppo guidando ottimamente la spedizione attraverso il terribile e mortale Khumbu Icefall. I mezzi del tempo erano ben diversi da quelli di oggi, sia a livello di attrezzature che soprattutto di abbigliamento tecnico, oggi di gran lunga più caldo, confortevole ed efficiente, cosa che aumenta di molto le chances di successo e sopravvivenza rispetto alle missioni degli anni passati: basti pensare ad esempio che i crepacci del Khumbu non si attraversavano con scale di alluminio legate tra loro, ma con lunghi tronchi, trasportati dalle quote più basse.

In realtà, il piano di Hunt, prevedeva che i primi a scalare la montagna più alta del mondo, dunque i soli ed unici ad essere consegnati alla storia e ricordati per sempre, sarebbero dovuti essere non Hillary e Norgay, ma gli inglesi Tom Bourdillon e Charles Evans. Il primo tentativo avvenne il 26 maggio: Bourdillon ed Evans raggiunsero la cima sud a 8,748 metri, a soli 100 miseri ridicoli metri dalla vetta, ma lo sperimentale respiratore ad ossigeno a circuito chiuso di Evans ebbe dei problemi. Evans con poco gas era esausto ed entrambi sapevano che in quelle condizioni era molto pericoloso continuare. La vetta era lì, vicinissima: deve esser stata davvero una decisione durissima da prendere, non tanto per Evans che aveva poca scelta, quanto soprattutto per Bourdillon che aveva invece ossigeno a sufficienza, risorse fisiche e lucidità mentale per continuare e diventare il primo uomo a scalare l'Everest. Dalle stelle, alle stalle in un secondo. Una vita di sogni, speranze, sacrifici e sofferenza. Mesi di preparazione. Mesi di masochismo, perché scalare l'Everest è un puro atto di masochismo. Tornarono indietro e sopravvissero, ma questa decisione Bourdillon la rimpianse tutta la vita; una vita che purtroppo fu breve perché dopo quella triste e sfortunata esperienza, egli non tentò più ascensioni himalayane, tanto meno all'Everest e morì soltanto 3 anni dopo in un incidente sulle Alpi svizzere. Il rimorso logorò interiormente Tom per il resto dei suoi giorni: forse avrebbero potuto osare di più, rischiando sicuramente la morte, è vero. Ma non si conquista una vetta del genere se non si è disposti a pagare il prezzo massimo. Mancavano solo 100 metri e forse avrebbero potuto farcela anche senza respiratori: allora si pensava impossibile sopravvivere sopra gli 8000 senza l’ausilio dell'ossigeno; 25 anni dopo, mostri sacri come Peter Habeler e Reinhold Messner dimostrarono che l’uomo può andare in vetta all’Everest con le sue sole forze senza ausilio di bombole, usate in ogni caso ancora oggi dal 99% dei "drogati" degli ottomila himalayani.

Tom Bourdillon e Charles Evans, stremati dopo il tentativo di ascensione alla vetta fallito

Soltanto tre giorni dopo il fallimento di Bourdillon ed Evans, Hunt ci riprova formando una nuova coppia d'attacco. E stavolta, decide, forse per "ingraziarsi" la Dea e placare la sua ira, di includere uno sherpa come segno di rispetto culturale e riconoscimento per il loro contributo inestimabile al successo della spedizione: non poteva che esser Tezing Norgay, quello con più esperienza, quello che era arrivato più in alto di tutti, quello che per primo aveva domato e reso mansueto il Khumbu Icefall ed era oramai diventato nella popolazione locale quasi una sorta di leggenda. Il "semplice" ruolo di guida d'alta quota, sempre un passo dietro agli altri gli stava oggettivamente stretto: lui sarebbe stato la punta di diamante di Hunt perché era il migliore di tutti. Il suo compagno scelto fu Edmund Hillary, che si era ben distinto in tutta la spedizione per la sua preparazione tecnica, il suo coraggio, il suo carattere. La coppia vincente non poteva che esser questa, anche perché fra i due esisteva un gran bel feeling, coltivato ed alimentato durante tutte le dure settimane di preparazione all'ascesa.

Il 29 maggio 1953 Edmund e Tezing cominciano la scalata, partendo prima e da un campo più in alto rispetto a Bourdillon ed Evans. Raggiungono il vertice sud alle 9 del mattino, trovandosi poi di fronte un ostacolo apparentemente insormontabile: il famosissimo "Hillary step", una parete di roccia di 12 metri poco prima della vetta che dopo l'attraversamento iniziale del ghiacciaio del Khumbu rappresenta la difficoltà alpinistica più grande dell'ascesa. Ma quel giorno, Hillary e Norgay avevano la benedizione della Dea: aiutandosi con la piccozza, si misero a sandwich tra la roccia e il ghiaccio adiacente, riuscendo con difficoltà e fatica immane a quelle quote a superare il muro, l'ultimo "baluardo di difesa" di Sagarmatha, che poi si concederà agli spasimanti. La coppia raggiunse il punto più alto della Terra alle 11.30 del mattino del 29 maggio, consegnandosi alla storia ed all'immortalità. Leggenda vuole che Hillary, col suo tipico aplomb molto british, strinse felice la mano al suo socio ma poi Tenzing, in modo molto meno british, si lasciò andare ad un lungo abbraccio, dandogli vigorose pacche sulle spalle. Sulla vetta Hillary lasciò un gattino di pezza dato da John Hunt, una croce e le bandiere di Inghilterra, India, Nepal e Nazioni Unite, mentre Norgay depose una matita della figlia Nima ed un pacchetto di caramelle, cioccolata e biscotti quale segno di offerta e ringraziamento alla Dea Madre dell'Universo.

Foto di Edmund Hillary e Tezing Norgay dopo aver raggiunto la vetta dell'Everest

I due rimasero nel punto più alto del mondo per quindici eterni minuti: posso solo minimamente immaginarli, seduti a cavalcioni con un piede in Nepal e l'altro in Cina, ansimanti e sfiniti dalla fatica, con i respiratori ad ossigeno, a circuito aperto stavolta, mentre guardano con gli occhi lucidi dall'emozione la curvatura terrestre e le nuvole sottostanti, consapevoli di aver fatto un'impresa pazzesca, di esser i primi, di entrare e rimanere per sempre nei libri di storia...

Sulla via del ritorno, incontrarono il compagno di squadra neozelandese George Lowe ed il saluto di Hillary divenne leggenda: «Well, George, we knocked the bastard off!» (Beh, George, l’abbiamo battuto questo bastardo!). Strategicamente, la conquista del monte Everest fu annunciata in patria soltanto il 2 giugno successivo, in contemporanea all'incoronazione della regina d'Inghilterra Elisabetta II, cosa che contribuì ulteriormente a far diventare Hillary e Norgay assai famosi in tutto il mondo. Entrambi presero poi parte a numerose altre spedizioni in Himalaya tra il 1956 ed il 1965, anno in cui collaborarono fattivamente anche alla costruzione del piccolo scalo aeroportuale di Lukla, oggi intitolato alla loro memoria. Hillary addirittura, il 4 gennaio del '58, conquistò il Polo Sud antartico, diventando il terzo uomo della storia dopo Amudsen nel 1911 e Scott nel 1912 a raggiungere tale punto via terra, anche se ad onor del vero, la sua spedizione non avvenne con cani da slitta come 47 anni prima, ma era motorizzata.

Dopo il ritiro dall'alpinismo attivo, i due si dedicarono a varie attività a favore della comunità sherpa, per la formazione e tutela dei portatori. Hillary in particolare, per tutta la vita fu un grande benefattore del popolo himalayano, promuovendo e valorizzando nel mondo la loro cultura e costruendo diverse opere pubbliche come scuole ed ospedali con la sua fondazione Himalayan Trust.

Gran parte del successo della spedizione del '53 fu dovuto non solo all'eccellente preparazione fisica e tecnica dei due scalatori, ma anche al grande affiatamento che si era creato nella coppia, affiatamento che non fu scalfito nemmeno dalle richieste e dalle polemiche successive della politica e della stampa locale ed internazionale, che accusavano Hillary di esser stato praticamente trascinato in vetta dallo sherpa Tezing Norgay, vero ed unico eroe ed elemento determinante dell'impresa alpinistica. Di comune accordo anche con tutti gli altri membri della spedizione, i due pertanto decisero di non rivelare chi avesse calpestato la vetta per primo: firmarono a Kathmandu una dichiarazione congiunta in cui dichiaravano di esser arrivati "almost togheter", praticamente insieme in vetta. Tale patto cadde anni dopo, quando Norgay rivelò la vera storia nella sua autobiografia “Tiger of the Snows”: con grande onestà ammise che Hillary lo aveva di poco preceduto, ma semplicemente perché in quel momento era il turno dello neozelandese di "aprire la strada", ribadendo in ogni caso che quelle polemiche non avevano, alpinisticamente parlando, alcun senso.

«Sia io che Tenzing pensavamo che dopo di noi nessuno avrebbe fatto un altro tentativo...» dichiarò Sir Edmund Hillary, aggiungendo poi, «... non avremmo potuto sbagliarci di più!».

Il fascino che l'Everest esercita negli scalatori è infatti unico, indescrivibile ed attira oggi, ogni anno decine di alpinisti da tutto il mondo, pronti a mettersi alla prova, sfidando la morte per fare l'impresa della vita. «Perché è lì... » come disse George Mallory al giornalista che gli chiedeva il vero motivo di un'impresa così estrema, rischiosa e probabilmente mortale.

Per me la Dea Madre dell'Universo è diventata un chiodo fisso, fin da quel 26 novembre 2019, quando l'ho vista per la prima volta e, seduto su un prato a 4000 metri sopra Namche Bazaar, sono rimasto un'ora ad ammirarla estasiato, con gli occhi lucidi dall'emozione. Da quel momento, come scritto nella mia presentazione nella parte "Chi sono" di questo blog, un tarlo è entrato nel mio cervello. E non va via. Chissà mai se un giorno impazzirò, mollerò tutto, dilapiderò tutti i risparmi di una vita per fare un solo misero tentativo. Devo sbrigarmi. Ho già 40 anni passati ed il tempo stringe.

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