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Seguirò la via che mi hai indicato...

Nonno Mimì

Nonno Domenico, Mimì come tutti lo chiamavano, era una persona tutta d'un pezzo, il classico uomo d'una volta tutto casa, chiesa, lavoro e famiglia. Testa alta e schiena dritta, austero e burbero, taciturno e solitario. Modi rudi e spartani ma il cuore buono e l'animo sensibile. Bastava poco perché gli occhi gli si riempissero di lacrime: una rappresentazione teatrale di Leonardo e Maya, una parola dolce, un compleanno festeggiato in famiglia, un'occasione importante come lauree o cerimonie...

Grande vita la sua. Uomo di tanti fatti e poche parole, scolpite nella pietra. Parlava poco ma quando aveva davanti l'interlocutore giusto ed interessato, diventava un fiume in piena, un po' come accade anche a me. Spesso mi raccontava aneddoti ed esperienze passate, spaccati di vita operaia e contadina di decenni fa, usi e costumi del tempo ed io restavo incantato ore ed ore ad ascoltare... come quando mi parlava della sua infanzia, dei soprusi e delle angherie dei fascisti o ricordava quel maledetto giorno, il 27 novembre 1982, quando in prossimità della stazione di San Benedetto del Tronto, deragliò il treno espresso Milano-Taranto e lui dovette ricacciare tra le lamiere un bambino morto di pochi mesi... Nato nel 1927, ha vissuto in piena giovinezza il periodo del regime e della seconda guerra mondiale... tempi duri che forgiavano il carattere. La miseria, la fame e gli stenti, la morte dell'amatissima madre in giovane età... tanti sacrifici ma anche piccole e grandi soddisfazioni come il primo stipendio, il faticoso lavoro da ferroviere a posizionare le traverse dei binari con responsabilità via via crescenti nonostante avesse soltanto la licenza di quinta elementare, i risparmi poco a poco accumulati, il matrimonio e la nascita dei figli, fino alla meritata pensione, dove si è potuto finalmente dedicare con maggiore intensità, anima e corpo, alla sua più grande passione, l'orto e l'agricoltura. Lui ha sempre detto di sentirsi un contadino dentro.

Mio nonno Domenico, detto Mimì, nell'orto di casa e cucinando il pesce

«Nonno, hai un rimpianto nella vita?» gli chiesi una volta. Sì, uno ce lo aveva. Riguardava uno dei casi mediatici più rilevanti della storia del Bel Paese, forse quello che in assoluto, dal dopoguerra in poi, ha avuto l'impatto emotivo maggiore sulla stampa e sull'opinione pubblica italiana: la tragedia di Alfredino Rampi di Vermicino, il bambino caduto nel giugno del 1981 dentro ad un pozzo ad una profondità di circa 60 metri e purtroppo morto dopo 3 giorni di disperati tentativi di salvataggio sotto gli occhi e le lacrime dell'Italia intera, con la RAI che seguiva la diretta h24 sul posto ed il grande presidente partigiano Sandro Pertini che gli parlava con un microfono dall'imboccatura del pozzo. Quando ricordava quella orribile storia, nonno si commuoveva sempre.

Lui sosteneva con forza che, falliti tutti i tentativi di soccorso mediante scavi paralleli e tunnel orizzontali successivi, imbragature di numerosi eroi magrissimi che si calavano più volte senza successo (come l'eroico Angelo Licheri che rimase a testa in giù ben 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione, riuscendo addirittura a toccare Alfredino e parlarci), si poteva provare sotto video controllo a riempire il vuoto sotto di lui con sabbia asciutta. Mah, non lo so se avrebbe funzionato. Lui però era convinto di sì e soprattutto che non restava altro da fare, dopo due giorni di infruttuosi tentativi con tecniche che facevano scivolare il bambino sempre più giù. Che orrore quella storia...

Nonno mi voleva davvero molto bene e tra noi c'era un gran feeling. Forse perché rivedeva in me lo stesso suo carattere, a volte spigoloso, sempre fiero ed orgoglioso, tutto istinto e zero diplomazia, un po' taciturno ma assai espansivo con la compagnia giusta... gli stessi ideali, lo stesso travaglio e fuoco interiore, gli stessi sentimenti di onestà ed umiltà, coraggio e fierezza, di rispetto verso gli altri, soprattutto verso gli ultimi e di rifiuto e repulsione totale verso le ingiustizie, le angherie ed i soprusi della classe dominante... la stessa ideologia socialista, anche se negli ultimi anni aveva molto poco compreso il tradimento della sinistra ed il suo deragliamento radical chic politicamente corretto verso il capitalismo ed il neoliberismo euroatlantista.

Ed un bel giorno, forse capendo che la fine stava arrivando, dopo averlo pensato a lungo, prese coraggio. Si sedette nel porticato, col cane vicino accucciato ai suoi piedi. Prese una penna ed un quaderno. Mano tremante e vista limitata a causa di una maculopatia, si è messo a scrivere. Dopo tanti alberi piantati e due figli, gli mancava solo un libro per l'immortalità.

Le sue condizioni di salute purtroppo peggiorano verso la fine del 2018, poco più che novantenne, a causa di un meningioma al cervello, grosso quanto una pallina da tennis. In poche settimane se ne va via. Le ultime volte che andavo a trovarlo già non poteva più parlare e si muoveva a malapena.

Una sera di Aprile 2019 eravamo soli in una stanza dell'ospedale civile di San Benedetto del Tronto. Oramai non c'era più nulla da fare e l'indomani sarebbe tornato a casa. Mi guardava immobile con occhi impauriti, conscio che il momento stava arrivando... una lacrima bagnava il suo viso oramai raggrinzito, vecchio e stanco. Un uomo infaticabile come lui, sempre operativo fino a poche settimane prima, non accettava l'idea di esser immobilizzato in un letto d'ospedale, senza poter neppure parlare... si sentiva un peso per tutta la famiglia. La sensazione di impotenza in quegli attimi deve esser davvero una cosa orribile... Non poteva più coltivare il suo orto, non poteva più spaccarsi la schiena con la vanga e la zappa, non poteva più annusare i suoi profumatissimi pomodori e decidere quando coglierli... non poteva più bere quel bicchiere di vino a pasto. Uno solo, mai di più, in questo era incorruttibile. Posso solo immaginare come si sentiva, come si sente un qualsiasi uomo in punto di morte, quando si sta per spegnere l'interruttore della vita. Da ON in un secondo si va in OFF e purtroppo, fede a parte, dell'esistenza dell'aldilà nessuno può esserne certo. Con molta fatica, a gesti quasi incomprensibili che per la verità impiegai molto tempo a capire, nonno mi chiese di mettergli un cuscino in testa, soffocandolo per porre fine alle sue sofferenze. L'ha chiesto a me, perché sapeva che io sono come lui, ho la stessa tempra e chiederei in quelle condizioni la stessa cosa alla persona più cara, lo riterrei il più grande atto di pietà e bontà possibile. Mi veniva da piangere e gli stringevo la mano. Insisteva ed insisteva. Digrignò i denti ed emise brutti versi quando capì che non potevo farlo, che non l'avrei fatto... Per un istante sono stato dilaniato dai dubbi. Trova il coraggio Sté, te lo chiede con così insistenza... Sono andato via da codardo, salutandolo in lacrime.

Nonno muore una mattinata di fine Aprile. Nel cielo, un'incredibile doppio arcobaleno, mai visto prima di quel giorno. Io ero sopra un'impalcatura con Riky ad imprecare per il montaggio di una traversa pesantissima, parte di un'incastellatura metallica che fungeva da vano corsa di un ascensore, in equilibrio precario. Ero pronto a quella chiamata. L'avevo salutato la sera prima dandogli di nascosto un poco del suo amato Fernet. Di nascosto da mia madre che invece ancora sperava nel miracolo, non si rassegnava e continuava ad accanirsi un po' troppo sulla sua salute, invece di accompagnarlo in serenità alla fine.

La settimana successiva per me è stata assolutamente incredibile. Sono straconvinto che lui sia stato sempre con me per una serie davvero misteriosa di eventi e circostanze.

Gaby mi chiese con insistenza di suonare in chiesa al funerale, ma non lo feci. Odio suonare in pubblico... Avrei voluto dire due parole dal pulpito ma non lo feci, nemmeno parlare in pubblico mi piace tanto e poi avevano già letto qualcosa fratelli e cugini.

La mattina del giorno del funerale, Leonardo giocava una partita di campionato col Ragnola, la squadra del quartiere; sotto la maglia della squadra aveva una T-shirt bianca dove avevamo scritto con pennarello nero "un gol per te nonno Mimí"... speravamo tutti che segnasse ma non lo fece. D'altronde quest'anno ancora non aveva mai fatto goal in campionato... lui più che bomber è un assist-man... è troppo buono, davanti alla porta la passa sempre e quando tira, i legni come per magia, sono tutti i suoi. La genetica non mente, d'altronde: anche io non segnavo manco a porta vuota, preferendo assist, lanci e dribbling... Leonardo era chiaramente molto triste per non esser riuscito a segnare. Abbiamo deciso allora che avrebbe indossato la stessa T-shirt anche alla prossima partita, torneo del 1° Maggio ad Offida. Ad oltranza, finché non avesse fatto goal, a costo di attendere anni!

Primo tentativo di goal fallito..

Gaby nel frattempo continuava a ripetermi in maniera ossessiva che dovevo suonare in chiesa, stavolta alla messa in suo ricordo dopo una settimana dal funerale. Ma io lo ritenevo inopportuno e dunque rifiutai ancora. Già sono allergico alle chiese, figurati se ci suono pure... Lei però non mollava ed il giorno del torneo di calcio ad Offida fu molto molto insistente.... esco di casa innervosito, ho da fare e non posso accompagnare Leonardo, lo farà un genitore di un suo compagno di squadra. Lo andrò a vedere più tardi visto che il torneo dura tutto il giorno, dalla mattina alla sera. Nel pomeriggio dunque, prendo la macchina e facendo l'Ascoli-mare mi dirigo ad Offida. Senza rendermene conto, sovrappensiero, invece di prendere l'uscita Castel di Lama per Offida, mi ritrovo al cimitero di Spinetoli. Giuro, per caso. Ero totalmente assorto nei miei pensieri. Vado così a trovare nonno ed ancora con le parole di Gaby in testa, istintivamente davanti alla sua lapide dico: «... nonno, dammi un segno ed io suonerò il pianoforte in chiesa per te».

Esco dal cimitero e mi dirigo verso il campo di Offida dove Leonardo sta giocando la semifinale del torneo. Mi sono perso tutte le partite iniziali del girone, ma fortunatamente, il Ragnola le ha vinte tutte e finora è imbattuta. Quella squadra d'altronde, allenata dal mitico mister Simone Lelii, era davvero molto forte con i rocciosi Acciarri e Marucci in difesa, Leonardo detto "Cipo" a centrocampo con Laraia e Lelii, e la coppia d'attacco Bobo, Rata. Ma manco a dirlo, nonostante le grandi goleade, Leonardo non ha segnato. Quest'anno sicuramente finirà la stagione con un bel 0 in classifica marcatori, esattamente come l'anno passato!

La squadra del Ragnola nel torneo del I maggio ad Offida

Sono arrivato giusto in tempo per la semifinale e l'eventuale finale. Siamo 0-0 e la partita è cominciata da poco. Esattamente due minuti dopo che arrivo, Leonardo prende palla a centrocampo, un dribbling secco ed un tiro all'incrocio dei pali! Gol bellissimo, il primo dell'anno, squadra in delirio, tutti i bimbi sopra di lui ad abbracciarlo, tutto il pubblico ad applaudire quando lui si toglie la maglia e mostra la scritta UN GOAL PER TE NONNO MIMI'... Leonardo è il ritratto della felicità! Il primo gol quest'anno, bellissimo e con dedica al bisnonno da poco morto!

La partita continua ed il Ragnola sta vincendo 4-3 ma è un assedio da parte della squadra avversaria e prima o poi è probabile che arriverà il pareggio. La partita sta finendo, manca poco ed anche se è un'insignificante match di un insignificante torneo di bambini, la tensione negli spalti si taglia col coltello: sembra la semifinale dei campionati del mondo!

Leonardo prende palla sulla sinistra, smarca mezza difesa avversaria, sempre da sinistra rientra sul destro e fa partire un altro missile imparabile sotto l'incrocio. Gol strepitoso, ancora più bello del primo, 5-3 e finale raggiunta! Delirio totale, incredibile! Nuovamente tutti sopra mio figlio che credo abbia vissuto uno dei momenti più belli della sua vita.

Anche io impazzisco di gioia e mi commuovo... Certo che incredibile coincidenza! Leonardo non segna tutto l'anno, anzi, non lo fa da due anni, e dopo pochi minuti che chiedo un segno a mio nonno davanti la sua tomba, vado a vederlo e lui che fa? Non due goal normali ma due eurogoal (anzi no, due grandi goal, la parola euro non mi piace), uno più bello dell'altro e con tanto di dedica! Da spellarsi le mani... e lo fa, dopo aver giocato tutta la mattinata senza aver segnato, proprio appena arrivo e dopo grandi goleade precedenti della sua squadra!

Sarà questo il segno di nonno? Mah, forse sì, forse no... non so che pensare. Sicuramente è suggestione, pura casualità... Il Ragnola in ogni caso vincerà anche la finale anche se Leonardo non segnerà più, anzi, giocherà un po' sottotono, probabilmente stanco ed appagato dalle due grandi gioie in semifinale.

Un goal per te nonno Mimì!

Alla premiazione però succede una cosa sbalorditiva che insinua in me sempre di più il dubbio che il segno di nonno c'è stato, eccome se c'è stato... e questo dubbio svanirà totalmente nei giorni seguenti. Dopo la solita passerella autoreferenziale dei politici di sinistra (quella falsa, globalista, nazi-europeista turbo-liberista anticostituzionale anti-popolo, in una sola parola, quella del PD) ed i loro soliti discorsi vomitevolmente ipocriti spaccapalle politically correct sul lavoro e la festa del primo Maggio, lo speaker introduce il presidente dell'AVIS, sponsor dell'evento, invitandolo a premiare le squadre e sottolineando davvero con grandissima enfasi la sua impresa recente ed invitando il pubblico ad accoglierlo con un "caloroso abbraccio"... ricordo benissimo le sue parole: «Accogliamo il nostro benefattore con un caloroso abbraccio, ma deve esser davvero caldo caldo perché lui è ancora tutto infreddolito... lo sapete perché? E' appena tornato dal... campo base dell'Everest!» E cedendogli il microfono, lo invita a raccontare a grosse linee la sua impresa.

Rimango pietrificato. Qual è la probabilità che in una premiazione di un torneo di calcio alla festa del 1° Maggio, dove si dovrebbe parlare solo di sport e tutela de lavoro (o meglio se a parlare è il PD, di distruzione del lavoro), si parla invece di... Everest? Direi nulla! Zero di zero... Così approfitto di tale opportunità e mi intrattengo dopo le premiazioni a lungo col presidente AVIS parlando della sua esperienza.

Vi chiederete: cosa c'è di strano e sconvolgente in tutto ciò? Beh, dovete sapere che questo è un viaggio che avevo in mente da tempo, da sempre in cima ai miei pensieri... pensavo di farlo a novembre 2018, ma alcune questioni tra cui l'aggravarsi delle condizioni di nonno mi hanno fatto desistere... sono minimo 2 settimane di trekking di alta quota e non sapevo quello che sarebbe successo. Nonno peggiorava di giorno in giorno ed oramai avevamo tutti la certezza che quello del 2018 sarebbe stato l'ultimo Natale passato insieme. Dunque rinunciai. Che sia stato questo il terzo segnale di nonno? Un'ora fa ero davanti alla sua tomba chiedendogli un segno e succede tutto questo... Sono sempre più confuso... forse, anzi sicuramente, ancora preso dalla morte di nonno, interpreto come messaggi suoi ciò che invece è soltanto pura casualità... Sì dai, è sicuramente così... me ne convinco rinchiudendomi così nella mia comfort-zone che prevede ovviamente di non suonare in chiesa la domenica successiva... suonare il pianoforte in pubblico è infatti cosa che mi ha sempre messo molta ansia... purtroppo, le mani velocissime ed agilissime normalmente quando sono solo, si irrigidiscono invece davanti ad altri e non riesco proprio a dare il meglio di me...

Ma nonno non molla ed insiste... La cosa incredibile accadrà i giorni seguenti. Accendo la televisione, evento di per sé assolutamente eccezionale perché io non la vedo mai (per me è pura spazzatura e propaganda), e nel primo canale che becco si parla di Everest; succederà diverse volte! Sono in fila in macchina, giro la testa e la prima cosa che vedo è una bici molto vicina a me con la scritta enorme "Everest" sulla canna. E la stessa bicicletta, mai vista prima, me la troverò di fronte in diversi luoghi della città; apro Netflix e tra le proposte mi compare il film Everest che poi vedrò insieme ai bambini; vado a comprare un libro in libreria a San Benedetto e mi ritrovo alla cassa, proprio sotto agli occhi, in offerta a metà prezzo, "Aria sottile" di Krakauer, il quale narra della tragedia sull'Everest del 1996 dove morirono decine di alpinisti... potrei continuare con tanti altri episodi ma la sostanza è questa: nei giorni successivi alla partita del 1° Maggio ad Offida, è stato un vero e proprio bombardamento sul tema riguardante la vetta del mondo, assolutamente non voluto e cercato. E vivo a San Beach non a Kathmandu!

Ero sempre più confuso. Alternavo pensieri del tipo "ma cos'altro deve succedere per farti capire che nonno il segno che chiedevi te l'ha dato, eccome se te l'ha dato?" ad altri del tipo "ma no dai, sono solo coincidenze... strane, però solo coincidenze...".

Poi Venerdì 3 Maggio, l'ultimo episodio che toglie ogni dubbio. Sono da nonna per fargli un po' di compagnia e parliamo del più e del meno. Distrattamente apro la rivista "Il Messaggero di Sant'Antonio": come sapete è una rivista cattolica, dove si parla di santi, madonne, preti e chiese, articoli per la terza età, sicuramente non di alpinismo, sport o viaggi estremi. Apro distrattamente una pagina a caso. Noooo! Non ci credo, non è possibile! Ancora, ancora ed ancora! Cosa trovo? Un articolo sul duro lavoro degli sherpa nell'area del Khumbu del monte Everest!

Ok, adesso basta. Non c'è più cieco di chi non vuole vedere! Non c'è più sordo di chi non vuole sentire! Nonno mi ha dato il segno che cercavo. E lo ha fatto più volte perché sa che sono un razionale. Nonno vuole che suoni per lui in chiesa, nonno vuole che io faccia quel viaggio che non feci a suo tempo per la sua malattia. Torno a casa, venerdì sera, guardo Gaby e gli dico:
«Gaby nonno mi ha parlato. Domenica porto il pianoforte in chiesa e suono per nonno, me lo ha chiesto lui! Ed andrò sull'Everest!».

Nonostante la chiesa fosse piena, suonerò benissimo, le mani volavano e mi sentivo dentro una tranquillità infinita, come se stessi suonando a casa, da solo. Lui era lì, perché sapeva quanto fosse difficile per me esibirmi davanti a tutta quella gente. Lo saluto nel pulpito per l'ultima volta. Veloma, caro nonno!

«Seguirò la via che mi hai indicato, verso la Dea Madre dell'Universo e ci vedremo lassù, in alto, presto». Frase che in pochi, ovviamente, hanno capito. Tranne Gaby, Leonardo e Maya che sapevano: per i nepalesi, l'Everest è Sagarmatha, Dea madre dell'Universo, o anche Dea della Madre Terra. Il viaggio al campo base dell'Everest ed ai laghi di Gokyo, comincia da qui: da questa promessa fatta in chiesa.

Parto per il Nepal a fine novembre dello stesso anno. Volo economicissimo della Qatar, andata e ritorno Roma-Kathmandu via Doha a circa 450 euro: partenza venerdì notte 22 novembre 2019 alle 23, ritorno domenica sera 8 dicembre. Non posso assentarmi di più a lavoro ed in famiglia, due settimane piene che scelgo in maniera strategica: quello che va da metà novembre alla prima settimana di dicembre è sempre stato un periodo di magra lavorativa ed inoltre corrisponde al declino della stagione del trekking nel Khumbu, concentrata soprattutto da fine settembre a metà novembre. Sta arrivando l'inverno, fa più freddo, alcuni passi d'alta quota come il Cho La diventano difficilmente attraversabili. Il vantaggio è che ci sono anche molti meno escursionisti: godersi in solitaria la vista dell'Everest o dell'Ama Dablam, vi assicuro che non ha prezzo. Dea Madre dell'Universo, sto arrivando!

Pianificazione del trekking: EBC e laghi di Gokyo in soli 12 giorni!

Io in viaggio non programmo mai nulla. Tutto è improvvisazione ed avventura. Ma in questo caso, per forza di cose, avendo tempi strettissimi ed obiettivi quasi irrealistici, la pianificazione è stata meticolosa. Il programma di viaggio che ho è davvero ambizioso, forse folle. L'ho studiato a lungo, cartina alla mano, dislivelli, tempi di percorrenza, tappe dove vale la pena fermarsi, monasteri... so che sarà durissima ma ce la posso fare: voglio completare, rigorosamente solo e non accompagnato da guide sherpa, portatori o agenzie viaggi, il giro dell'Everest Base Camp (EBC) e laghi di Gokyo via ghiacciaio Ngozumpa, in soli 12 giorni, avendo così anche tempo a sufficienza per esplorare Kathmandu ed i suoi dintorni nel paio di giorni finali, che potranno esser usati come scorta di tempo nel caso in cui qualcosa dovesse andar storto.

Un giro del genere in soli 12 giorni è una follia assoluta per chiunque conosce questo trekking, il quale richiede, se si è ben allenati ed acclimatati, un tempo minimo di 15 giorni non comprimibili, oltre a quelli materasso in caso di stop forzati per mal di montagna e per i frequentissimi ritardi ed annullamenti dei voli da e per Lukla causa maltempo. Normalmente il percorso completo EBC + Gokyo si completa comunque in 3 settimane. Ma io voglio fare il miracolo. So che posso perché nonno mi ha mandato lì e sarà con me, ogni minuto. E poi come dice sempre Gaby, sarà con me anche il mio angelo custode, che quando morirò, tirerà un sospiro di sollievo.

Di tale ardito programma, il mal di montagna è il principale ostacolo. Non può esser sottovalutato perché nei casi gravi può uccidere. La maggior parte dei trekkers che ambiscono a vedere la montagna più alta del mondo, si limitano ad arrivare a Namche Bazaar, da dove si ha la prima indimenticabile vista di Sagarmatha; di quelli che osano proseguire, solo la metà statisticamente riescono a raggiungere il campo base, gli altri devono desistere. Alcuni tornano addirittura in elicottero di soccorso, sborsando cifre assurde per evitare complicazioni potenzialmente letali. Il mal di montagna infatti, è una condizione patologica, dovuta al mancato adattamento del corpo all'altitudine ed alla conseguente ridotta presenza di ossigeno, che può arrivare ad essere mortale se non adeguatamente trattata, sfociando nei casi più gravi in edema polmonare o in edema cerebrale da alta quota. La sensazione è davvero orribile, garantisco, molto simile ad un brutto post sbornia. La testa esplode, lo stomaco è sottosopra, nausea ed inappetenza, estrema debolezza, respiro corto e tachicardia, vertigini e generale senso di malessere, più o meno forte.

Io so di soffrirlo abbastanza poco il mal di montagna. L'ho sperimentato più volte, ad esempio a La Paz in Bolivia e sui 6000 dell'Ecuador. Sarà per il fatto sono bradicardico e sempre super allenato: il mal d'altitudine sembra colpire maggiormente le persone con la pressione alta. Le regole generali per avere meno probabilità di esser soggetti a sintomi forti, adattandosi a livelli progressivamente inferiori di ossigeno, sono comunque ben note:

1) La prima notte rigorosamente sotto i 3000 m;
2) Massimo dislivello giornaliero di +500/+600 metri;
3) Pernottare due notti alla stessa quota ogni dislivello di +1000/+1200;
4) Salire più in alto di giorno ma dormire più in basso la notte;
5) Bere tantissimo, fino a 5-6 litri di acqua al giorno;
6) Curare l'allenamento prima della partenza per abbassare il ritmo cardiaco;
7) Camminare lentamente senza inutili sforzi all'andata per favorire l'acclimatamento;
8) Riduzione del peso trasportato: zaino leggerissimo e minimalismo materiale.

Nonostante il rispetto di queste basilari regole, il mal d'altitudine è comunque soggettivo e sempre in agguato: uno stato di malessere generale va messo in conto sopra i 3000 metri, anche perché la notte ci si riposa poco. Dormire sopra i 4500-5000 metri vi assicuro che non è piacevole. Ci si sveglia in continuazione per le continue apnee dovute alla carenza di ossigeno nel cervello.

Devo pertanto ridurre il trekking da 15 giorni a 12, accettando anche marce giornaliere d'alta quota di 8-10 ore e cercando di rispettare il più possibile le regole 1-8 di cui sopra. Non ho scelta: devo tagliare un giorno all'andata, assai importante ai fini della sicurezza perché si sale di livello dovendosi acclimatare, uno in quota nella traversata Campo Base - Gokyo ed uno al ritorno, al contrario ininfluente perché si scende, ossigenandosi sempre più. Normalmente all'EBC si arriva dopo un minimo di 8 giorni, non riducibili in nessun modo se si vogliono rispettare le regole precedentemente illustrate e non si vuole rischiare di avere mal d'altitudine. Ma praticamente quasi nessuno ce la fa in 8 giorni: la maggior parte delle persone ci arriva stremata al decimo giorno, pochissimi al nono. Bene: il mio obiettivo è arrivare al campo base in soli 7 giorni, e per farlo, cartina, dislivelli e tempi di percorrenza alla mano, c'è un solo modo: devo bypassare la regola di sicurezza n. 1, atterrando a Lukla la mattina prestissimo ed arrivando già in serata, con 7-8 ore di marcia, fino ai 3500 m di Namche Bazaar, dove resterò due notti cominciando l'acclimatamento progressivo. Mi raccomando però, non seguite assolutamente il mio esempio! Potrebbe esser estremamente pericoloso e rovinarvi davvero un bellissimo viaggio.

So dunque in partenza di rischiare, ne sono perfettamente consapevole. Per ridurre al minimo i rischi di mal d'altitudine ed aumentare le chances di successo, lasciando il fattore C (culo) in mani extraterrene, capisco che posso agire solo su 3 fattori: allenamento, idratazione e minimalismo.

Prima del viaggio, pur essendo già davvero super allenato, ho spinto la preparazione fisica al massimo. Chi mi conosce bene, sa che per me lo sport è quasi una ragione di vita, non potrei farne a meno: vado spesso a correre sul bagnasciuga o sul lungomare, nuoto in piscina o al mare, faccio due allenamenti settimanali di tennis all'ora di pranzo, calcetto ad alto ritmo con gli amici (o meglio, più che amici animali da competizione, che pur di non perdere ammazzerebbero un genitore)... a tutto questo, un mese prima della partenza, ho aggiunto anche mezzora di salite e discese per le scale del mio condominio, 10 rampe di scale a tutta velocità saltando gradini di due in due con uno zaino sulle spalle, il miglior allenamento possibile per un trekking spaccagambe d'alta quota. Parto per l'Everest che avrei potuto fare una maratona, tanto ero allenato ed in forma! In tutto il trekking ho poi curato la dieta e bevuto come un cammello, fino a 6 litri al giorno di acqua o infusi. Un altissimo livello di idratazione è infatti la cosa più importante, bisogna bere tantissimo, forzandosi in ogni situazione e non è facile perché fa freddo e gli stimoli sono pochi: l'aria rarefatta, fredda e secca della montagna disidrata il corpo assai rapidamente favorendo il sopraggiungere del mal di altitudine ed acuendo di molto i sintomi dell'ipossia.

E poi ovviamente ho spinto il minimalismo a livelli estremi. Tutto ciò che è superfluo e non è vitale deve esser lasciato a casa perché ogni kg in più sopra i 4000 metri sarà un macigno. In genere per questo tipo di trekking, se non si vogliono utilizzare porters, è altamente consigliato non superare in nessun modo i 10-12 kg di peso.

Il mio zaino da 50 litri includerà un sacco a pelo Ferrino con temperatura di comfort -5°C, ramponi per ghiaccio e neve, caricabatterie solare, una torcia leggerissima a carica manuale, un libro, un paio di mutande e calzini pesanti di ricambio, un solo intimo tecnico, un giubbotto pesante, guanti da neve, occhiali polarizzati, bandane da usare a mò di buff (fondamentale per respirare aria calda ed evitare la terribile e famigerata tosse del Khumbu), carta igienica biodegradabile, due borracce d'alluminio da posizionare nelle tasche laterali da riempire di volta in volta con l'acqua dei torrenti purificata con pastiglie, tubetto di crema solare ed un po' di energetica frutta secca. Un cellulare per la fotografia, il mio mitico S7 che incredibilmente ancora resiste all'obsolescenza programmata di Samsung, continuando a regalarmi bellissime immagini per questo blog. Niente bastoncini da trekking. Niente medicine, che io comunque, in generale non prendo. Non è necessario portarsi dietro neppure la tenda ed il cibo perché lungo il percorso si trovano, fin sopra ai 5000 metri, spartani ed economici rifugi sherpa che accolgono gli escursionisti fornendo loro un pasto caldo ed una tavola di legno dove dormire col sacco a pelo. Pochissimi vestiti. Anzi, un vestito solo. Avrò per due settimane lo stesso paio di pantaloni. Tornerò in Italia da bestia, come spesso accade nei miei viaggi in solitaria. In ultimo, 3 santini di mio nonno nel taschino, da lasciare in posti strategici. Peso totale, acqua esclusa, solo 6 kg. Credo di aver battuto un record.

La cosa più importante però in questo tipo di viaggi, la ho ai piedi. Sullo scarpone non si può assolutamente risparmiare. E io lì, ho il meglio, uno scarpone da alpinismo tecnico italianissimo marca SCARPA, modello RIBELLE HD, eccezionale davvero, che mi ha accompagnato nelle più belle ascensioni andine, alpine ed appenniniche, oltreché sul tetto d'Africa, in vetta al Kilimangiaro.

Mappa del trekking all'Everest Base Camp e laghi di Gokyo

Dunque sono allenatissimo, leggero ed emozionatissimo. Parto, convintissimo di portare a termine con successo il trekking. Ascolterò il mio corpo ogni istante, interrogherò le mie membra ogni secondo. Posso farcela, devo farcela, l'ho promesso a mio nonno: lo porterò lassù, dove osano solo le aquile.

Le incognite oggettivamente però sono tante... troppe! Innanzitutto, a novembre riuscirò a liberarmi dal lavoro prima della partenza? L'aeroplano riuscirà a partire per Lukla? Come sarà il tempo? Il mal di montagna mi rallenterà? In tal caso inevitabilmente dovrei riscendere e pernottare a quote più basse e la tabella di marcia andrebbe a farsi benedire. Ed il temibile Cho La Pass per la traversata verso Gokyo? Ce la farò ad attraversare un tale passo di alta quota, abbastanza tecnico ed impegnativo, con neve e crepacci, ormai quasi a dicembre? Ce la farò a fare il trekking di rientro, da Gokyo a Lukla in soli due giorni? Farò in tempo dunque a prendere il volo Lukla-Kathmandu? Partirà questo volo o dovrò attendere uno o più giorni? E in tal caso riuscirò a prendere il volo intercontinentale per Roma, preso ovviamente senza assicurazione di annullamento? Trascuravo tra l'altro l'incognita più importante che non conoscevo e non potevo conoscere: il terribile attraversamento in solitaria del Nguzumpa Glacier, dove davvero ho rischiato di morire. Ancora me lo sogno la notte.

Guardando la mappa del trekking, il primo dubbio che ho avuto è stato se effettuare il giro in senso antiorario, andando prima all'EBC e poi ai laghi di Gokyo, oppure fare il contrario in senso orario. Decisamente meglio la prima opzione, per tanti motivi: i paesini più caratteristici come Phortse, Tengboche, Dingboche, Periche, Khumjung, Khunde, Namche Bazaar dove si trovano monasteri incantevoli e gli sherpa vivono esattamente come 200 anni fa, rappresentano gran parte del fascino di tale viaggio e sono tutti nella parte destra della cartina: conviene visitarli all'andata, quando occorre salire di quota molto lentamente per favorire l'acclimatamento, avendo la possibilità di tante altre escursioni secondarie. Al ritorno invece bisogna correre per guadagnare tempo e conviene farlo pertanto nella parte sinistra della mappa, paesaggisticamente egualmente strepitosa ma culturalmente meno interessante. Inoltre effettuando il giro in senso antiorario da destra a sinistra, i dislivelli presenti tra le varie tappe consentono un miglior adattamento del corpo all'altitudine, oltre al fatto non trascurabile, che se qualcosa va storto e la tabella di marcia si rallenta, si sta dal lato dell'Everest con possibilità di raggiungere per lo meno gli obiettivi minimi del viaggio, ovvero la salita al Kala Phattar per ammirare l'imponente parete sud di Sagarmatha ed il Campo Base. In definitiva il mio folle programma è il seguente:

24 NOV - Giorno 1: Volo KTM-LUA. Lukla (2850m) - Namche Bazaar (3440 m); pernottamento a Namche.
25 NOV - Giorno 2: Acclimatamento a Namche Bazaar; secondo pernottamento a Namche.
26 NOV - Giorno 3: Namche-Tengboche (3860 m) via Khumjung; pernottamento a Tengboche.
27 NOV - Giorno 4: Tengboche - Pangboche - Dingboche (4400 m), stop due notti.
28 NOV - Giorno 5: Acclimatamento ai 4400 m; secondo pernottamento a Dingboche.
29 NOV - Giorno 6: Dingboche - Lobouche (4900 m); pernottamento a Lobuche.
30 NOV - Giorno 7: Lobuche - Gorakshep (5200 m). Salita al Kala Patthar (o all'EBC a seconda del meteo); pernottamento a Gorakshep.
1 DIC - Giorno 8: Salita all'EBC (o al K.P.). Ritorno a Lobuche. Lubuche - Dzongla (4900m); pernottamento a Dzongla.
2 DIC - Giorno 9: Dzongla - Gokyo (4800 m) attraversando il passo del Cho La ed il temibile ghiacciaio Ngozumpa; pernottamento a Gokyo.
3 DIC - Giorno 10: Visita ai laghi di Gokyo e salita al Gokyo-Ri; secondo pernottamento a Gokyo.
4 DIC - Giorno 11: Ritorno in picchiata, Gokyo - Namche Bazaar; pernottamento a Namche e sbornia colossale per festeggiare.
5 DIC – Giorno 12: Namche Bazaar - Lukla; pernottamento a Lukla.
6 DIC – Giorno 13: Volo LUA-KTM, giro a Kathmandu e Bhaktapur.
7 DIC – Giorno 14: Visita di Bhaktapur e dei dintorni di Kathmandu.
8 DIC – Giorno 15: Visita Kathmandu e volo di rientro serale per Roma.

Lukla e l'aeroporto più pericoloso del mondo

La porta d'accesso alla regione khumbu, nel nord-est nepalese dove si trova il parco nazionale di Sagarmatha, ovvero del Monte Everest, è il villaggio sherpa di Lukla. Impensabile raggiungerlo via terra, dato il limitato tempo a disposizione ed il perché è presto detto: nella regione incredibilmente impervia del Khumbu, non esistono strade carrabili, non esistono mezzi di trasporto motorizzati, ma solo sentieri e tutto avviene a piedi. La ruota qui non esiste. Tutto è trasportato a piedi oppure utilizzando asini e yak. Le opzioni per raggiungere Lukla sono due: o si prende un pullman della durata di 15 ore fino a Jiri affrontando successivamente una settimana di cammino oppure si va in Jeep a Phaplu, vicino Salleri (una decina di ore circa), riducendo a 3 i giorni di marcia necessari. Va messa in conto pertanto via terra, almeno una settimana in più di viaggio. Dunque aereo sia. Volo a Lukla, l'aeroporto più pericoloso del mondo: 155 dollari, sperando non siano gli ultimi spesi nella mia vita.

Il minuscolo aeroporto di Lukla è particolarmente soggetto a cambiamenti atmosferici repentini e se ciò accade, i viaggi non possono che esser cancellati in quanto i veicoli, con una sola decina di posti disponibili, volano a vista. Ma non è solo il tempo che può causare odiosi rallentamenti nella tabella di marcia. Ci sono anche questioni legate al traffico aereo dell’aeroporto di Kathmandu, ridicolmente piccolo, sostanzialmente un unico edificio mezzo diroccato come terminal ed una sola pista per voli nazionali ed internazionali, che va sempre in sofferenza in alta stagione, con la priorità che viene ovviamente data ai voli intercontinentali, e quelli nazionali che spesso vengono dirottati sulla piccola pista Ramechhap di Manthali, in mezzo al nulla a 5 ore di tragitto dalla capitale. Alle persone che dovevano partire si accumulano quelle dei voli successivi: ne esce fuori un delirio ed un casino inestricabile, nel quale, a meno che non si è disposti a sborsare 2500 dollari per contrattare un elicottero che vi porterà a destinazione, inevitabilmente si rimane bloccati ad aspettare al freddo e al gelo in un aeroporto non riscaldato che ha più l’aspetto di una stazione africana degli autobus, senza posti a sedere, senza luci e senza ricevere nessun tipo di assistenza.

Per questo motivo, quando si programma un viaggio del genere, va sempre messa in conto tanta pazienza, e soprattutto sempre 2 o 3 giorni cuscinetto prima e dopo le coincidenze internazionali.

Nonostante un'improvvisazione paurosa all'imbarco e la sensazione netta che il personale non sappia neppure cosa stia facendo, io fortunatamente questi problemi non li avrò: il tempo è bellissimo, sono in bassa stagione in quanto oramai siamo a fine novembre e di escursionisti ce ne sono davvero pochi. Il viaggio comincia alla grande. Volo a Lukla con solo un paio d'ore di ritardo.

Foto panoramica del villaggio di Lukla e dell'adiacente aviopista, la più pericolosa del mondo

Salgo su un trabiccolo alato con una dozzina di posti passeggeri, assolutamente sconsigliato a chi ha paura di volare: ogni folata di vento, ogni vuoto d'aria lo sballottola paurosamente facendo prendere infarti multipli. I piloti sono proprio davanti a me, a nemmeno un metro ed ho una visione perfetta della plancia di comando e del panorama. E che panorama! La distesa infinita di edifici color terracotta di Kathmandu su cui svetta lo stupa gigante di Bodnath, poco a poco lascia spazio a verdi colline terrazzate. E poi un brivido corre sulla mia schiena: le montagne innevate, le vette dell'Himalaya, per la prima volta sono davanti ai miei occhi, lucidi dall'emozione. Dopo solo una quarantina di minuti dal decollo, compare la pista, perfettamente visibile di fronte a me per tutta la durata dell'atterraggio: è la famosissima pista di Lukla, poco più di 500 metri di lunghezza, dunque cortissima e per questo strategicamente e furbamente posizionata in salita con una pendenza di 12° circa, per favorire accelerazione al decollo e decelerazione all'atterraggio dei veicoli, lasciando però ai piloti un margine d'errore pari a zero. Se l'atterraggio è adrenalinico, in quanto a fine corsa c'è un grosso muro di pietra che tutti si chiedono se sarà schivato o preso in pieno, il decollo, vi assicuro, è da infarto assoluto: la pista è posta proprio a strapiombo su un dirupo alto centinaia di metri e quando l'aeroplano in discesa con motori a tutta abbandona la pista, non ha ancora velocità e portanza necessaria per decollare stabilmente e così si butta letteralmente nel vuoto. Hai la netta sensazione di precipitare. Pazzesco. Non a caso l'aeroporto di Lukla, intitolato alla memoria di Sir Edmund Hillary e Tezing Norgary, i primi uomini a scalare il tetto del mondo nel 1953 e fautori della sua costruzione, è stato definito il più pericoloso al mondo. Oggi è la porta d'accesso alla valle del Khumbu: la Dea Madre dell'Universo, obiettivo n. 1 del mio viaggio, è a soli 40 km in linea d'aria.

Lukla è puro stupore. Vedo per la prima volta tutto quello che sarà la norma e la quotidianità per almeno un paio di settimane di trekking, tutto quello che ho sognato ed immaginato nei mesi precedenti al viaggio: i portatori sherpa, i monaci dai lineamenti tibetani vestiti con la tunica rossa, gli yak e gli asini caricati all'inverosimile di sacche da viaggio, borsoni degli escursionisti, bombole del gas o taniche d'acqua o kerosene, le preghiere e le invocazioni scolpite sulla roccia, i massi di pietre piatte "mani" incisi con caratteri tibetani che esprimono i mantra buddhisti, i rulli della preghiera, le montagne innevate che svettano e le onnipresenti bandierine di preghiera svolazzanti sulle pendici... ed i ponti sospesi che solo a guardarli ti caghi addosso, i chörten ovvero i caratteristici stupa buddhisti himalayani ed i tipici monasteri rossi detti “gompa”, i lodge più o meno confortevoli, le casette col tetto celeste, rosso o verde di lamiera... e gli immancabili alpinisti e trekkers, pochi in verità, dal momento che l'alta stagione è oramai finita. E così come impazzito, comincio a fotografare compulsivamente come se non ci fosse un domani, come se la magia di Lukla fosse unica ed irripetibile ed oltre ci fosse solo deserto; per poi scoprire, dopo solo pochi giorni, che in realtà il piccolo paese, porta d'accesso al Khumbu, non è un granché paragonato ai tipici villaggi sherpa incantati e senza tempo che si incontrano nel cammino, con i loro monasteri buddhisti che magari custodiscono gelosamente scalpi di yeti e le strepitose vette himalayane imbiancate sullo sfondo.

Portatori sherpa nelle viette centrali di Lukla

I re del Khumbu

Incredibile in ogni caso il cambio di paesaggio e situazioni in così poco tempo: solo un paio di ore fa ero immerso nel traffico impazzito, puzzolente e delirante di Kathmandu ed ora sono qui, nel Khumbu, immerso in paesaggi bucolici: motorini, risciò e auto scassate strombazzanti sono sostituiti da… carovane di yak con i loro campanacci dondolanti e porters. Già, yak e portatori sherpa: i re incontrastati della regione, che hanno la precedenza assoluta su tutto e tutti lungo il sentiero. E ci mancherebbe pure... con i carichi che trasportano!

Portatori e yak hanno diritto di precedenza!

Lo yak, detto anche bovino tibetano, è un animale simile ad un grosso toro ma con pelo folto e lungo tipicamente di colore scuro, tanto più folto e lungo quanto maggiore è la quota ed il freddo e l'animale non è incrociato. La loro struttura fisica è imponente ed estremamente adattata ad un ambiente montuoso, impervio e freddo.

Uno yak nel cammino verso Namche Bazaar

In Nepal ed in Tibet costituiscono un'importante e versatile risorsa per le popolazioni locali: grazie alla loro incredibile forza muscolare ed all'adattamento a quote elevate, possono esser utilizzati, soprattutto da giovani e nell'età adulta, come eccellenti bestie da soma e come forza motrice in agricoltura per trainare aratri; sono ottima fonte proteica di cibo per sherpa e turisti grazie alla carne ed al buon latte, dal quale si ottengono burro e formaggi, forniscono calda lana e pellicce per il settore dell'abbigliamento. E sono anche utilissimi come combustibile. Non loro ovviamente, ma gli escrementi: sopra ai 4000 metri dove scarseggia la legna da ardere, il combustibile per eccellenza nelle stufe per cucina e riscaldamento è lo sterco di yak essiccato!

Vengono abbastanza maltrattati dagli sherpa che li frustano senza pietà per farli muovere nei sentieri tortuosi o gli tirano pietre. Quando incroci questi bestioni buoni dalle corna giganti e ricurve, in sentieri stretti di alta montagna e sei solo, un po' te la fai sotto, lo confesso... per non parlare poi quando attraversano un ponte sospeso! Questo balla paurosamente e vi assicuro che non è assolutamente piacevole stare lì sopra... molto meglio attendere il passaggio degli yak, oppure accelerare al massimo per uscire dal ponte se si è già a buon punto e la carovana ti sta seguendo nella stessa direzione di marcia. Mi dicono che sull’Himalaya sono morte delle persone, scaraventate giù da questi possenti animali che incrociavano il loro cammino.

Lo sterco di yak ad essiccare

Gli sherpa, il “popolo dell'est” in tibetano (da “shar” e “pa” che significano rispettivamente “oriente” e “gente”), sono il gruppo etnico buddhista più numeroso del Solukhumbu (il distretto nepalese che include le sottoregioni del Solu e del Khumbu), emigrato a sud dal Tibet a partire da circa 6-7 secoli fa in diverse ondate di immigrazione. Villaggi sherpa assai tipici sono ad esempio Khunde e Khumjung, anche se il vero centro sociale, culturale, commerciale ed amministrativo di questo popolo è Namche Bazaar. All'Everest Museum di Namche, inaugurato addirittura da Hillary in persona, posto proprio in corrispondenza dello spiazzale dove nel '53 partì la madre di tutte le spedizioni, è presente un'interessante raccolta fotografica e strumentale su usi, costumi e tradizioni degli sherpa, insieme alle foto dei pochi eletti che hanno conquistato Sagarmatha e le attrezzature alpinistiche di quel tempo, come scarponi, ramponi e piccozze, corde, bombole ossigeno ed erogatori, zaini ed occhiali protettivi...

Tale etnia, caratterizzata da una straordinaria resistenza fisica allo sforzo in alta quota, è diventata famosa nel mondo per la prima volta grazie allo sherpa Tenzing Norgay, che insieme allo scalatore neozelandese Edmund Hillary raggiunse per la prima volta, il 29 maggio 1953 la vetta dell’Everest. Oggi comunque l’appellativo “sherpa” è utilizzato praticamente per riferirsi a tutti i portatori impiegati sull’Himalaya anche al di fuori del Khumbu ed anche quando questi provengono da altre etnie tibetane come la rai, la gurung o la tamang.

Quello del portatore è in assoluto il mestiere più diffuso in un paese che offre poche altre alternative, come ad esempio il gestore di guesthouse o contadino ed allevatore di yak alle quote più basse. Gli sherpa trasportano da valle a monte e viceversa, tutto ciò che serve ad alimentare il turismo alpinistico ed escursionistico, arrampicandosi per giorni con carichi che possono arrivare fino a 70-80 chilogrammi, spesso più di quanto sopporterebbe un mulo. In due settimane ho visto davvero trasportare di tutto: da frigoriferi del peso di 60 kg a zaini ed attrezzatura degli alpinisti, da scatoloni di cartone impilati a mò di torre uno sopra l'altro a materassi e cassette, da pentolame a cibo, da legname e sacchi di juta a pezzi di tetto di lamiera ondulata... addirittura pesanti e scomode porte di legno e forni solari. Spallacci imbottiti e cintura ventrale? Macchè... corde! Scarpe da alpinismo ai piedi modello La Sportiva da centinaia di dollari? Macché... sandali mezzi rotti o scarpe da tennis usurate con suola liscia come il ghiaccio.

Portatore sherpa di bassa quota: notare le ciabbatte!

Per trasportare le pesanti pietre da costruzione utilizzano particolari “zaini” di legno a sedia che solo a vederli fanno venire l'ernia al disco. La maggior parte delle volte però utilizzano delle grandi ceste di vimini chiamate “doko”, poste dietro le spalle e ancorate alla fronte con una fascia, con un sistema di tiranti per distribuire, orientare in fase di marcia ed equilibrare meglio il peso; con un bastone di legno a T chiamato “tokma”, si aiutano durante le salite più ripide ed appoggiano il cesto scaricando tutto il peso a terra quando vogliono riposarsi. Una radiolina allieta il cammino con un po' di musica.

Portatore sherpa si aiuta nella dura salita con il "tokma"

Portatore sherpa si riposa scaricando il peso sul "tokma"

Vederli dal vivo vi assicuro che è pazzesco. Da non credere. Ho visto ragazzi ed uomini soprattutto, ma anche donne e ragazzini. Addirittura anziani. Quando io sputavo pezzi di polmone, loro avanzavano con le loro radioline e musica nepalese a palla facendomi sentire un pivellino. Decisamente no, non sono proprio come noi: uno studio condotto alla piramide del CNR di Lobuche ha mostrato che uno sherpa a 5000 metri perde solo il 17% della sua massima potenza aerobica, contro il 26% di un maratoneta professionista e ben il 40% di una persona sana e sportiva che pratica con regolarità attività fisica. Tutti gli altri, praticamente a 5000 metri non ci arrivano neppure. Geneticamente non hanno una schiena umana, una muscolatura umana, non hanno globuli rossi umani. Non sono umani, sono alieni che vengono pagati in base al peso che sono disposti a caricare e per questo, da generazioni, spingono il proprio corpo ai limiti in condizioni di privazione d'ossigeno, modificando così darwinianamente il proprio DNA: 5 dollari al giorno circa per un trasporto di un “load”, equivalente a circa 20 kg. Uno sherpa giovane può portare in 10-12 ore, un carico di 40 kg da Lukla a Namche Bazaar guadagnando quindi la miseria di 10 dollari. I più forti, e sono tanti, riescono a trasportare per diverse ore 3 load, ovvero 60 kg. Alcuni addirittura 4. Non ci crederei se non l'avessi visto con i miei occhi. Se uno yak viene caricato con 4 load, si ribella e comincia a dimenarsi dando cornate; gli sherpa invece no. Ovviamente il guadagno e con esso il rischio, aumenta proporzionalmente con la quota e la difficoltà: sopra i 5 mila il trasporto di 20 kg di materiale vale 150 dollari al giorno, che diventano 250 per chi è disposto a spingersi fino agli 8 mila metri del “Colle Sud” dell’Everest. Queste cifre fanno ovviamente gola a molti in un paese poverissimo e pertanto quelli che hanno esperienza sufficiente di alta quota, sono disposti a rischiare la propria vita accompagnando in qualità di guida le spedizioni alpinistiche himalayane. Una spedizione di successo in vetta all'Everest fa guadagnare ad uno sherpa ben 5 mila dollari, sufficienti per comprare una casa nel proprio villaggio. Due vette conquistate e sei sistemato a vita, tu ed i tuoi figli.

Gli sherpa in realtà non sono mai stati interessati alle scalate fin quando non è cominciato il business del turismo d’alta quota, un business fondamentale soprattutto per il Nepal, che incassa ben 11 mila dollari da ciascun turista solo per il permesso di scalare la montagna. Ovvio che questi permessi vengano concessi in modo indiscriminato senza alcuna reale valutazione della preparazione tecnica necessaria degli alpinisti facendo così crescere anche il rischio di incidenti mortali.

In una spedizione d'alta quota, gli sherpa devono occuparsi di tutto: preparano i percorsi lungo i quali avanzano le spedizioni, sistemano corde e scale di sicurezza soprattutto nel temibile e terribile ghiacciaio del Khumbu e nella sua parte più alta, la “serraccata” (il Khumbu Icefall), sede della maggior parte degli incidenti, montano i campi tendati e cucinano i pasti, caricano sulle spalle cibo e attrezzatura, a volte anche oggetti del tutto superflui ed inutili al fine di compiacere facoltosi clienti delle agenzie che gestiscono il business delle scalate, pronti a sborsare oltre 100.000 dollari per conquistare la vetta della "Dea Madre dell'Universo". I portatori sherpa vengono impiegati addirittura nel macabro lavoro di recupero dei corpi, pagato dalle poche famiglie che per motivi religiosi, lo richiedono. Il resto delle persone uccise dalla montagna, invece restano lì: l’Everest è cosparso di cadaveri perché a quelle quote, le possibilità che qualcuno possa riportarli indietro sono praticamente nulle. In molti casi i colori brillanti e lucenti dei loro indumenti servono addirittura per marcare il percorso: gira a destra quando incontri il morto col giubbotto verde, vai dritto quando incontri quello con il piumino rosso... si può scorgere la pelle scoperta, addirittura in alcuni casi il viso... nessun teschio, ossa o parti in decomposizione in ogni caso, perché la pelle è talmente ghiacciata da essere quasi imbalsamata. I morti dell'Everest sembrano statue di cera. La Dea Madre dell'Universo li ha uccisi, ma li ha anche consegnati all'immortalità: da uomini, sono diventati “segnaletica stradale” per alpinisti.

Gli sherpa vengono anche impiegati nello smaltimento dell’enorme quantità di rifiuti disseminati lungo il sentiero per la vetta. L'Everest nel tempo è infatti diventata una mezza discarica e dal 2014 il governo nepalese ha imposto ad ogni scalatore di riportare con sé a valle otto chilogrammi di immondizia, pena la perdita di un deposito di 4 mila dollari. Ma manco a dirlo, anche questo compito è svolto dagli alieni.

Il loro è in assoluto il mestiere col più alto tasso di mortalità al mondo, superiore all'1%: ad oggi, gennaio 2021, un terzo degli oltre 300 alpinisti morti nel tentativo di raggiungere la vetta, sono sherpa. Nel 2014, a esempio, la temibile “cascata di ghiaccio” del Khumbu uccise 16 portatori in una sola volta, causando la più grave tragedia nella storia delle scalate dell’Everest. E le cose con molta probabilità, andranno sempre peggio perché le spedizioni sono sempre più composte da scalatori danarosi senza l’esperienza necessaria ad affrontare un'impresa di questo tipo: milionari di tutto il mondo credono che basti pagare per conquistare con solo un po' di fatica ed allenamento precedente la vetta del mondo. Per loro, grazie soprattutto all'uso di steroidi e bombole d’ossigeno che aiutano a scongiurare edemi celebrali e polmonari, il rischio di morire si è indubbiamente ridotto mentre per gli sherpa, che devono tra le altre cose, badare alla loro impreparazione e trasportare anche le pesanti bombole, è invece aumentato.

In tutto il viaggio io non ho mai perso occasione per mostrare la debita gratitudine ed il dovuto rispetto agli sherpa incontrati. Ogni volta che ho visto uno di loro spezzarsi la schiena sotto il peso di carichi irragionevoli gli ho offerto aiuto a costo di ritardare la mia tabella di marcia e fare sforzi che mi avrebbero predisposto al mal di montagna; loro hanno cortesemente sempre rifiutato... sono un popolo orgoglioso, silenzioso e schivo, genuino e generoso, un po' come tutta la gente di montagna. L'ideale dello sherpa tipico è la non violenza, contraddistinta ad esempio dal rifiuto di far piangere i bambini o di uccidere gli animali, compito quest'ultimo che, non rinunciando a mangiar carne, affidano ad altre etnie. Per loro il denaro è poco importante, l'avidità e l'accumulo di ricchezza a danno di altri, un peccato grave: l'essenziale è mantenere il cuore puro e sereno, sviluppare saggezza e tolleranza. Ed onorare e venerare gli dei.

Giorno 1: Lukla - Namche Bazaar

Superata la via principale di Lukla, comincia il sentiero sterrato per Namche Bazaar. Una grande porta con due grossi e tozzi stipiti di pietra ed un'architrave di cemento, segna l'inizio del trekking dell'EBC. Lo attraverso, ore 11 di mattina del 24 novembre, ben conscio che mi aspetteranno due settimane magiche, uniche, indimenticabili. Durissime. L'adrenalina è a mille. Sono carico ed allenato come non mai. Via, si parte! Oltre 120 km in diverse tappe ed 11 giorni, per ammirare alcune delle vette più belle del mondo! La Dea Madre dell'Universo sarà indubbiamente la motivazione principale del viaggio, ma di montagne mitiche ed assai famose, la cui sola pronuncia del nome mette i brividi, ne incontrerò nel trekking tante altre: il Lhotse ad esempio (8.516 m) ed il Nuptse (7.864 m) proprio adiacenti all'Everest, il Cho Oyu (8.201 m) ed il Makalu (8.463 m)... e poi tanti altri 6000 e 7000 “secondari” (tra virgolette doverose!) come il Pumori (7.161 m.), il Lobuche (6.145 m), il Taboche (6.501 m.) collegato al Cholatse (6.440 m.) da una lunga cresta, il Thamserku (6.623 m.) e l'adiacente Kangtega (6.783 m)... ed infine la più bella del reame, l’Ama Dablam con i suoi 6.812 metri. Caldo e raggi solari, freddo, gelo, neve. Ghiacciai terrificanti. Sentieri impervi e ponti sospesi ad altezza vertiginosa. Un viaggio nel viaggio, una sfida contro la natura e soprattutto me stesso, alla scoperta (o meglio, all'ennesima conferma) di quanto poco basta per esser felici e realizzati, lontani dal materialismo, dal consumismo e da tutte le comodità a cui siamo abituati. Anche dall’ossigeno. La meta finale è ovviamente l'Everest, che ammirerò in tutta la sua sgraziata maestosità dalla cima del Kala Patthar, una “collina” a 5.643 metri di altitudine sopra Gorak Shep, ultimo villaggio sherpa della vallata costantemente abitato. Da qui, costeggiando la morena del ghiacciaio del Khumbu, proverò a raggiungere il famoso Campo Base a 5364 metri, dove da marzo a maggio si montano le tende delle varie spedizioni che attendono la “finestra” giusta di bel tempo per tentare l’attacco finale al tetto del mondo. Attraverserò poi il passo d'alta quota del Cho La per andare ai laghi di Gokyo, ad ammirare estasiato il panorama alpinistico più bello del pianeta Terra, sulla vetta del Gokyo Ri. Programma come già detto ambizioso, forse folle in soli 12 giorni. Ce la farò?

Gate d'ingresso di Monjo del Sagarmatha National Park

Normalmente, gli escursionisti che partono da Lukla per il trekking dell'EBC, si fermano la prima notte a Phakding, villaggio piuttosto turistico, pieno di locande e guesthouse, oppure nel più piccolo, caratteristico ed autentico villaggio di Monjo, dove si trova l'ingresso ed il posto di controllo del Sagarmatha National Park. Io invece, l'unico probabilmente tranne qualche sherpa già acclimatato di default, tiro dritto fino ai 3500 di Namche Bazaar. La marcia nella valle scavata dal fiume Dudh Kosi è massacrante, perché è tutta un saliscendi a 3000 metri d'altitudine, col tuo corpo ancora non acclimatato. Il paesaggio è bellissimo, con le colline verdi, le vette bianche e puntute sullo sfondo, le cascate lungo il sentiero, i campi coltivati e gli yak che adeguatamente frustati, trascinano gli aratri. Nel Khumbu si coltivano verdure, ortaggi e frumento fino a 3500 metri, grano saraceno, orzo e patate fino a 4000 metri d’altezza.

Lo scrosciare dell'impetuoso fiume sottostante fa da sottofondo musicale al mio cammino felice ed accompagna i miei passi lenti e cadenzati. Il sentiero è molto trafficato perché la maggior parte degli escursionisti si ferma proprio a Namche Bazaar senza proseguire, così a volte si formano ingorghi pazzeschi... yak, asini e porters, stracarichi all'inverosimile si incrociano in punti stretti ad imbuto oppure in corrispondenza dei vertiginosi ponti tibetani: la matassa è difficile da districare e così non si può far altro che rimanere in attesa anche 10-15 minuti.

Attraversando uno dei tanti ponti tibetani sul Dodh Kosi nel cammino Lukla-Namche Bazaar

In cammino dell'EBC è impregnato di buddhismo in ogni granello di polvere; la religione praticata qui nel Khumbu è però un po' atipica, in quanto ha anche forti tendenze animiste. Gli sherpa venerano un gran numero di dei e spiriti che abiterebbero le gole, i fiumi e le montagne della regione: è fondamentale rendere omaggio a questo insieme di divinità per assicurarsi un passaggio senza incidenti attraverso una regione così piena di insidie.

Un chörten di preghiera lungo il cammino per Namche Bazaar

Mantra buddhisti scritti sulla roccia ed un bambino sherpa

Per questo si costruiscono chörten che sono disseminati un po' ovunque, si scolpisce la pietra con preghiere, si incidono pietre piatte “mani” o si fanno svolazzare al vento lunghe catene di bandierine multicolore che recano stampate invocazioni buddhiste, la più comune delle quali è il mantra “Om mani padme hum” che viene inviato agli dei ad ogni sventolio; gli sherpa utilizzano per queste bandierine il nome “lung-ta” che tradotto significa “cavallo di vento”: nella tradizione sherpa, i cavalli alati sono infatti creature sacre che si pensa portino in cielo le preghiere con estrema velocità. Questi rettangoli di stoffa di differenti colori che invitano alla compassione ed alla forza, all'armonia ed alla pace, alla saggezza ed alla protezione contro il male ed i pericoli, si vedono ovunque nell'Himalaya e sono forse il simbolo più riconoscibile del Khumbu. Onnipresenti nel cammino anche le “ruote di preghiera” o ruote “mani” spesso posizionate in tempietti dedicati: sono cilindri rotanti su un asse centrale che rappresenta l'albero della vita, di ogni dimensione, dalle più piccole, pochi centimetri d'altezza e diametro, alle più grandi, fino ad un paio di metri d'altezza, con i soliti mantra incisi sull'esterno del cilindro. Il mantra “Om Mani Padme Hum” è al solito quello più comunemente usato e quasi sempre presente, ma possono esserne utilizzati anche altri. Secondo la tradizione, far girare questa ruota ha più o meno lo stesso effetto meritorio di recitare una preghiera. Io, per non sapere né leggere né scrivere, ogni volta che ne incontro uno, lo giro sempre. Sia mai che il Buddha è magnanimo con me e mi risparmia il mal di montagna che mi sono cercato, tagliando un giorno alla minima tabella di marcia.

La salita da Monjo a Namche Bazaar è di quella che spezza le gambe. Arrivo nel capoluogo del Khumbu alle 7 di sera, camminando l'ultima ora praticamente al buio totale, seguendo il sentiero illuminato con la torcia a carica manuale che fortunatamente mi ero portato dietro. Di notte è facile sbagliarsi perché non si ha vista d'insieme, ma io non avrò nessun problema né timore: in caso di dubbio infatti, per trovare la mulattiera basta seguire la scia di sterco degli yak. Semplicissimo. Tale regola banale mi ha portato fino al campo base, facendomi camminare a volte anche al buio. Io, solo con me stesso ed i miei pensieri, il vento gelido che ti schiaffeggia, le stelle e le vette Himalayane imbiancate. E lo sterco di yak.

Namche Bazaar, la capitale sherpa del Khumbu

Situata in posizione strategica a 3440 m sopra al livello del mare, ad un paio di km in linea d'aria dal punto in cui il fiume Dudh Kosi incontra il Bothe Kosi, Namche Bazaar è l’insediamento più grande della regione del Khumbu, il cuore culturale, storico ed amministrativo del territorio sherpa: un centinaio di edifici dai tipici tetti di lamiera blu, verde o rossa, sono appollaiati in modo drammatico su un pendio scosceso e collegati da un labirinto di sentieri e stradine frequentati indifferentemente da uomini, cavalli, galline e yak.

L'incredibile anfiteatro naturale di Namche Bazaar

Il villaggio ha posizione incredibilmente scenografica essendo disposto ad anfiteatro su un'enorme conca inclinata, con le immancabili, strepitose fantasmagoriche montagne sullo sfondo. E' anche ovviamente il paese più turistico della valle in quanto luogo di passaggio obbligato per tutti i trekkers: Namche non solo è posta proprio in corrispondenza del bivio per il Renjo La Pass e poco prima di quello per l'EBC ed i laghi di Gokyo, ma è anche il punto più "vicino" a Kathmandu dal quale è possibile vedere la Dea Madre dell'Universo senza ammazzarsi in faticosissime settimane di trekking.

Qui si possono dunque trovare per l'ultima volta, tutte le comodità tipiche occidentali, molti alberghetti più o meno confortevoli e svariati ristorantini, un ATM alla Siddharta Bank (che per prelevare ci vuole mezza giornata perché quasi mai funziona o ha contante), panifici ed internet Cafè. Addirittura un pub, l'Irish pub più alto del mondo! Ma la birra ora non mi è concessa, sono in fase di acclimatamento e se me ne faccio una poi me ne scolo 200. Meglio evitare e dedicare tutte le mie risorse fisiche e mentali all'Irish pub al ritorno quando festeggerò (forse) la riuscita del trekking a tempo di record dando fondo alle riserve di birra dell'intero villaggio sherpa.

A Namche mi fermerò due notti, coerentemente con la regola n.3 precedentemente illustrata per prevenire il mal di montagna: sai com'è... ho saltato proprio il primo giorno la n.1 (primo pernottamento sotto i 3000 metri) e la n.2 (dislivello giornaliero minore +600 metri) ed è il caso da questo momento in poi di esser rigorosi. Nessun problema perché qui, tutto è talmente sorprendente che annoiarsi è impossibile. Viene davvero voglia di restare più a lungo, più del tempo necessario per acclimatarsi: nessun mezzo a motore, animali e uomini insieme in un perfetto e bellissimo connubio con viaggiatori da tutto il mondo che passeggiano nelle ripide stradine acciottolate insieme a yak e cavalli, panorami mozzafiato, ristorantini tipici e lo stretto indispensabile, tutto in 6 kg di zaino... sport e spiritualità. Poco ma tutto, e tutto per l’ultima volta: l'acqua calda ad esempio, quindi una doccia. Da Namche in poi diventerò una bestia ed assumerò odori più simili a quelli di uno yak che di un essere umano. Energia elettrica illimitata e non a pagamento ad ore, per la ricarica dei dispositivi. Poi la carne, anche se io comunque non la mangio, perché alle altitudini superiori arriva congelata e viene conservata per lunghi periodi, cosicché pur disponibile, è costosa e non conviene consumarla. Anche l'attrezzatura sportiva: Namche Bazaar è piena di negozi di escursionismo ed alpinismo così se manca qualcosa di fondamentale, come torce, calze, scarponi, pantaloni, giacche, pastiglie potabilizzatrici etc... è qui che vanno acquistate perché nei villaggi successivi a quote maggiori non ci sarà niente. A Namche insomma, c'è tutto per l'ultima volta.

Le stradine di Namche Bazaar

Nel punto più alto di Namche, al lato estremo della conca naturale, frequentata da circa un paio di cento bambini, si trova la Shree Himalaya Basic School, distrutta dal terremoto del 2015, il quale rese totalmente inagibili gran parte delle sue aule. Il disastro avvenne però di sabato, con le scuole chiuse, cosicché quando parte dell’edificio crollò, fortunatamente al suo interno non c’era nessuno e non ci furono vittime. Parlo con un docente che ha un buon livello d'inglese e così la conversazione risulta facile: appena dico che sono italiano, vedo i suoi occhi che si illuminano! La scuola ha infatti avuto sempre un legame molto stretto col Bel Paese. La prima costruzione è avvenuta nel 1957 grazie a Edmund Hillary e poi a partire dagli anni 2000, in step successivi, è stata ampliata con nuove aule e settori, grazie al finanziamento di diversi benefattori ed onlus italiane. Grazie ai fondi raccolti dal Comitato carnevale di Varallo e dalla fondazione “Specchio dei tempi”, la scuola è stata totalmente riedificata seguendo criteri antisismici. Il docente mi ringrazia di cuore e mi stringe le mani con affetto e riconoscenza, manco fossi io ad aver finanziato l'opera di ricostruzione!

Suona la campana, fine lezioni! I bambini si dispongono nello spiazzale di sabbia antistante, poco sopra un improvvisato campetto di calcio con le porte piccole e recitano, urlando in lingua locale, dei versi che non capisco, sotto lo sguardo attento degli educatori. Poi escono in fila indiana ordinata e vanno alle loro case, passando tra porters, yak, asini ed escursionisti stranieri. Penso inevitabilmente ai miei figli che quando escono da scuola sembrano dei barbari! Gli unni! Calci, botte, urla, dispetti reciproci e gli insegnanti che sbraitano e non sanno come contenerli... Ma si sa siamo italiani, nel bene e nel male. Se c'è una cosa che ho capito viaggiando, è che noi, il concetto di fila ordinata non lo abbiamo proprio nel nostro DNA.

Per favorire l'acclimatamento, coerentemente con la regola n.4 (scala alto di giorno, dormi in basso la notte) è possibile fare diverse escursioni nei dintorni raggiungendo e superando i 4000 m. Dall’alto di Namche Bazaar, ovvero dal gompa che protegge la città dall’alto, parte un sentiero davvero magico, fatto di ginepri, rododendri, allevamenti di yak, piattelle di sterco ad essiccare ad uso combustibile. Si incontrano diversi "belvedere", con funi tese da una roccia all'altra coperte delle solite bandierine di preghiera, dai quali la vista sull'anfiteatro naturale di Namche, sotto i 6623 metri del Thamserku, è semplicemente mozzafiato.

A 3750 metri incontro l'incredibile "aeroporto" di Syangboche. Ve l'immaginate una pista con sassi e terra invasa dagli yak? Ebbene qui in Himalaya è possibile! Come facciano aeroplani ultraleggeri a decollare o atterrare in mezzo alle vette, con un'aria così rarefatta che riduce l'efficienza dei motori ed in un terreno così irregolare non lo so! Ma d'altronde, anche la pista di Lukla fino ai primi anni '90 era così.

La pista di Syangboche con il Thamserku nello sfondo

Superata la sgarrupata aviosuperficie, praticamente più d'emergenza che altro, compare anche la vetta più bella della catena montuosa nepalese, forse del mondo: l'Ama Dablam (6812 m), non a caso soprannominata il "Cervino dell'Himalaya": sembra un angelo che ti avvolge con le sue ali, imponente e protettivo. Il vero obiettivo del mio giorno 2 è comunque vedere per la prima volta l'Everest, anche se solo in lontananza. Esiste un punto sopra Namche, nei pressi dell’Hotel Everest View, citato nel Guinness dei Primati come l’albergo più in alto del mondo, uno spiazzale d'erba posto a circa 3900 metri, dove si può avere una vista incredibile della Dea Madre dell'Universo. Oppure si può entrare in questo alberghetto/chalet di montagna, ordinare un caldo e fumante ginger tea e sedersi sulla sua strepitosa terrazza affacciata sulle montagne, ammirando il panorama e pensando a quanto si è fortunati ad esser lì. Oggi però purtroppo è nuvoloso, l'Everest è timido e si farà negare; d'altronde tutte le grandi dee fanno così: non si concedono subito, proprio per aumentare il desiderio nello spasimante, facendolo bruciare d'amore. Spero però davvero di aver maggior fortuna sul Kala Patthar... lì non avrò un altro giorno cuscinetto per tornare; stravolgerei totalmente la tabella di marcia, pregiudicandomi di fatto la possibilità di andare a Gokyo. Visibilità o meno, il panorama comunque che ho davanti a me è semplicemente strepitoso: il Thamserku alla mia destra, poi via via andando verso sinistra l'Ama Dablam, l'Everest ed il Lhotse con la cima coperta dalle nuvole, ed i 6501 m del Taboche. Fortunatamente i 4000 metri d'altitudine, finora non li sento per niente, sto benissimo, fresco come un grillo e forte come un leone, respiro benissimo, niente mal di testa: sarà per l'allenamento precedente spinto all'inverosimile ed al fatto che sto bevendo acqua come un cammello! Incontro però molte persone stravolte e bianche in viso. Vedrò addirittura un signore sentirsi male ed una ragazza vomitare: per loro si valuterà l'evacuazione in elicottero da Syangboche, ma dati gli alti costi ed i lunghi tempi d'attesa, entrambi, pesantemente colpiti da mal di montagna, opteranno per scendere in tutta fretta, accompagnati sottobraccio da due sherpa. A volte bastano solo 400-500 metri di dislivello per riprendersi completamente. Speriamo sia andato tutto bene agli infortunati... Entro un po' turbato, all'Hotel Everest View per una bevanda calda.

Sono abituato alle sorprese in viaggio, ma questa davvero le ha superate tutte. Mi trovo a 4000 metri, in uno chalet di pietra gelido di montagna nel bel mezzo dell'Himalaya... e cosa trovo qui? L'oggetto a cui sono più affezionato, quello che mai avrei pensato di trovare a queste altitudini e temperature... Non ci crederete, ma proprio di fronte alla terrazza, nella sala pranzo, trasportato fin qui con un elicottero, si trova un bel pianoforte a coda nero perfettamente funzionante e pure perfettamente accordato! Apro timoroso il coperchio e suono, con grande difficoltà visto che ho le mani gelate: gli ambienti non sono riscaldati e fa molto freddo. Mi limito a qualche pezzo elementare, ricevendo comunque un lungo applauso da parte delle pochissime persone presenti.
Un signore francese, mi dirà una frase che ricorderò per sempre con enorme piacere: «Hai reso questi attimi i più indimenticabili della mia vita. Ti sarò riconoscente per sempre!»
E poi, di fronte al Cervino dell'Himalaya ed a sua maestà Sagarmatha, tento "Oltremare" di Ludovico Einaudi, in assoluto uno dei miei pezzi preferiti. Ed il tempo si ferma. Si liquefa. Gli orologi divengono molli, come nel quadro di Dalì "La persistenza della memoria". Sarei davvero rimasto lì a suonare per l'eternità. Felicità. Sì, è questa per me l'essenza più pura e genuina della felicità.

Incredibile ma vero, un pianoforte a coda a 4000 metri all'Hotel Everest View...

Il primo appuntamento con la vetta dell'Everest oggi è però saltato. E' quasi buio e devo rientrare a Namche: regola n.4, scala alto, dormi basso. Ritenterò domani perché per andare a Tengboche via Khumjung dovrò per forza di cose ripassare qui, concedendomi anche una seconda strimpellata. Ed il giorno seguente, come per magia, dopo avermi fatto bruciare di voglia d'amore, Sagarmatha si concede. Il tempo come per incanto si apre, il cielo è perfettamente limpido. La Dea si spoglia e si mette a nudo. Ed io vado in paradiso.

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