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Gli anni di ricerca al CNR

I semiconduttori organici ed il pentacene

Il pentacene, di formula chimica C22H14, è un idrocarburo policiclico aromatico, costituito per chi mastica un minimo di chimica, da cinque anelli benzenici condensati ed allineati: si comporta sotto opportune condizioni, da semiconduttore di tipo p e tra tutti i materiali organici è in assoluto il più performante, il più promettente e dunque studiato, avendo proprietà assai interessanti e vantando mobilità (grandezza che misura la “bontà” del materiale nel condurre la corrente) di tutto rispetto.

Il pentacene è stato praticamente la mia vita (lavorativa ovviamente...) per quasi 5 anni, dal 7 gennaio 2004 quando cominciai la tesi di laurea sperimentale in fisica a Roma presso l'IFN (Istituto di Fotonica e Nanotecnologie) del CNR, fino a settembre 2008 quando, dopo la nascita di Leonardo, mollai la ricerca scientifica per accettare una nuova sfida in azienda, vicende ben raccontate nel post “Storia della mia vita” nella sezione “Chi sono” del blog.

Il Pentacene in polvere della Aldrich da depositare mediante evaporazione

Alla fine degli anni Ottanta, la scoperta che alcune plastiche potevano comportarsi in particolari condizioni da conduttori e semiconduttori, aprì la strada ad applicazioni fino a poco tempo prima impensabili nel campo della microelettronica, della sensoristica e del fotovoltaico di nuova generazione. Da quel momento in poi la ricerca in questo settore non ha praticamente conosciuto battute d’arresto, attirando l'attenzione e l'interesse di tutta l’industria hi-tech.

Questi materiali organici hanno in generale prestazioni nettamente inferiori rispetto ai cugini inorganici, silicio in primis (il vero re incontrastato e checché ancora se ne dica, assolutamente incontrastabile dell'elettronica), dunque non possono in nessun modo competere con i semiconduttori monocristallini o policristallini di fascia alta, utilizzati ad esempio nelle memorie dei PC, nei circuiti integrati, nei microprocessori o anche nelle celle solari fotovoltaiche ad alta efficienza. Posseggono però prestazioni paragonabili con il silicio amorfo, il quale viene usato in molte applicazioni di basso costo e largo consumo come monitor o piccoli display; hanno caratteristiche modificabili per via chimica e proprietà non ottenibili nei dispositivi classici come flessibilità meccanica, bassi costi di produzione, possibilità di copertura di grandi aree e facilità di deposizione a temperature notevolmente più basse virtualmente su ogni tipo di substrato (anche su carta e plastica) utilizzando tecniche molto più economiche ed assai meno energivore come quelle a getto d'inchiostro (inkjet printing).

E' soprattutto la flessibilità meccanica che distingue questi nuovi ritrovati plastici dal rigido silicio, il quale invece, piegato, si sfalda facilmente: il loro sviluppo pertanto aprirebbe la strada ad applicazioni futuristiche nell'elettronica “pieghevole”, nella biomedicina e nella robotica, quali guanti sensibili, e-skin (pelle artificiale), smart card plastiche, sensori di pressione ed umidità, display “arrotolabili” ed addirittura monitor da “indossare”. Attualmente sui più comuni display, la matrice degli emettitori, cioè i dispositivi che emettono la luce, è già da tempo realizzabile con film organico: sono i classici schermi OLED. Se si riuscisse a realizzare in questo modo anche la matrice posteriore di transistors che pilotano gli emettitori, allora potremmo avere un unico film organico che comprende le due funzioni del display e potranno esser realizzati giornali elettronici che si sfogliano, schermi che si arrotolano e si ripiegano su se stessi come se fossero fogli di carta e tanto altro. Io al CNR lavoravo proprio alla messa a punto della matrice organica di film sottile di transistors (OFET, Organic Field Effect Transistors o anche OTFT, Organic Thin Film Transistors), concentrando tutta la mia attenzione esclusivamente sul pentacene.

Ingresso dell'Istituto di Fotonica e Nanotecnologie del CNR

Nel 2004, alla ricerca di una tesi di laurea sperimentale stimolante ed in prospettiva spendibile a livello lavorativo, dopo un po' di girovagare all'ENEA dove ero molto attirato dagli specchi parabolici del solare termodinamico di Rubbia, arrivai all'IFN: era il posto giusto al momento giusto. La ricerca sugli organici, in collaborazione con un gruppo di Trento, stava partendo proprio in quei mesi. C'erano le condizioni giuste per render al meglio, un bel gruppo, gran feeling tra colleghi, quasi tutti tra l'altro molto giovani, belle italiche teste ed un ambiente lavorativo sereno e non competitivo. Nel gruppo dell'elettronica organica eravamo a tempo pieno in 2, io e Francesco De Angelis detto Franz, mio mentore, gran cervello e caro amico, con carta bianca praticamente su tutto, con due superiori supervisori, eccelsi professionisti: Luigi Marucci e Guglielmo Fortunato.

Camere bianche e museruole

Al CNR ci occupavamo di tutto. Tutto significa tutto, tranne una cosa: la sintesi del pentacene, che compravamo dalla Sigma Aldrich americana con un grado di purezza del 99,9%. I nostri compiti spaziavano dall'organizzazione di incontri con i fornitori alla richiesta ed analisi dei preventivi, dalla ricerca di tecniche e strumenti alla progettazione degli apparati e dei dispositivi, dallo studio della letteratura scientifica esistente in materia alla modellizzazione teorica dei transistors ed alla loro simulazione computazionale, dalla costruzione fisica degli apparati di deposizione e misura all'ottimizzazione dei processi, anche mediante imaging AFM (microscopio a forza atomica) e SEM/TEM (microscopi elettronici a scansione e trasmissione), dalla fabbricazione pratica degli OFET mediante tecniche fotolitografiche alla misurazione finale dei dispositivi nelle varie condizioni con successiva analisi dei dati di output... fino alla preparazione di convegni e conferenze, ed alla meritata scrittura e sottomissione di pubblicazioni presso riviste scientifiche per mostrare al mondo il lavoro svolto. Senza sconti, favoritismi o corsie preferenziali. Il CNR è ente statale, blasonato ma squattrinato e non si chiama Pfizer: l'iter da seguire per poter pubblicare è lungo, i dati sono sottoposti a vera revisione paritaria e non si può barare.

Non esistono “ghostwriters” come nella letteratura medica, che ha perso oramai molta della già limitata credibilità che aveva, in quanto afflitta da gravi e diffusi conflitti d'interesse. Il CNR non può dire quello che dice Pfizer: «Tutto il mondo deve comprare i miei prodotti al prezzo che impongo io e nessuno può fiatare o sollevare dubbi. Però i dati grezzi se li volete posso fornirli tra 75 anni. Nel frattempo bucatevi tutti con i miei sieri genici sperimentali, che sono super sicuri. Tanto poi se vi vengono patologie da “non correlazione” vi possiamo curare con nuovi farmaci, ancor più sicuri... e se il nostro CEO Albert Bourla fa il grande annuncio e contemporaneamente guadagna in un solo secondo dalla vendita di azioni 6 milioni di dollari, beh, cosa volete... è il mercato! Non ha violato alcuna legge! Voi giornalisti, non rompete il cazzo, spegnete il cervello se lo avete, e propagandate a tutto il mondo a reti unificate che i salvatori della patria sono arrivati! Pepperepepeppè!».

Il CNR fu una grande palestra per me, chiamato ben presto non solo a fare il ricercatore teorico e sperimentale, ma anche l'informatico, l'imprenditore, il tornitore, il falegname, l'elettricista, l'idraulico... sempre impegnato ad armeggiare con tubazioni, raccordi, o-rings, pompe da vuoto, linee elettriche, acidi e solventi, preventivi, PC scassati da riparare e programmi da farci girare.

Ecco in sostanza il perché i ricercatori italiani sono i migliori al mondo: sono abituati a lavorare in condizioni croniche di carenza di fondi e strumentazioni, oltretutto sempre con la spada di Damocle dei contratti precari da rinnovare annualmente. Al Consiglio Nazionale delle Ricerche infatti, gran parte dei ricercatori (me compreso ovviamente) che mandavano avanti la baracca erano precari, al contrario di tutti gli amministrativi e del personale di servizio, tutti con contratto a tempo indeterminato. I pochi scienziati produttivi regolarmente assunti erano mediamente over40: i soliti paradossi all'italiana, figli oggi soprattutto dell'adesione scellerata ed incondizionata ai dogmi neoliberisti di Bruxelles.

Preparazione in clean room dei transistors organici a film sottile (fase di evaporazione del pentacene)

Lavoravo la maggior parte del tempo in una “clean room”, detta anche “camera bianca” o “camera pulita”, essenzialmente un ambiente sterile e purificato, ad atmosfera e contaminazione controllata, adibito a laboratorio per la produzione di dispositivi elettronici, nel quale avviene un filtraggio assai spinto dell'aria per aumentare la qualità dei film depositati e migliorare tutti i processi micro e nanoelettronici. Per capirci, l'aria all'interno di tale zona era svariate decine di migliaia di volte più pura di quella di una comune sala operatoria. Tutto era progettato e realizzato in modo tale da avere un controllo assoluto della concentrazione di particelle aerotrasportate e ridurre al minimo possibile l'introduzione, la generazione ed il mantenimento di impurità all'interno.

In clean room lavoravo completamente protetto da tute speciali lavate opportunamente dopo l'utilizzo, dovevo radermi regolarmente, evitare di introdurre oggetti inutili, indossare guanti in lattice, copricapo e calzari monouso. L'ingresso alla camera bianca avveniva attraverso un ambiente "grigio" di congiunzione, nel quale mi toglievo gli indumenti “sporchi” ed indossavo quelli sterili, per poi entrare in un ultimo box di acciaio inox dove ero soggetto a flusso multidirezionale molto forte (e ricordo fastidiosamente rumoroso) di aria purificata ed azoto per rimuovere tutti i contaminanti possibili. A quel punto, e solo a quel punto, ero dentro. Una tale procedura, lunga e complessa, la facevo minimo 4 volte al giorno.

Non era decisamente un'attività esente da rischi: lavoravo con macchinari in UHV (Ultra Alto Vuoto) davanti ad oblò di vetro resistenti alle altissime differenze di pressione in gioco, nelle cappe maneggiavo resist e diluenti assai cancerogeni oppure utilizzavo acidi fortissimi come l'HF ad alta concentrazione per attacchi liquidi all'ossido di silicio... un errore e mi bucavo la mano da parte a parte o mi sfiguravo il viso. Ovviamente ero sempre ben protetto, con occhiali, con maschere antigas da guerra batteriologica, e in caso di bisogno, con guanti protettivi antiacido molto spessi.

Questi purtroppo però peggioravano drammaticamente la manualità e dunque paradossalmente anche la sicurezza stessa del processo: maneggiare un becker di acido HF puro che fuma, con guanti in teflon da astronauta, senza combinare un disastro distruggendo campioni realizzati con giornate di duro lavoro e mantenendo, senza farmi male, un controllo rigoroso sul processo, non era cosa facile, soprattutto sotto cappa. Spesso dunque, nelle “operazioni chirurgiche” li evitavo, mantenendo l'attenzione ai massimi livelli ed avendo sempre ben cura di aver acqua corrente vicina.

Imbavagliato ed "ammuseruolato", ma per un valido e scientifico motivo

Una cosa però in clean room, a quel tempo la mettevo sempre e con piacere, quello stesso oggetto che oggi invece mi rifiuto categoricamente di indossare: la mascherina chirurgica, o meglio, come la chiamo io, la museruola o anche il bavaglio, la mutanda o altri nomignoli che i miei figli conoscono bene: il simbolo indiscusso oggi della dittatura sanitaria in essere finalizzata al Great Reset economico mondiale.

Vogliate capire, un conto è indossare il fastidioso pezzo di stoffa un paio d'ore al giorno nell'atmosfera controllata della camera bianca per proteggere dispositivi elettronici organici sensibilissimi alle impurità ambientali, un conto è metterla oggi pure per fare jogging in solitudine al mare, riponendo il cervello nel comodino ed abdicando ad ogni spirito critico e minimo buon senso, per proteggersi ipocondriacamente da quello che è diventato poco più che una leggera influenza: non si contano più gli studi che dimostrano in modo schiacciante non solo la totale inutilità della mascherina nella prevenzione e trasmissione del contagio ma anche la sua pericolosità per le vie respiratorie, la sua dannosità sulla salute fisica e mentale delle persone, oltre ad una infinita serie di implicazioni psicologiche sulle quali non mi dilungo. I più curiosi potranno visionare il post “Covid ergo vax”, in costante aggiornamento, dove è riportata ampia, autorevole e soprattutto indipendente letteratura scientifica a sostegno di quanto scritto. In questo blog, l'ho già detto e lo ripeto, compare solo vera scienza. Quella farlocca firmata Pfizer in enorme conflitto d'interesse e minimamente credibile, la lasciamo al PD ed al suo fido e scodinzolante M5S, alla star-virologia televisiva ed a tutti i pennivendoli di regime pronti a farsi il “bagno nel vaccino”.

Le mie pubblicazioni scientifiche negli anni di ricerca al CNR

I processi di realizzazione degli OTFT richiedevano l'utilizzo in camera bianca delle complesse tecniche di fotolitografia tipiche della microelettronica; la deposizione finale del pentacene sui campioni avveniva mediante tecniche PVD (Physical Vaour Deposition) come la SuMBE (supersonic molecular beam epitaxy) o l'evaporazione termica sottovuoto per effetto Joule da sorgente Radak. Passammo molto tempo a metter a punto il processo di crescita degli strati di pentacene su substrati rigidi e flessibili, ottimizzando al massimo tutti i vari parametri in gioco, come la rate di deposizione, la tipologia di interfaccia e gli spessori del film.

Un'area della clean room dell'IMM: in primo piano il RIE (Reactive ion etching), sullo sfondo il nuovo evaporatore del pentacene da me messo a punto

Ben presto io ed il mio gruppo di ricerca capimmo che il trasporto di carica nel pentacene era fortemente influenzato dalle proprietà morfologiche e strutturali del layer organico depositato: le prestazioni degli OTFT dipendevano soprattutto dall’ordine che il film esibiva a livello molecolare, dalla sua qualità, dalla dimensione dei cristalli e dal loro livello di purezza. Lavoravamo dunque innanzitutto in condizioni di pulizia estrema e vuoto estremamente spinto, dell'ordine di grandezza del decimo di miliardesimo di bar: l'evaporatore da noi messo a punto, per resistere a queste incredibili differenze di pressione, aveva pareti con diversi cm di spessore di acciaio inox.

La sorgente Radak dell'evaporatore del pentacene

La difficoltà principale consisteva nello stendere sulla superficie dei transistors in modo ordinato e lentissimo, circa 1 Angstrom al secondo (10-10 metri, ovvero un decimo di miliardesimo di metro), film sottilissimi di pentacene policristallino ben ordinato, dello spessore ottimizzato di circa 10-20 nm (un nanometro è un miliardesimo di metro, dunque 10 Å = 10-9 metri), con i grani più grandi possibili in modo tale da avvicinarsi al massimo alle caratteristiche del “singolo cristallo”.

La mobilità finale dei portatori (lacune, essendo il semiconduttore di tipo p) infatti dipende dalla mobilità all’interno del grano (massima) e dalla mobilità sui bordi di grano (minima): massimizzando le dimensioni dei cristalli automaticamente si massimizzavano le velocità di trasporto di carica e le prestazioni degli OFET.

Questo in realtà era facile e fattibile solo in “top contact” (TC), quando i contatti ohmici d'oro venivano evaporati successivamente alla deposizione di pentacene su substrato uniforme di SiO2 (dove il semiconduttore cresce molto bene) mediante una “shadow mask”, una configurazione però puramente di studio, non “litografica” e dunque non industrializzabile per via dell'imprecisione, della non riproducibilità e dell'impossibilità di realizzare canali corti di lunghezza inferiore ai 20 micron. In “bottom contact” (BC), ovvero nella configurazione ideale, riproducibile e proveniente da litografia, dove il pentacene viene evaporato con i contatti già in posizione, accade invece un mezzo disastro perché il semiconduttore cresce bene nel canale ma molto irregolare e “trappoloso” vicino all'oro, con conseguente drastico peggioramento di tutte le caratteristiche elettriche.

Configurazioni degli OFET Top Contact e Bottom Contact, con e senza PMMA (disegno non in scala)

Franz ebbe la grande idea di risolvere il problema dell'amorfizzazione del pentacene in prossimità dei contatti d'oro di Source e Drain nella configurazione BC, interponendo tra il pentacene ed il substrato di silicio, mediante “spin coating”, un strato di PMMA, un polimero di nome Polimetilmetacrilato di bassissimo costo comunemente utilizzato in clean room, il più sottile possibile, alla massima diluizione e minima temperatura di cottura per avere qualità, omogeneità e continuità del buffer layer ma bassa resistenza in serie ai dispositivi senza alcuna alterazione del contatto ohmico semiconduttore-oro. In questo modo ottenevamo su tutto il campione, pentacene policristallino di ottima qualità, anche in prossimità dei contatti d'oro, con grani di dimensioni intorno al micron (milionesimo di metro), come confermato da immagini AFM (microscopio a forza atomica). Se lo strato di pentacene era di decine di nanometri (da 10 a 50), lo strato di PMMA stimato, aveva uno spessore di soli pochissimi nanometri, probabilmente non più di 7-8, molto difficile tra l'altro anche da misurare, dunque dovevamo arrivarci mediante misure indirette, ad esempio di resistenza elettrica. Parliamo di miliardesimi di metro, l'ordine di grandezza di singole molecole!

Interponendo il polimero tra semiconduttore ed ossido, io e Francesco raggiungemmo valori assai alti di mobilità, superiori addirittura ad 1 cm2/V*s. Le prestazioni dei dispositivi sia in configurazione TC che BC da noi fabbricati in clean room, su substrato rigido di ossido di Silicio con lunghezze di canale variabili da 2 a 100 micron, erano davvero eccellenti e stabili nel tempo, quasi un gradino perfetto tra l'alta corrente di ON e la bassissima corrente di OFF (la ripidità della salita della corrente da sotto a sopra soglia è indicata dal parametro “subthreshold slope”).

Ore ed ore passate in clean room, mi avevano dato un controllo assoluto del processo di realizzazione dei transistors, grande pulizia e riproducibilità estrema nei risultati dei dispositivi. Sì, forse la grande riproducibilità dei risultati era la cosa più importante e gratificante: sapevo che lavorando in un certo modo, rispettando rigorosamente tempistiche, temperature di cottura, velocità di giri dello spinner, rate d'evaporazione, pressione del vuoto, caratteristiche substrati e tante altre cose, compreso il numero di persone che erano dentro la camera bianca, realizzavo dispositivi che avevano sempre le stesse identiche caratteristiche. Non è poco in fisica sperimentale, ve lo assicuro.

Probe station sotto vuoto per le misure elettriche ed in temperatura degli OTFT

Un anno di intenso lavoro mi permette di avere una bellissima tesi di laurea in fisica sperimentale, ed il massimo dei voti con lode, unico quell'anno all'università, con la pubblicazione dei risultati ottenuti in una prestigiosa rivista di fisica, l'Applied Physics Letters: il mio primo articolo scientifico in compartecipazione (allegato 1-APL2005), davvero una bella soddisfazione dopo i tanti anni di studio! I risultati ottenuti erano davvero promettenti ed incoraggianti, dalle ottime prospettive, dunque tutto il processo per sicurezza fu coperto da brevetto: i costi se li accollò la ST Microelectornics di Catania, assai interessata agli sviluppi futuri della ricerca.

Io e Francesco avevamo praticamente ottenuto, in due, ed in pochi mesi, risultati paragonabili con quelli dell'azienda tedesca Infineon, leader indiscussa dei semiconduttori organici, che impiegava, solo nel pentacene, decine di persone da molto più tempo... Che soddisfazione battere i crucchi! All'APL del 2005 seguirono altre importanti pubblicazioni scientifiche che certificarono ulteriormente l'ottimo lavoro svolto e confermarono quanto ancora c'era da fare.

Un OFET in pentacene da me completamente "patternato" con canale da 20 micron

Zoom sul canale da 20 micron (è la zona compresa tra le due strisce verdognole) per apprezzare l'estrema pulizia del mio processo fotolitografico

Purtroppo per me, Francesco ricevette un'offerta non rifiutabile ed io, nonostante la sua richiesta di seguirlo (a proposito, grazie per la stima e la fiducia Franz!) non me la sentii di lasciare Roma e la ricerca appena cominciata che intendevo proseguire. E così il settore dei semiconduttori organici al CNR passò praticamente quasi subito in mano mia, che detenevo tutto il know how teorico e soprattutto sperimentale: una bella sfida, una palestra incredibile, il massimo davvero. Subito belle responsabilità, da poco laureato e totale fiducia da parte dei superiori: condizioni ideali per mettermi alla prova e rendere al meglio, esattamente quello che volevo.

I miei colleghi all'IFN: Francesco de Angelis è il terzo da destra (in piedi con la maglia verde), Matteo Rapisarda è seduto

Gli anni seguenti, assai stimolanti ed appassionanti, saranno dedicati allo studio approfondito delle caratteristiche elettriche dei transistors sia in configurazione Top che Bottom (2-JNCS_2006), alla simulazione computazionale e modellizzazione teorica del comportamento dei semiconduttori organici (3-APL_2006), a test di invecchiamento e stress elettrico sui dispositivi (4-TSF_2007), allo studio delle prestazioni dei TFT al variare dello spessore del film (5-SSE_2008) ed al variare delle condizioni ambientali (6-JKPS_2009) ed infine a prove di incapsulamento con contemporaneo passaggio finale da substrato rigido a flessibile (8-TSF_2009).

Partecipammo inoltre a svariate conferenze e convegni sull'elettronica organica, come l'E-MRS (European Materials Research Society) a Nizza e Strasburgo, l'ITC (International Thin Film Transistor Conference) a Roma e Seoul, l'ICANS a Lisbona (International Conference on Amorphous and Nanocrystalline Semiconductors), l'ICOE (International Conference on Organic Electronics) ad Eindhoven, l'AMFPD (Active Matrix Flat Panel Displays and Devices) ad Hoygo in Giappone.

Ogni tanto, soprattutto nell'ultimo periodo della mia permanenza a Roma mi aiutavano Daniela, postdoc, e Matteo Rapisarda, dottorando a quel tempo più teorico che sperimentale, specializzato nelle simulazioni computazionali dei TFT su silicio amorfo, al quale trasferivo poco a poco tutto il mio sapere sul pentacene e sull'utilizzo di strumenti e macchinari in camera bianca, esattamente come Franz aveva fatto con me.

Una piacevole scoperta: viaggiare solo

Ad un'anima irrequieta come la mia ha sempre dato enorme serenità e senso d'appagamento il forte contatto con la natura più selvaggia, l'ignoto, l'esplorazione, l'imprevisto, l'avventura, l'adrenalina. Per questo mi è sempre piaciuto da pazzi viaggiare. Ma lo avevo sempre fatto in compagnia: quando ero piccolo con i miei genitori ed i miei fratelli, poi con amici e fidanzate. Mai solo.

E' proprio durante il periodo romano di ricerca scientifica, uno dei più belli e spensierati della mia vita, che ho scoperto l'immenso piacere di viaggiare in solitaria; dunque tardi, solo dopo la laurea, intorno ai 26-27 anni.

Da quel momento in poi non mi sono più fermato, nemmeno con moglie e figli piccoli, neanche oggi a quarant'anni passati. Anzi, oggi più di prima, perché le passioni e gli interessi crescono sempre più anziché ridursi ed il desiderio di fuggire da tale società malata, finta, così consumista, materialista e superficiale, è in me sempre più forte. Ed ho capito subito quante occasioni avevo perso aspettando in eterno persone perennemente indecise, a quante esperienze avevo rinunciato, quanti compromessi assurdi ed innaturali avevo accettato mettendomi d'accordo su orari, modalità, luoghi da vedere, cose da fare...

Viaggiare in compagnia di qualcuno è bello ma girovagare per il mondo da soli ha molti più vantaggi: puoi innanzitutto partire quando vuoi, senza attendere le ferie di amici o partner e questo già basterebbe! Ti metti davvero alla prova, uscendo dalla tua comfort zone come non mai. Cerchi molto più l'interazione con i locali, sei obbligato a parlare soltanto la lingua straniera; conosci molte più persone in quanto inevitabilmente, in gruppo o in coppia resti invischiato in dinamiche di gruppo e di coppia. Credo che viaggiare in solitudine sia anche il miglior modo per liberarsi da pregiudizi, superare la paura del diverso ed imparare a conoscere meglio se stessi: per me il viaggio ha sempre rappresentato anzitutto un percorso introspettivo, mi ha sempre aiutato a riflettere ed a prendere decisioni importanti. E poi soli, non si ha la responsabilità di nessuno se non di sé stessi... ricordo che stress ed ansia il primo viaggio nella Papua indonesiana quando davvero mi trovai in una situazione di forte pericolo in mare aperto con moglie ed i bambini piccoli pietrificati dalla paura... e se fosse successo qualcosa? E quando mi si è perso Leonardo piccolino alle Isole Svalbard con rischio reale di attacco orsi polari?

Ma soprattutto, viaggiando soli si ha libertà assoluta a livello decisionale! E' difficilissimo trovare “travel-mates” sulla stessa lunghezza d'onda e nel caso mio, questo più che difficile, è assolutamente impossibile. D'altronde chi è disposto a prendere voli notturni dormendo in aereo per guadagnare tempo, prender pullman scassati con uomini e bestie per ore, arrivare in luoghi sperduti e pericolosi, magari a forte rischio malaria, dengue o mosca tse-tsè, dormire in sacco a pelo su una tavola di legno a -20°C, affittare una bici per spararsi 30-40 km al giorno in mezzo alla giungla, oppure scalare vette andine o himalayane per settimane stando in tenda? Posso realisticamente farlo esclusivamente da solo. Viaggiando solo posso decidere cosa fare, dove andare, senza vincoli e senza compromessi. Dove mangiare, cosa mangiare e se mangiare. A che ora impostare la sveglia e a che ora andare a dormire. Ci sono io, il mio bagaglio (minuscolo), le mie gambe ed il mio coraggio. Anche la mia paura, giusta e doverosa, perché fa tenere gli occhi sempre ben aperti e riduce il rischio di cazzate. Sono libero, come non mai. Libero di essere chi sono davvero e di non apparire forzatamente quello che non sono e non voglio essere.

La solitudine spaventa? Non a me. Io me la godo alla grande. E poi quando ho bisogno di compagnia, viene sempre in mio soccorso l'amico ideale, che c'è solo e soltanto quando voglio io: un bel libro. Io personalmente amo leggere e la lettura si fa da soli, non in mezzo ad una discoteca.

La verità è che io godo della solitudine perché la mia enorme curiosità verso il mondo non mi fa annoiare mai. La verità è che tutto quello che vivo ed esperimento quando viaggio da solo è davvero un’esperienza unica e difficilmente paragonabile a qualcos’altro: in breve, vivo tutto in una maniera enormemente più amplificata. Mi immagino sopra la caldera di Rano Raraku all'Isola di Pasqua, o in vetta al Kala Patthar o sul Gokyo Ri in compagnia di amici chiassosi o di una fidanzata che mi implora di scendere che è stanca... no grazie. Un ricordo buffo di Batu Bolong in Indonesia, ancora ci scherziamo su io e Gaby: io stavo vivendo l'esperienza subacquea più assurda e psichedelica della mia vita che solo chi si è immerso in quell'irreale sito può davvero capire. Gaby, era con me e mi chiedeva di risalire perché aveva freddo! All'equatoreee!!!!!

A parte gli scherzi, mi godo tantissimo gironzolare con moglie e bambini, li ho portati dovunque... però viaggi massacranti e fisicamente molto impegnativi come quelli che ho fatto in Nepal, in Tanzania (al Selous ed in vetta al Kilimangiaro), in Ecuador, in Amazzonia, in Burkina, in Guatemala ad El Mirador, in Costarica ed in tantissimi altri luoghi, realisticamente avrei potuto affrontarli esclusivamente da solo. E se avessi aspettato qualcuno, non li avrei mai fatti.

Poi per carità, dipende molto dal tuo carattere... C'è chi va in panico solo all'idea di trovarsi solo in un aeroporto con tutti i comfort, io da solo, per andar a Gokyo tagliando 3 giorni di viaggio, ho attraversato il ghiacciaio Ngozumpa a 5000 metri di quota sull'Himalaya, gestendo lo stress e l'ansia alla grande con grossi blocchi di pietra che franavano e la morena che gracchiava in modo impressionante: se succedeva qualcosa rimanevo lì per sempre e nessuno mi avrebbe mai ritrovato perché nessuno sapeva che ero lì.

Olanda, da Ehindhoven a Rotterdam

Quando si girava per lavoro o conferenze, chiedevo ai superiori la possibilità di fare un weekend lungo, in quanto spesso i convegni avvenivano di giovedì o martedì e così scorrazzavo due o tre giorni a piacimento. In amministrazione richiedevo rimborsi ridicoli, perché invece di pernottare in hotel 3-4 stelle come mi spettava andavo in ostelli della gioventù, decisamente più consoni al mio stile... Era poi quello il periodo dei voli realmente low cost: ricordo che riuscivo a strappare biglietti Ryanair Ciampino-Stoccolma ad 1 euro sia all'andata che al ritorno e manco chiedevo il rimborso spese! Una volta lo pagai un centesimo. Giuro. I miei superiori spesso non ci credevano...

Il quartier generale della Philips ad Eindhoven

Arte moderna (???) al Van Abbemuseum di Eindhoven

Ricordo un viaggio in Olanda, ad Eindhoven, un paio di giorni di convegno sull'elettronica organica. Dovevamo presentare all'ICOE presso il quartier generale della Philips, un lavoro di spettroscopia Raman sul pentacene. Finita la conferenza tutti rientrarono a Roma. Io invece sono subito scappato al famoso museo di arte moderna, il Van Abbemuseum, un bell'edificio in stile moderno nell'acqua e nel verde dove sono esposti anche alcuni Pablo Picasso, e poi via in treno ad Amsterdam. Qui incontro una bella ragazza italo-olandese che mi sente parlare ed attacca bottone. E' un artista, nostalgica dell'Italia e del suo sole, appassionata di arte (ovviamente) e... canne. Sì, arte e marijuana.

Qui non si vendeva caffè...

Così, dopo profondi suffumigi di THC dentro ad un coffee shop (dove però non vendevano caffè) andiamo insieme al Van Gogh Museum. Madò che visioni! Psichedeliche in tutti i sensi! Ero immobile di fronte agli autoritratti del pittore, ai “Girasoli”, forse il suo dipinto più famoso insieme alla “Notte Stellata” (descritta approfonditamente nel post “La Grande Mela”), di fronte al cupo “I mangiatori di patate” ed all'inquietante “Campo di grano con volo di corvi”, e mi sembrava di entrarci dentro perdendomi nell'infinito.

Foto di merda, non tanto per la pessima fotocamera che avevo, quanto per la mia peggiorata manualità ed evidente alterazione psicofisica. Evito di pubblicarle per non offendere il grande maestro dell'impressionismo. Vi assicuro in ogni caso che, marijuana a parte, vedere un Van Gogh da vicino è un esperienza mistica inenarrabile: è soltanto quando mi sono trovato per la prima volta a 20 cm dai suoi sbuffi di colore in rilievo, dai suoi vortici impazziti dalle diverse tonalità, che ho capito davvero tutta la sua immensa grandezza.

Ingresso del Van Gogh Museum di Amsterdam

Un arrivederci a Vincent Van Gogh ed ai suoi dipinti di valore incalcolabile (che riapprezzerò nuovamente al MoMA di New York ed al D'Orsay di Parigi), un bacio alla bella “artista in erba”, e via in treno ad Utrecht, un'incantevole e giovanile cittadina universitaria, simile alla capitale, ma ancor più affascinante perché più piccola. Ragazzi ovunque. Canali, bellezza diffusa e biciclette.

I canali della splendida Utrecht

Il parcheggio per biciclette su 3 livelli di fronte alla stazione di Amsterdam

Mulini a vento nella strada verso Rotterdam

Quante biciclette ad Utrecht! Ancor più che ad Amsterdam, dove addirittura un intero parcheggio su 3 livelli di fronte alla stazione centrale ed all'Ibis Hotel è dedicato alle due ruote. Spettacolo puro, con donne che trainano carretti con 2 o 3 bambini e macchine quasi inesistenti. L'ho sempre detto: la bicicletta è la nostra vera “intifada verde” contro i combustibili fossili.

L'ultima tappa del mio rapido viaggio in Olanda è stata Rotterdam, dove giungo in treno attraversando distese verdi e monotone di mulini a vento e polders.

Il porto di Rotterdam: riflessioni sulla globalizzazione

Erano quelli gli anni della mia sana e costruttiva “confusione” politica, gli anni in cui stavo costruendo il puzzle mettendo insieme i pezzetti della conoscenza. Ero uno scienziato, o meglio, un aspirante scienziato, ma con tanti pregiudizi politici ed economici, basati sull'ignoranza in materia. Consapevole dei miei limiti, delle mie lacune, cominciai a comprare meno libri di scienza e più di economia e politica, alle quali ricordo mi appassionai in modo esponenziale soprattutto dopo due esami universitari inseriti nel mio piano di studi.

E cominciai a viaggiare sempre di più, sempre più con occhi diversi. Ogni occasione era buona: 3 giorni, una settimana o due, un mese intero. Sempre meno per divertirmi e sempre più per conoscere, scoprire e verificare sul campo quanto appreso dai libri. Più leggevo, più viaggiavo e più capivo che le cose non tornavano. Che nulla era vero di ciò che i media propagandavano sulla bella UE che ci protegge dalla guerra (da sbellicarsi dalle risate, soprattutto oggi...), sulle belle e giuste missioni umanitarie a stelle e strisce per esportare democrazia, sui “regimi” socialisti degli stati non allineati, sul libero mercato che porta e redistribuisce ricchezza, sulla bella globalizzazione che rimuove le barriere, abbassa i prezzi per il popolo e porta lavoro e benessere, sul TINA tatcheriano al capitalismo e neoliberismo (There Is No Alternative), sulle istituzioni di Bretton Woods (Fondo Monetario e Banca Mondiale) che aiutano i paesi poveri... poco a poco, mi costruivo una nuova visione del mondo ed i pezzi del puzzle andavano a loro posto. Tutto magicamente poteva esser spiegato in modo semplicissimo. Sono un fisico sperimentale e teorico con una forma mentis non induttiva ma deduttiva. Ho bisogno di andar dal generale al particolare, da leggi universali alla spiegazione del singolo caso, dal macro al micro. Più capivo di non sapere, più capivo le mie enormi lacune in scienze economiche e politiche, più studiavo. Marx, Lenin, Gramsci i miei grandi maestri.

Oggi il core del puzzle è completo e sempre nuovi pezzetti aggiungo in periferia. Ne rimuovo alcuni quando capisco di aver sbagliato e ne metto altri, ma sono dettagli. Il core centrale è intoccabile perché i principi non sono in nessun modo negoziabili: socialismo, antimperialismo, anticapitalismo, antineoliberismo, reale ambientalismo (non quello alla Greta Thunberg).

Le case cubiche di Rotterdam

Dopo aver dato una rapida occhiata alla città e visitato le famose stranissime case cubiche, ricordo che feci un lungo giro turistico in battello nel porto di Rotterdam. Impressionante davvero. Abnorme. Fuori da ogni immaginazione, con banchine a perdita d'occhio, alte torri, gru ancor più alte che caricano e scaricano gigantesche navi portacontainer.

E' il primo porto d'Europa ed il terzo del mondo per merci circolanti dopo Shangai e Singapore, con una lunghezza complessiva di oltre 40 km. Avete letto bene: 40 km cacchio, da San Benedetto del Tronto a Civitanova Marche!

Quelle ore in barca le ricorderò a vita, perché fu il mio primo vero incontro consapevole con la globalizzazione dei mercati. Rimasi inorridito nel vedere tanta bruttura, tante merci, tanto via vai di camion puzzolenti, tante navi stracariche di container... sapevo ovviamente tutto, l'avevo visto in foto, nei libri; ma dal vivo vi assicuro che è un'altra cosa. Mi mettevano grande tristezza quella fila di navi stracariche di merci a sfidare la legge d'Archimede, gli operai extracomunitari a lavorare sulla banchina e gru alte quanto grattacieli di Manhattan a smistare parallelepipedi mezzi arrugginiti d'acciaio multicolore.

Per la prima volta così, cominciai a riflettere sulla globalizzazione, di cui il container è simbolo indiscusso, che genera inevitabilmente “glebalizzazione” e disuguaglianze sempre crescenti. Pochi ne beneficiano. Moltissimi la subiscono e ne pagano le conseguenze.

La contrazione delle distanze spazio-temporali ce l'hanno presentata come buona e giusta, come un toccasana inevitabile, perché favorisce la mobilità, l'interscambio culturale e l'incremento della concorrenza; ce l'hanno presentata come moltiplicatore di opportunità imprenditoriali e soluzioni, dunque una grande ed unica occasione di crescita economica, non tanto per i paesi ricchi, quanto soprattutto per quelli ai margini dello sviluppo. Da sbudellarsi dalle risate. Un po' come ci presentarono l'euro come soluzione a tutti i mali dell'Italia, che ricordo sempre, prima dell'ingresso nella moneta unica era la quarta potenza mondiale.

Il mantra è stato sempre “globalizzazione = Erasmus”, dunque cultura e gioventù. E viaggi low cost. Che bello no? A proposito di viaggi low cost: sì, lo ammetto, io ne ho beneficiato alla grande. Ma ho anche riparato alla grande, compensando tutte le emissioni da me generate acquistando una foresta in crescita in Costa Rica, rendendo questo blog a totale impatto zero. E vi assicuro che non è costato poco, in termini di tempo e soldi spesi. Sì, sono enormemente orgoglioso di questo.

I tanti containers accatastati nel porto di Rotterdam

La propaganda positivista della sinistra (e della destra) radical chic occulta però strategicamente tutte le sciagure e le tragedie che la globalizzazione si porta dietro: lo sfruttamento del lavoro, la delocalizzazione produttiva, il degrado ambientale, l'aumento delle disuguaglianze, lo strapotere della finanza internazionale e di multinazionali senza scrupoli, l'inevitabile tendenza alla formazione e consolidamento di oligopoli e monopoli, che danneggiano le economie locali sostenibili... altro che libera concorrenza. La globalizzazione è una gara di velocità in pista tra nuove Ferrari, bulimiche ed insaziabili, e scassate fiat 600 degli anni '80 pelle ed ossa. Una gara impari e totalmente sbilanciata in cui chi perde, perde tutto e chi vince si prende il mondo intero.

La globalizzazione genera aumento dell'immigrazione di massa con i disperati provenienti da paesi in costante esplosione demografica, che lasciano le proprie terre in cerca di lavoro, in fuga dalle guerre che i global-capitalisti stessi hanno provocato: andranno a formare il gigantesco “esercito industriale di riserva” di marxiana memoria di cui beneficerà proprio il capitalismo predatorio, favorendo uno scontro tra ultimi (loro, i migranti) e penultimi (i lavoratori autoctoni) che genera ulteriore deflazione salariale “orizzontalizzando” il conflitto ed annullando in partenza la vera lotta di classe verticale. Niente da dire, dal punto di vista dei padroni, un capolavoro assoluto.

Non solo: la globalizzazione genera anche omologazione delle culture e la perdita delle identità locali. Genera un pensiero unico mondiale al quale non si può sfuggire. La mondializzazione è stata ed è un disastro sociale ed economico: è l'istituzionalizzazione della “glebalizzazione”, ovvero della produzione in serie con lo stampino dei nuovi schiavi del XXI° secolo, per giunta pure precari, da sfruttare all'inverosimile perché non sono uomini, ma merci. E difatti la libera circolazione di merci e capitali è un dogma intoccabile dell'ideologia neoliberista. Capitalismo, neoliberismo e globalizzazione sono facce diverse (nemmeno troppo...) di una stessa (orribile) medaglia, causa di ogni, ripeto ogni, problema nel mondo.

Una domanda. Una provocazione. Dove caxxo sono oggi i No Global che 20 anni fa erano a Genova e parlavano di imperialismo, pacifismo, socialismo e costituzione? Oppure di redistribuzione della ricchezza, lotta operaia, società più giusta, diritti sociali, beni e servizi pubblici? Che avevano Marx o Gramsci sul comodino e non Repubblica o L'Espresso?

Rispondo io perché ne conosco tanti. Tutti i sinistroidi di 20 anni fa (un mio caro amico li chiama ironicamente “sinistrati” perché sostiene che hanno fatto un incidente) ora sono del PD. Oggi passeggiano fieri con la tipica aria di superiorità morale ed intellettuale conferita loro da giornali sotto al braccio come Repubblica di Scalfari o La Stampa di Giannini (la cui deriva intellettuale mi sembra davvero in caduta libera) e dal quadruplice buco deltoideo.

Un ventennio buono di martellante propaganda neoliberista europeista ed atlantista ha fatto interiorizzare loro idee che 20 anni fa letteralmente schifavano giudicandole totalmente antitetiche ai loro principi e valori. Una goccia alla volta la propaganda è riuscita a rendere di destra concetti di sinistra e viceversa. D'altronde 20 anni fa mi sembra fossero persone di destra quelle che sostenevano il libero mercato, la globalizzazione, le privatizzazioni, le deregolamentazioni e liberalizzazioni... Berlusconi mi sembra parlava di questo, no? Erano persone di destra quelle che appoggiavano gli USA, senza se e senza ma, nelle loro guerre imperialiste mascherate da missioni umanitarie... Erano nazisti, quelli che avevano svastiche tatuate e capelli rasati. Mi sbaglio?

Ora queste persone sventolano le bandiere ucraine e della NATO; auspicano l'invio di armi (per la pace dicono...) e pensano davvero che i nazisti di Azov siano eroici partigiani appassionati lettori di Kant. E pazienza per svastiche, saette, soli neri, volti di Hitler e simboli vari tatuati nel corpo... che vuoi che sia... e pazienza anche se questi squadroni della morte hanno brutalmente assassinato centinaia di persone nel Donbass. E pazienza, se il governo ucraino è un governo fantoccio (con discendenti di nazisti sfuggiti a Norimberga) messo in piedi nel 2014 dagli USA con un colpo di stato, un governo che ha messo subito fuorilegge tutti i partiti di sinistra (quella vera)... dettagli.

Per queste persone la costituzione italiana è vecchia: va cambiata. E' imperativo cedere sovranità ai mercati, ad enti sovranazionali non eletti. Si vergognano di esporre il tricolore e parlare di patria (a parte quando gioca la nazionale) mentre sventolano orgogliosi le orribili bandiere blu di UE e NATO. Non parlano più di diritti sociali ma solo di diritti civili LGBTQ+?!£%$xyz (scusate non so come cazzo si scrive). Che per carità nulla contro di loro, ci mancherebbe. Ma la (sacrosanta) tutela delle minoranze è già garantita dalla stessa costituzione.

Niente da fare. Gli ex G8 genovesi, sono ossessionati dalla propaganda di gender (da imporre anche a scuola per confondere ulteriormente le idee ad adolescenti in crescita), dall'immigrazione deregolamentata ed incondizionata, dall'Europa (ovvero dal neoliberismo) e dalla servile obbedienza allo Zio Sam. E dallo schifo verso il popolo. Null'altro.

Sì, in questi anni la propaganda ha fatto davvero miracoli. Ma solo su cervelli non liberi, poco coraggiosi ed incapaci di pensiero autonomo. Non è un caso che i No global di una volta, ora orbitanti nell'area della sinistra radical chic capitanata dal PD, dopo essersi bevuti tutte le menzogne neoliberiste di questo ventennio sciagurato, si siano bevuti anche tutte le bufale di quest'ultimo periodo sulla guerra Russia Ucraina (del tipo ospedali pediatrici fatti saltar in aria, soldati russi che stuprano neonati e rapiscono gatti, e via dicendo...). Per non parlare poi del Covid... Ho notato che sono stati proprio loro le persone più cattive, feroci ed intransigenti contro la diversità di opinione in questo biennio di italico delirium tremens.

I problemi dei semiconduttori organici. E' il parylene la soluzione?

Torniamo ai semiconduttori organici. Avete letto le pubblicazioni? Va bbeh, sì, lo so che non le avete lette e se l'avete aperte, comunque non ci avete capito 'na mazza... Bello è? Avete visto che roba? Che mobilità, che stabilità, che prestazioni elettriche? Che ripidità di salita, che rapporto on/off? Che bei grani, grossi grossi belli belli? Una bomba davvero il pentacene vero? Sono diventato ricco e famoso vero? Con tante donne e macchinoni di lusso? Aspettate un attimo... fermi fermi fermi. Non è tutto oro quello che luccica... Non tutto funziona alla perfezione, anzi... E' vero che il processo è ottimamente messo a punto, prestazioni super degli OFET e perfettamente replicabili, ma il tutto è in vuoto e su substrato rigido cristallino inorganico! Già, ma i transistors devono lavorare bene in condizioni reali, non ottimali ed i semiconduttori organici sono studiati per lavorare sopra supporti flessibili... Si tratta dunque in sostanza di fare il grande salto, ovvero dalle condizioni ideali del laboratorio, sotto vuoto e sopra ossido di silicio alle condizioni reali con umidità presente, substrati plastici e temperature variabili, il tutto possibilmente senza degrado alcuno delle prestazioni elettriche nel tempo.

Semplice? Manco per il caxxo. Il passaggio a dispositivi all-organic introduce ulteriori step e punti interrogativi come ad esempio la ricerca di un isolante di buona qualità e alta costante dielettrica sul quale il pentacene “cresca” bene o il PMMA si “spinni” bene. Un dielettrico può avere proprietà eccezionali di costo e prestazioni, ma poi i 5 anelli benzenici da strapazzo possono (e spesso lo fanno! Sigh sigh...) decidere di crescere molto male sopra di esso, oppure il buffer layer di PMMA può crescere molto irregolare creando nel semiconduttore molte “trappole”, ovvero “imperfezioni di banda”, come le chiamano i capoccioni.

E poi ci sono i tre i grandi talloni d'Achille di tutti semiconduttori organici, ai quali la Ferrari di formula chimica C22H14 non sfugge:

  • sensibilità a liquidi e solventi;
  • sensibilità all'alta temperatura;
  • sensibilità all'umidità.

Mentre il silicio lavora alla grande ben oltre i 100°C, le plastiche a questa temperatura sono praticamente al punto di fusione ed i processi di degrado cominciano già solo a 50-60 gradi: immaginate dunque Cipolloni Stefano e De Angelis Francesco che vendono al mercato di Porta Portese un “telefonino organico” flessibile con display a matrice di OTFT in pentacene a 1000 euro e lo sfortunato (ed ingenuo) acquirente lascia il cellulare in macchina sotto il sole cocente di luglio. Dentro all'abitacolo si possono raggiungere in una giornata rovente anche 80°C. Bene, 1000 euro buttati nel cesso perché l'iphone organico si trasforma in una pappetta maleodorante nero-blu. Per non parlare del surriscaldamento dovuto allo stress elettrico. E' impensabile che un display possa cominciare a degradarsi a soli 50°C: vuol dire praticamente che esso non può esser portato al mare!

Il fatto poi di esser sensibili a liquidi e solventi, vuol dire che sopra di essi il processo fotolitografico standard della microelettronica dei circuiti integrati non può esser fatto: non poter adoperare tale tecnica vuol dire praticamente avere un semiconduttore che funziona in laboratorio ma è inutilizzabile nella realtà. Senza dilungarmi troppo, la litografia prevede infatti la deposizione sul campione di uno strato di resist (un polimero fotosensibile) liquido (con solventi) da “spinnare”, ovvero far ruotare a grande velocità per ridurre lo spessore, che poi va cotto in hot plate o forno; infine si espone mediante opportune maschere il resist alla luce per poi rimuovere selettivamente strati non desiderati mediante attacchi liquidi (lift-off) e/o a secco (RIE, Reactive Ion Etching). Già capite, che basta uno solo dei due processi in sequenza, deposizione di resist (prima) e cottura (dopo), per distruggere il semiconduttore. Se qualche molecola di benzene è eroica (come i nazisti assassini del battaglione Azov ucraino che la sinistra radical chic mondiale ha spacciato per eroi partigiani) e sopravvive allo spinner, ci pensa poi il forno a stecchirla del tutto.

Altro enorme problema nel caso del pentacene, forse il maggiore dei 3, è l'umidità. Misurando i dispositivi sotto vuoto ed in atmosfera controllata di azoto ed ossigeno secco, ottenevamo prestazioni del tutto sovrapponibili (6-JKPS_2009) mentre in aria queste peggioravano drammaticamente, tanto più quanto maggiore era il tasso d'umidità. Il fenomeno di degrado era comunque totalmente reversibile, nel senso che ripristinando le condizioni di vuoto, il sistema tornava alle prestazioni iniziali.

Schema di incapsulamento di OFET Bottom Contact (non in scala)

Dovevamo dunque trovare un incapsulante del pentacene, ovviamente ottimo isolante elettrico, depositabile sopra il film attivo senza danneggiarlo termicamente e meccanicamente, dunque con procedimento a secco ed a bassa temperatura, che consentisse in primis la litografia del semiconduttore organico e che allo stesso tempo fungesse da blocco all'umidità ambientale. Feci tante prove con vari materiali inorganici come gli economici ossido di silicio SiOx e fluoruro di Litio LiF evaporati, ossiodo di Silicio SiO2 e Nitruro di Silicio Si3N4 depositati a bassa temperatura per ECR-PECVD... utilizzai anche il polimero che si deposita a secco sul fondo del RIE utilizzando in un certo modo il gas CHF3, ma i risultati furono sempre alquanto deludenti. Dopo 3 anni al CNR, ero arrivato ad un punto di stallo dal quale non uscivo. Ma i risultati dovevano arrivare! Me li meritavo, ce li meritavamo tutti... anche la ST Microelectronics di Catania, che giustamente spingeva e finanziava in parte lo studio. Ricordo che mi sentivo un bel peso addosso... molte notti le passavo in bianco pensando a come potessi incapsulare la Ferrari dei semiconduttori organici.

Il parylene sembrava a tutti noi il candidato ideale, perfetto, forse pure troppo, per tanti motivi. E' estremamente stabile in aria, chimicamente inerte, robusto, biocompatibile e resistente ai solventi, con ottime proprietà isolanti, ottime proprietà di barriera contro quasi tutte le sostanze e gli influssi ambientali, radiazioni UV comprese. E' depositabile in film molto sottili mediante un procedimento a secco ed a temperatura ambiente (25°C), in quanto esso polimerizza solo su superfici fredde, motivo per cui il substrato non è sottoposto ad alcuna sollecitazione termica. Idrorepellente pure! Bingo.

Sì, il parylene è la mia unica speranza... non sembra davvero esserci un altro materiale isolante con le sue caratteristiche. Solo lui davvero può far il miracolo... o lui o null'altro... Il pentacene è una bomba ma sensibilissimo a tutto: se nemmeno il parylene ce la fa con un dolce processo di deposizione a 25°C è la fine... non saprei davvero più dove andar a sbattere la testa.

Così nel 2007 preparo in clean room un bel set di dispositivi per andare a Stoccolma, dove sono in contatto con Paratech inc, azienda che produce e deposita il polimero. Ci andrò altre volte a completare ed ottimizzare il processo. Per impedire ogni forma possibile di degrado e danneggiamento dei transistors, trasporto addirittura i campioni sotto vuoto, mediante un rocchetto metallico che occupava tutto il mio trolley. Non so davvero come sono riuscito a farlo passare in aereo... Parylene, sei la mia ultima speranza!

Il vascello del Vasa a Stoccolma

A Stoccolma, interagisco con un dirigente della Paratech inc. Scandinavia, davvero gentilissimo, il quale in tutti i miei viaggi mi accoglierà sempre con grande cortesia e disponibilità, facendomi visitare tutti i settori dell'azienda, presentandomi a tutti i dipendenti e descrivendomi dettagliatamente tutte le fasi del processo e le innumerevoli applicazioni del loro polimero. Mi invitò anche un paio di volte a cena a casa sua, uno splendido villino singolo in riva al mare in una delle tante isolette dell'arcipelago intorno a Stoccolma.

Panorami bucolici dell'arcipelago intorno Stoccolma

Il posto era incantevole. Ci si arrivava in auto ma anche in barca. Un'isola verdissima, i pontili di legno di attracco con le barche parcheggiate, e casette basse e colorate sparse qua e là in mezzo alla natura rigogliosa. Profumo di erba bagnata (non quella dell'artista di Amsterdam). L'odore del legno del pavimento e del mobilio, una cenetta al calduccio con un bicchiere di vino... Spettacolo. Fuori il buio ed il freddo. Dalla finestra si intravedevano cervi e cerbiatti che gironzolavano indisturbati nel prato. Sì, visioni bucoliche indimenticabili, anche se indubbiamente la visione più bella a cena la avevo di fronte a me ed era la bionda figlia ventenne del dirigente.

A cena dal dirigente della Paratech

Stoccolma è una delle città nordeuropee più affascinanti. Regale, verde, estremamente pulita, una bellissima metropolitana, con molte stazioni trasformate negli anni in vere e proprie opere d'arte con creazioni ad hoc e pareti rocciose dei tunnel lasciate a vista e dipinte con i colori vivacissimi.

Tra una deposizione di Parylene e l'altra, tra un pensiero romantico alla bella figlia ed uno meno romantico e più ansiogeno ai risultati che voglio portare con tutto me stesso al mio gruppo di ricerca, ho gironzolato un po' per la città ed apprezzato il suo arcipelago, il palazzo reale, il quartiere centrale di Gamla Stan e l'area di Skansen. Una cosa però mi ha colpito particolarmente: il relitto del Vasa. No no, non ho fatto immersioni a Stoccolma. Non avevo dietro la muta stagna né l'attrezzatura, ed oltretutto non avrei avuto nemmeno il tempo.

Il relitto è in superficie, dentro l'omonimo museo che oggi costituisce la principale attrazione del paese. Un ingresso al Vasa è un viaggio nel tempo: le lancette tornano indietro di 400 anni e ti ritrovi come per incanto di fronte ad un vero vascello di guerra, l'unico sopravvissuto e giunto fino a noi quasi intatto, col 95% del legno originale. Il museo è molto buio, per cui ottenere foto di qualità è piuttosto difficile. Poi figurati con la fotocamera del cacchio che ho...

Il museo del Vasa

La storia del vascello Vasa ha dell'incredibile. Un Titanic all'ennesima potenza, anzi peggio. Una colossale figura di merda da parte di un re megalomane e tecnicamente incompetente, ma anche una tragedia perché molte persone morirono.

Nel 1626, Gustavo III Adolfo di Svezia, visto il gap della flotta svedese con le altre dei paesi confinanti, commissionò la costruzione di una grande nave da guerra: sarebbe dovuta essere l'ammiraglia del suo esercito e doveva superare tutti i record dell'epoca. Circa 300 artigiani si misero a lavoro ininterrottamente per 3 anni per costruire il gioiello del re che secondo le sue intenzioni, doveva resistere a venti fortissimi e persino alle cannonate: l'albero maestro era alto oltre 50 metri con ben 10 vele, la nave era lunga quasi 70 metri per 1200 tonnellate di stazza con 64 cannoni e circa 150 marinai impiegati.

Il re voleva rivaleggiare con i danesi superando le loro navi da guerra in ogni aspetto e mise spesso bocca nella costruzione del vascello con pesanti ingerenze ed interferenze, imponendo costanti e pericolose modifiche al progetto iniziale, a cui gli artigiani del tempo erano impreparati. Al re impiccione e presuntuoso gli artigiani non potevano chiaramente dire no; la sua testardaggine era direttamente proporzionale alla sua incompetenza navale ed ignoranza dei più basilari principi di fisica e tecnica. Un po' come quell'assassino di Speranza che gracchia dall'alto della sua laurea in scienze politiche su vaccini e museruole ripetendo a pappagallo quello che gli “suggeriscono” membri del CTS con conflitto d'interessi grosso come una casa, o del generale Figliuolo che dall'alto dei suoi stemmi Nato macchiati di sangue, ben luccicanti nel petto, disquisisce di virus e varianti, senza aver mai aperto un solo libro di biologia in tutta la sua vita. E per chi non lo sapesse, a fine mandato da commissario straordinario, dopo aver obbedito ciecamente alle elite di Davos, ha ricevuto un bel premio, un aumento di stipendio di 60.000 euro all'anno per portare la guerra in Europa. Non divaghiamo, lasciamo perdere questi vili traditori del popolo e della patria, e torniamo al re pazzo.

A chiglia completata, il re, venne a sapere di costruzioni danesi di dimensioni simili, cosicché impose un significativo e pericoloso allungamento della nave, che andava poi dotata anche di una seconda fila di cannoni. Fece portare a bordo tonnellate di quadri, pesante mobilio, cristallerie ed altre cazzate varie totalmente inutili per una nave da guerra, fece abbellire la prua con statue e decorazioni, peggiorando decisamente la stabilità della nave, la quale veniva caricata di maggior peso sui ponti superiori causando un notevole e pericoloso innalzamento del centro di massa.

Contemporaneamente, l'aumento del peso portò il livello di immersione dello scafo pericolosamente vicino ai portelli aperti dei cannoni più grandi, che per motivi di stabilità erano alloggiati al ponte inferiore. Come non bastasse, il mastro carpentiere che aveva supervisionato fino ad allora la costruzione e che tentava invano di far ragionare il re o comunque di trovare compromessi accettabili, si ammalò e morì, portando nella tomba con se tutto il know how necessario al completamento del vascello, lasciando tutta la baracca ad inesperti apprendisti. Furono proprio loro a proseguire il lavoro, oltretutto senza le palle per fronteggiare la presenza assillante del re.

Il galeone che ne risultò era davvero imponente, il più equipaggiato ed armato della sua epoca, probabilmente anche il più lento, ma questo aveva minor importanza. Il vascello era eccessivamente lungo e troppo alto rispetto alla larghezza, con baricentro troppo alto dunque pericolosamente instabile. Venne aumentata la zavorra, al prezzo però di una maggior immersione dello scafo, dunque di un maggior avvicinamento del livello dell'acqua ai portelloni aperti dei cannoni.

Pensate che lo stesso collaudo del Vasa andò male! A quel tempo, l’unico modo per verificare la stabilità di un vascello era attraverso rudimentali prove di rollio, osservando l'oscillazione della nave quando 30 marinai correvano da un bordo all'altro tutti insieme. L'ammiraglio in carica dovette fermare immediatamente la prova perché la nave oscillò pericolosamente.

I problemi di stabilità erano evidentissimi a tutti, ma nessuno ebbe il coraggio di opporsi al re che fremeva per mostrare al mondo il simbolo della magnificenza del suo regno e pertanto pretendeva il varo prima possibile. La nave fu stabilizzata “alla carlona” caricando quanta più zavorra possibile, finché non c'era più spazio, al prezzo tuttavia di abbassare ulteriormente la linea di galleggiamento. Oggi sappiamo che il Vasa imbarcava 120 tonnellate di zavorra, mentre avrebbe avuto bisogno di oltre il doppio. Insomma, la ricetta per il disastro era perfetta.

Modellino del Vasa al museo con la la sezione dello scafo

Tre anni dopo l’inizio dei lavori, il 10 agosto 1628, alla presenza di migliaia di abitanti di Stoccolma, il Vasa uscì dal porto. Dopo aver percorso meno di un miglio marino, bastò una semplice raffica di vento, di nemmeno 8 nodi, dunque classificabile nella scala di Beaufort come “brezza tesa” a far inclinare pericolosamente sul lato sinistro la nave, che cominciò ad imbarcare acqua nei portelli dei cannoni, come già detto assai vicini alla linea di galleggiamento. Per capirci, nella stessa scala, il vento classificato come forte è a circa 30 nodi!

La nave affondò molto rapidamente ad appena 120 metri dalla costa, di fronte a mezza Stoccolma sbigottita e sotto choc, accorsa per inneggiare il re, adagiandosi su di un fondale fangoso a circa una trentina di metri di profondità. Circa una cinquantina di persone morirono nel naufragio, nonostante le tante imbarcazioni accorse subito in aiuto.

Una specie di Titanic insomma, per capirci. Solo che il Titanic affondò al terzo giorno di viaggio senza esser visto da nessuno. Questo galeone affondò subito, il giorno stesso del varo, pochi minuti dopo del varo, davanti agli occhi di tutti. Credo sia la più colossale figura di merda mai fatta da un re nella storia dell'umanità, oltre ovviamente ad una grande tragedia perché l'incompetenza e le manie di grandezza del re fecero passar a miglior vita decine di persone che non c'entravano nulla.

Il vascello durante le operazioni di recupero, il 14 maggio 1961

Nel 1956 Anders Franzén, ingegnere e storico navale svedese, scoprì il relitto del vascello a 33 metri di profondità praticamente intatto, assieme agli scheletri di 25 persone. Egli pensò alla possibilità di recuperare il relitto utilizzando le tecnologie più moderne e la collaborazione della Marina svedese.

La bassa temperatura del Mar Baltico, stabilmente sotto i 5 gradi, l'ambiente anossico ovvero la quasi totale mancanza di ossigeno nel fango, la sua modesta salinità che non permette la presenza del verme delle navi che divora il legno, l'ottima qualità del massiccio legno di rovere usato per costruire lo scafo, hanno garantito un ottimo stato di conservazione del galeone, a tal punto che, dopo le operazioni di pompaggio e sigillo di falle e portelli, il vascello tornò nuovamente a galleggiare.

Dopo essere rimasto oltre tre secoli sott'acqua, esattamente 333 anni dopo, la Svezia riuscì nel 1961 a ripescare il relitto e sottoporlo a lunghi anni di studio ed impressionante restauro. Oggi la nave del XVII secolo meglio conservata al mondo è lì, magnifica nella sua imponente instabilità, a testimoniare la lucida follia ed il megalomane delirio di onnipotenza di un re svedese, il Mario Draghi di Svezia del XVII secolo.

Parylene, come è finita la vicenda?

Ah già... scusate... mi ero distratto parlando di re megalomani (antichi e contemporanei), vascelli affondati e di belle figlie bionde di dirigenti d'azienda ed ho perso di vista l'argomento principale, ovvero l'incapsulamento del pentacene. Continuiamo, per il capitolo finale della vicenda della mia scienza senza h (leggete “Covid ergo vax” in “Pensieri” capirete la differenza). La deposizione del parylene alla Paratech fu perfetta. Tornato a Roma, iniziai lunghi mesi di misure elettriche ed analisi statistica dei dati, prove di annealing e stress test; misi a punto la litografia finale dei dispositivi, in modo da avere Surce, Drain e Gate completamente (in gergo nostro...) “patternati”.

Campioni di dispositivi pronti per la deposizione CVD del Parylene... Incrociamo le dita!!!

Chemical Vapor Deposition System del Parylene alla Paratech di Stoccolma

Come è andata? Bene, anzi benone. Ma non benissimo. I risultati furono ottimi, ma non eccellenti. Voto complessivo 9 su 10. Dai, 9 e mezzo ad essere buoni. Ma non 10 e lode. Che significa? Andiamo con ordine. Deposizione ok, perfetta, non degrada lo strato attivo. E' vero che avveniva a bassa temperatura, ma non era assolutamente scontato. Ed è già tantissimo, perché è la prima volta che un materiale depositato sopra il semiconduttore, non lo danneggia irreparabilmente. Non solo, il parylene è effettivamente una barriera efficacissima contro tutti i più comuni solventi, dunque consente il patterning litografico dei dispositivi. Eccellente! Di più: in modo incredibile, protegge lo strato attivo dalle alte temperature, consentendo di portare i campioni fino a 120°C, non soltanto senza alcun degrado del pentacene, ma addirittura con grande e progressivo miglioramento delle sue caratteristiche elettriche!

Ricordo che stavo misurando le caratteristiche I-V dei transistor insieme a Luigi Mariucci e rimanevo sbalordito. Cuocevo il campione e misuravo, passando dal forno alla probe station, ogni volta aumentando la temperatura per sicurezza di soli 5°C... caratteristiche sempre più belle, mobilità sempre maggiori, subtrhreshold sempre più ripide, indice di progressivo maggior ordine molecolare. Isteresi praticamente nulla. Ero contentissimo!

Ok, riassumiamo finora quanto visto: la deposizione CVD (Chemical Vapor Deposition) del Parylene non degrada il pentacene, consente la litografia e l'annealing dei dispositivi, i quali migliorano progressivamente le loro performances, rimanendo stabili nel tempo e poco sensibili agli effetti dello stress elettrico... grandissimo finora!!!! Madò che goduria!!! Strepitoso.

Manca l'ultima cosa, la ciliegina sulla torta: le caratteristiche in vuoto sono come quelle in aria? Ovvero, il parylene riesce a proteggere i dispositivi dall'umidità? Rullo di tamburi... Se sì, ho fatto 13 al superenalotto ed il capolavoro è completo! Mi aspetta fama mondiale, titoloni su Repubblica (anche no, grazie), ricchezza infinita, bellissime donne a volontà, ricevimenti dal presidente della Repubblica (anche no, grazie, non ho alcuna stima di Napolitano né di tutti i servi dell'UE e della NATO che lo hanno preceduto e seguito), onori e gloria nei secoli dei secoli amen e premio Nobel per la fisica. Scherzo ovviamente. Non mi aspetta un cazzo di niente, solo una pacca sulle spalle, il rinnovo di un contratto sempre più precario da 1000 euro mensili ed un sincero “bravo” dal mio gruppo; come quando Rio, il mio cane piscia nella traversina, nel posto giusto ed io gli dico “bravo, bravo, bravissimo” e gli allungo per premio una crocchetta.

La risposta alla domanda di cui sopra è... purtroppo no. Nessuna crocchetta per me. Ho pisciato fuori dalla traversina. Le caratteristiche sono peggiori. Niente da fare. L'umidità passa, non si sa come e dove, ma passa, sta maledetta acqua di merda. Eppure il parylene è idrorepellente! Come è possibile? Niente da fare, prove ripetute successive confermano tutto. L'umidità passa, mortacci sua. Dunque o ci trasferiamo tutti su Marte o Saturno per utilizzare cellulari flessibili in pentacene e parylene, oppure la ricerca continua.

Gli OTFT dell'IFN, finché sottovuoto, sono una bomba, poi, aprendo la gate in probe station e facendo entrar aria in camera di misura, il disastro. Disastro reversibile, come già detto, ma comunque disastro, con isteresi paurosa tra salita e discesa, aumento di corrente sottosoglia e peggioramento drastico della mobilità delle lacune e della subthreshold slope.

Ok ok, non è in ogni caso una tragedia, anzi. Complessivamente le missioni a Stoccolma, sono state un successo, perché tutto va alla grande tranne la protezione dall'umidità. Pensavo in sostanza che il parylene potesse fungere contemporaneamente sia da “litografante” sia da incapsulante del pentacene. Invece fa, e benissimo, solo la prima cosa. E dici niente! La litografia su OFET bottom contact sembrava un ostacolo insuperabile, un obiettivo che soltanto pochi mesi prima sembrava impossibile da raggiungere! Gli ottimi risultati furono così presentati al mondo all'AMFPD (active matrix Flatpanel displays and devices) di Hyogo in Giappone.

Il pentacene può dunque esser litografato senza degrado. Bisognerà trovare a questo punto nuovi materiali idrorepellenti, da depositare sopra al parylene che riescono a bloccare il passaggio dell'umidità allo strato attivo di semiconduttore, rendendo le caratteristiche misurate in aria quanto più simili a quelle misurate in vuoto. Proveremo con resist Acryl ed Acryl più alluminio, con buoni risultati e migliori caratteristiche di barriera ambientale (pubblicazione 7-TSF_2009), utilizzando anche substrati plastici per il passaggio finale definitivo all'elettronica flessibile.

Il più bell'imprevisto della mia vita

Dovevo fare bingo. Volevo fare bingo. Volevo chiudere in bellezza la mia esperienza al CNR con una bellissima pubblicazione con primo nome, che secondo la mia idea, avrebbe dovuto rappresentare il faro, la stella polare, il riferimento dell'elettronica organica su pentacene degli anni seguenti. Volevo un 10 e lode, da perfezionista quale sono. Brutta cosa il perfezionismo, lo dico sempre anche a mia figlia Maya che lo è... Fa vivere male. Molto meglio invece, adottare per la propria vita una famosissima filosofia zen, non buddhista ma romana de Roma, la quale promette la risoluzione di ogni ansia e stress della quotidianità. Segnatevela: è il “metodo sticazzi".

Quei 5 anni romani furono comunque un successo, anche se non totale. Sono arrivato alla finale di Champions contro il Real Madrid. Non ho vinto 5-0 dominando in lungo ed in largo facendo una tripletta con gol in rovesciata ed annessa pernacchia in faccia a Benzemà, doppi passi a Marcelo e tunnel ripetuti ad un inferocito Sergio Ramos, ma sono arrivato a fatica ai tempi supplementari e poi ai rigori.

La partita poi l'ho persa, calciando alle stelle il tiro finale, come fece Roberto Baggio ad USA '94 che sparò il pallone in orbita sulla Luna. Senza scomodare campionissimi di calcio, ma soltanto fedeli cagnolini, ho pisciando fuori dalla traversina, come fa Rio ogni tanto quando è distratto. E che ve devo dì, mi scappava la pipì.

A volte però nella vita ci si deve accontentare. Dopo anni di intensi e faticosi studi, io ho giocato nella Champions League della ricerca scientifica, insieme ai Cristiano Ronaldo e Lionel Messi, ho accumulato tanta esperienza e pubblicato studi. Tanta soddisfazione e gratificazione, sia personale che professionale. Io in quegli anni romani ho fatto il massimo di quello che potevo, dato il massimo ed ottenuto buonissimi risultati. E questo basta. Può bastare. Via, verso l'infinito ed oltre. Nuova vita, nuove sfide.

Nel 2008, capì per la prima volta che aveva ragione il mio amico Francesco. Per la mia carriera il Consiglio Nazionale delle Ricerche andava benissimo, essendo una palestra teorica e sperimentale pazzesca, soprattutto all'IFN con grandi professionisti nel gruppo ed una facility di tutto rispetto. Ma 3-4 anni non di più. Il CNR oggi è un un carrozzone statale che vive della gloria del passato, un ente in fase di smantellamento, con accorpamenti, tagli, ristrutturazioni e pochissime assunzioni in programma. Non ci sono soldi e ce ne saranno sempre meno causa Maastricht perché il neoliberismo deve uccidere per sempre la ricerca pubblica indipendente. I ricercatori a tempo indeterminato sono pochi e mediamente "vecchi", con diritti e tutela del lavoro che valgono dunque solo per il personale di servizio, ovviamente sovradimensionato, ma non per la maggior parte degli scienziati che pubblicano lavori di importanza mondiale.

In quel contesto, io ero l'ultimissimo arrivato e con tante persone davanti a me da stabilizzare. Avrei avuto di fronte, se tutto andava per il meglio, almeno un'altra decina d'anni di precariato, con co.co.co., borse di studio o assegni di ricerca. Non una bella cosa sicuramente a quasi 30 anni per un laureato in fisica con lode; all'estero le opportunità sarebbero state ben diverse.

Io a Roma stavo benissimo, a parte un paio di questioni che comunque sempre ci sono in qualsiasi posto di lavoro. Le condizioni e le persone erano però cambiate. La “spending rewiew” (una parola da orgasmo per il PD) ci obbligò ad abbandonare il piccolo, vecchio ma ottimo IFN sulla Tiburtina per il nuovo, più grande e burocratizzato IMM (Istituto di Microelettronica e Microsistemi) di Tor Vergata: erano da rimettere a punto tutte le macchine e tutti i processi.

La squadra all'IMM era nuova: con Matteo avevo bel feeling, con altri meno. Abituato all'IFN a far tantissimo durante la giornata, nel nuovo istituto invece mi ritrovavo a far tutto con una lentezza esasperante. Prima entravo ed uscivo dalla camera bianca non si sa quante volte al giorno ottimizzando al massimo gli inevitabili tempi morti d'attesa (come ad esempio il raggiungimento di condizioni di vuoto adeguate etc...), ora per l'ingresso era necessaria programmazione accurata e prenotazione anticipata. Andavano prenotate le macchine, addirittura le cappe. L'imprevisto non era minimamente contemplato. Il tempo volava e si faceva poco, proprio quando invece si doveva far di più perché i risultati con il parylene erano molto promettenti.

Ingresso dell'IMM, l'Istituto di Microelettronica e Microsistemi a Tor Vergata

Avevo la consapevolezza di esser ad un bivio. O quello per tutta la vita, con un'altra decina d'anni di precariato e stipendi da fame prima di un posto da ricercatore (per giunta con stipendio da insegnante di liceo), oppure il salto. A 30 anni era il momento, già con buona esperienza di ricerca e un bel curriculum alle spalle. Volevo nuovi stimoli.

Io il pallino dell'ambiente e delle energie rinnovabili non l'avevo mai abbandonato. Con gli organici pensavo nel tempo di potermi dedicare al fotovoltaico organico, ma questo non accadde perché troppo lavoro c'era ancora da fare sugli OTFT pilota degli emettitori negli schermi AMOLED e nella sensoristica. Nuove scoperte chiamavano sempre nuove ricerche. E così, stavo pensando, con sempre più consapevolezza che fosse davvero la cosa giusta, di fare un dottorato ben retribuito e tutto in lingua inglese, alla Ca' Foscari di Venezia in Scienza e Gestione dei Cambiamenti Climatici. Ottobre 2008 inizio corso. Posti limitati: si accedeva mediante concorso pubblico. Proprio ad inizio 2008 ci furono i primi positivi contatti esplorativi col responsabile del dottorato, il quale sosteneva che con il mio voto di laurea con lode, le pubblicazioni, l'esperienza già acquisita ed un concorso pubblico già vinto nell'ambito della ricerca, avrei avuto ottime chances di entrare.

Mhmmmm.... topo da laboratorio analizzando TFT invisibili di scala nanometrica oppure ricercatore magari in Antartide o alle Isole Svalbard come Checco Zalone in Quo Vado? Non ho dubbi. Al micro preferisco il macro. Dunque, Checco Zalone forever. Farò domanda a Venezia e proverò ad entrare a questo bellissimo dottorato di ricerca.

La vita però aveva per me in serbo un'altra strada. Una telefonata Skype dal Messico sconvolgerà tutti i piani. Un imprevisto. Un meraviglioso imprevisto, il più bello di tutti (per i curiosi, è tutto nel capitolo finale del post Storia dalla mia vita), cambia tutto e sconvolge la mia esistenza. Rovescia i paradigmi. Inverte le priorità. Altro che Antartide o Svalbard! Basta a cazzeggiare. Ora c'è davvero da corciarsi le maniche e smettere di giocare a fare gli inventori.

La mia breve parentesi nel mondo della ricerca scientifica termina qui. Con quella telefonata. Pochi anni. Pochi ma buoni e vissuti alla grande. Matteo è prontissimo e può camminare da solo. Vai Mattè e portami 'sto pentacene sull'Olimpo mondiale dei semiconduttori!

In ogni caso, lavorare al CNR, all'ENEA o all'INFN sotto al Gran Sasso, in un vano ascensore attaccato a 15 metri d'altezza a stringere bulloni con imbrago alpinistico, sopra un tetto o un lastrico solare montando pannelli fotovoltaici, in campagna a zappare la terra o insegnando proporzioni e teoremi di Pitagora a scuola, ha poca importanza. La ricerca continua ogni giorno nella vita reale. Io sarò ricercatore a vita perché la sete di conoscenza in me è troppo grande.

Ogni viaggio, ogni esperienza, ogni incontro, libro o brano al pianoforte, ogni dialogo con i miei figli, è un passettino in più verso il completamento del grande puzzle della vita. Come già detto il core è completo, intoccabile, non negoziabile. Non la periferia. La ricerca della verità terminerà probabilmente soltanto l'ultimo dei miei giorni, quando finalmente troverò risposta al mistero più grande, alla domanda delle domande: l'esistenza o meno di Dio.